[Tra tante esperienze professionali, quella olimpica con Coca-Cola per Torino 2006 è stata senz'altro la più formativa e anche la più gratificante. Eravamo una squadra, ci volevamo bene, sapevamo fare il nostro lavoro, ridevamo spesso e con poco, avevamo un traguardo che non era soltanto lavorativo... e il nostro capo, che pure era un uomo complesso e per questo non sempre leggibile, possedeva virtù che pochi condividono: era giusto, leale, affidabile. Mi manca quell'incantevole inverno, mi mancano le persone che lo hanno popolato e che tanta parte hanno avuto nella mia ritrovata serenità.
Una raccolta di giocosi "camei" dedicati ai clienti, colleghi e co-fornitori di allora.]
At a venue
Dall’angolo
Adagio
s’apre l’ascensore…
... ed è lei che vedo, la Mary G. Si
chiama Maria Grazia, in realtà, ma
credo di averla chiamata Maria Giulia per quei sette-nove giorni finché lei
stessa non mi ha fatto notare, molto educatamente, l’errore. Adesso la chiamo
Mary G. perché trovo che le si attagli. E’ giovane e carina, esile come un
foglio di carta di riso e sempre curatissima nel suo look, anche quotidiano. E’
la nostra receptionist, e sicuramente ha una bella pazienza. Riceve gli ospiti,
li intrattiene un minimo mentre li inserisce nel database, poi li dota di
badge, cordino e quant’altro, e via che li spedisce dentro, smistandoli tra i
vari uffici o nei meandri delle scrivanie. Col fatto che funge da “padrona del
forte”, è tenuta a sapere che cosa facciamo noialtri, e già questo non è
facile. Perché siamo tanti e ci auto-gestiamo. Prendiamo appuntamenti ma poi li
annulliamo e ne prendiamo degli altri, che non le comunichiamo. E la povera
Mary G si dibatte tra le nostre agende, in versione elettronica o meno, il
tutto conservando il sorriso. La sua parlata lombarda è lenta e sincera, e il
suo intervento ovunque nell’ufficio si manifesta in sordina, con assoluta
discrezione. Un cartello aggiunto di qua, un cooler rabboccato di là. Ma in
silenzio, con fluida efficienza.
Il mese scorso abbiamo avuto i ladri
che si sono portati via un plasma e il computer della Mary G. (ma non lei,
grazie al cielo). Per giorni la sventurata si è aggirata circospetta, in un
ufficio che non aveva più porta (un’anta era stata infranta e l’altra da sola
faceva ben poco) e dietro una scrivania che era ritornata ai tempi della carta
e della penna. Il danno è poi stato riparato, e la situazione si è lentamente
normalizzata. Dopo un lasso di legittimo nervosismo, Mary G. è tornata a
ticchettare sul (nuovo) computer, e se anche sente la mancanza del plasma (ma,
a guardarla, non si direbbe), certo non lo dà a vedere.
L’ampio open space che si apre dopo la
reception, al di là di un’anonima porta a vetri, ospita una piccola umanità
difforme, a sua volta suddivisa da armadi quattro stagioni versione mignon che
il grafico Danielino ha ravvivato con colorate deco. Subito entrando, sulla
destra, una medaglia olimpica inneggia alla missione dell’intero ufficio. La custodisce
una vetrinetta munita di specchio posteriore che è molto utile la mattina per
controllare gli esiti (non sempre spettacolari) del trucco. Più o meno alla
stessa altezza ma sulla sinistra, un impressionante assortimento di torce
rimanda anch’esso al target ultimo della nostra presenza. La torcia che più mi
piace è quella di Nagano, con le nappine giallo cromo. La versione di Atene è
super sleek e moderna, mentre quella di Barcellona, effetto batticarne, mi
angoscia un po’, ma tant’è... L’attuale torcia a cobra ha un aspetto alquanto
aggressivo, trovo. Il suo colore tendente all’indaco compiace l’occhio, anche
quando la sua forma rimanda a bizzarre e non proprio lecite associazioni...
anatomiche.
Tedofora a Modena: mi votarono i colleghi
e per poco non svenni...
all'idea di dover indossare una tuta!
Lasciando le torce, si può andare -
come quasi sempre nella vita - da una parte o dall’altra. Rimanendo sulla
destra, lato medaglia, si piomba nell’ufficio legale, con un serissimo Stefano Gemi che a sorpresa compare e
scompare, con tanto di auricolare a infrarossi, e che nei momenti d’inattesa
presenza attraversa galoppando l’ufficio in cerca di una Coca con cui affinare
astuzie e cavilli. Poco più avanti, una stanza speculare è a disposizione degli
ospiti, tra cui George Hantzis, lo specialista IT che, avendo sperimentato
Atene, ci guarda tutti con un misto di empatia e compassione, come pensando:
<<Voi nemmeno v’immaginate che sbattimento sarà...>>.
Per chi preferisce la sinistra, ecco
profilarsi la prima suddivisione sostanziale del macro open space, con
all’interno le signore dell’amministrazione, Lara Luzio e Jessica Macotta. Il
mio primo impatto con Lara è stato
traumatico perché due persone più diverse non si potrebbero trovare. Io sono
una timida, quindi approccio gli altri facendomi precedere da un qualche
preambolo. Lara, per contro, è una persona assai diretta che oppone alle mie
volute una paralizzante retta. Per cui i primi giorni, quando mi avvicinavo e
tentavo una cauta conversazione preliminare grazie cui arrivare garbatamente al
punto, mi sentivo raggelare dal suo sguardo di brace e da un concisissimo:
<<Dimmi>>. Roba da farmi cadere il reggiseno! Una volta che ho
capito che non c’era niente di personale e che non era scocciata ma solo molto
impegnata e molto efficiente, mi sono rilassata, e adesso al suo “dimmi”, dico,
senza che mi cada niente, e tengo per me i giri di parole. Ora la trovo
simpatica e ci chiacchiero volentieri, scoprendo le dubbie meraviglie
dell’acqua-gym e i vantaggi del bikini rispetto al costume olimpionico.
Jessica è un altro tipo ancora, pratica ma
dolcissima. Cova un odio feroce nei confronti della neve che imbianca peraltro
quasi tutta l’Italia tranne Torino, ma è sempre allegra, e i suoi occhi scuri –
vivacissimi – sprizzano buonumore e joie de vivre. Si occupa di accreditation,
il che mi dice due cose di lei, 1) che è meticolosa e 2) che non si fa
spaventare dai tentacoli burocratici del comitato olimpico. Il suo
abbigliamento è oltremodo sportivo, e anche quando si “tailleura”, lo fa in
jeans, sfoderando una super giacchetta in denim.
Continuando il giro, ci si imbatte in
altre figliole, Claudia Gianotti, Antonella Tarantino e Chiara Pogliani. E’ un
bel trio, con la Claudia che parla (molto) e le altre due che ascoltano (sempre
molto). Claudia è nella squadra
dell’Activation, si occupa di approvals e ha la qualifica di coordinator.
Spesso scherza col suo capo, Enrico Dessy, rivendicando il più altisonante
titolo di manager e un posto... più al sole. Le piacerebbe infatti occupare la
scrivania accanto alla mia, che confina con le finestre. Ma Enrico, che è un
tipetto possessivo, fa l’indiano, col risultato che Claudia rimane dov’è, al
buio, rimpiangendo i tempi in cui la sua vita professionale era dotata di porte
e pareti e probabilmente finestre. E’ una ragazza molto intraprendente,
spigliata e carina, con un florido davanzale che disinvoltamente evidenzia con
bianche magliettine attilate e un sorriso rapido che certo non lesina. La sua
altezza non è ragguardevole mentre lo è quella del marito. Insieme formano una
coppia dimensionalmente disparata ma che si amino è evidente, e di questo siamo
felici tutti perché l’amore è bello, anche solo da guardare.
Chiara, accanto a
Claudia, segue il
discorso divise, e ogni tanto s’incarta con qualche astrusa descrizione di
orli, rovescini o... copri-orecchie! Il suo computer, che inizialmente risaliva
al periodo paleocenico e mandava immagini sfocate, è stato sostituito da un
modello più recente che non la costringe più, con sua grande gioia, a
strabuzzare gli occhi. Della serie, “Thanks God for small favours”...
Alla destra di Chiara lavora Antonella Tarantino, amministrazione,
che apre la bocca in rarissimi frangenti e quasi sempre per dire cose
interessanti. A vederla, non si direbbe così simpatica perché il suo dialogo è
ridottissimo. Eppure, quando meno te lo aspetti, se ne esce con le cose più
strane e l’altro giorno è arrivata in ufficio praticamente discinta. Nel senso
che si è tolta la giacca e sotto era tutta sbottonata. Me l’è venuto a
raccontare, al che io ho ipotizzato che fosse stata – chissà? - violentata
sull’autobus venendo al lavoro. Antonella ha fatto una faccia, poi ha
ribattuto, tranquilla-tranquilla: <<Sarà. Ma non dev’essersi trattato di
una grande prestazione, perché non mi sono accorta di nulla!>>.
Capita. Non solo sull’autobus!
Al di là di questo box al femminile
si apre un regno prettamente maschile, con Federico Munari, Paolo Andraus,
Claudio Masini e Kay Schrameyer. Federico
è Urban Cluster Manager mentre Paolo Alpine Cluster Manager. Sebbene mi sia
chiara la distinzione tra città e montagna, mi sfuggono ancora le loro reali
mansioni. Ma sono persone che umanamente mi piacciono e tanto mi basta.
Federico è un ottimo fotografo, peccato solo che abbia la capacità di cogliere
me e le altre nei momenti peggiori, con nasi infiniti in primo piano e altri
orrori. Se poi gli si chiede di cancellare la foto e scattarne un’altra,
naturalmente – da vero sadico – lui si rifiuta. Salvo offrire invece questa
possibilità alle hostess carine che gli chiedo di fotografare io...
Paolo è Alpine sul serio, infatti l’altro
giorno si è presentato in versione Tiroler, con tanto di camicia ricamata e
cappello da alpino con la piuma. A volte entra in ufficio berciando “stelaza!”, a riprova che il suo
carattere è schietto e sincero, come una giornata di sole a Innichen. Io lo
vedrei bene con due pompon sulle braghe, magari rosso Coca, o con un pin a
forma di Edelweiss, da riprodurre in 500 copie ma da fermare a 5, una per
Paolo, una per Federico, una per Kay, una per me che colleziono pin, e una per Claudio
Masini, il nostro Lord Merchandise.
Che di Tiroler non ha proprio niente,
eccezion fatta per le camiciole a quadretti nei toni che dall’azzurro cielo
degradano nel blu stoviglia. Tutto in lui
è metropolitano, e tutto in lui è misurato: il look, il tono di voce,
persino la gestualità. Le sue maniere sono impeccabili, ed erano anni che non
mi capitava di conoscere una persona così urbana. Ogni tanto gli capitano vere
gatte da pelare ma Claudio non si scompone. Al contrario, solleva il telefono,
che costituisce ormai un’appendice del suo lungo braccio, compone il numero di
turno e, quando è in linea, parte con le formule di saluto. Che sono sempre
squisite, a prescindere dalla natura del successivo messaggio, quasi sempre
negativo. Ma anche quando esprime una protesta, Claudio lo fa in maniera così
garbata da risultare piacevolissimo. Le sue critiche sono sempre circostanziate
e talmente civili da suscitare
immediate scuse e automatiche genuflessioni. Ecco, se proprio dovessi farmi
cazziare da qualcuno, vorrei che quel qualcuno fosse Masini. Ma lui,
naturalmente, non mi cazzia. Anzi, mi saluta con un cenno ogni mattina mentre
raggiunge la sua ordinatissima postazione. Quivi, deposti guanti, giaccone e
sciarpa, espleta la prima azione della giornata, ovvero apre lo Zingarelli
d’inglese. Lo stesso che richiude poi verso le diciotto, quando stacca, a
segnalare che anche “Speak English con Clive”, per quel giorno, è terminato.
Inglese, italiano o tedesco che sia,
con Kai non fa differenza. Non solo
parla tutte queste lingue ma vi abbina anche l’accento più appropriato. Il suo
inglese è quello della regina, il suo italiano contiene echi vagamente
montanelliani e il suo tedesco è talmente nordico, terso e cristallino da
spettinarti i capelli. Kai è un vero atleta. Il nostro campione personale. Ama
lo sport, ama la vita, ama il prossimo (anche se lo costringe a fare jogging di
sabato mattina...). La sua energia fisica è prorompente, la sua forza morale
trascinante. I Giochi Olimpici hanno Gliz e Neve come mascotte. Quelli
Paralimpici, Aster. Noi abbiamo Kai. Niente è più olimpico di lui. E con
tutto che la sua funzione è controllare gli altri dal punto di vista
dell’avanzamento lavori, nessuno si sente giudicato né altro. Chi viene
convocato da Kai, ci va volentieri, e ne approfitta per fare quattro
chiacchiere. Perlomeno così farei io, anche se le prime volte in cui mi
arrivavano le sue mail di gruppo, ero convintissima che fosse una donna. Sono
un’ascoltatrice di Radio Montecarlo (ormai lo avrete capito) e associavo Kai a
Kay... Rush. Salvo chiedermi dove cavolo si nascondesse una collega con quel
nome, visto che di donne non ce ne sono poi così tante.
A rimpinguare la categoria è giunta di
recente Laura, seduta diagonalmente
rispetto a Kai, che malgrado il cognome – COLLERA-n – e il fatto di vantare
origini irlandesi, ha in realtà un buonissimo carattere e un naso all’insù che
le invidio parecchio. Lavora nella squadra di Activation ed è la persona per la
quale Enrico Dessy, deus ex Activation, avrebbe tanto voluto buttarmi nella
Dora così da riciclare la mia scrivania. Alla fine, poi, sono stata
risparmiata, non so nemmeno io perché, e Laura è diventata mia buona vicina.
Con lei lavorano Sean, che va e
viene una volta al mese, stile marea, e Rich,
che ha invece base fissa a Torino. O così mi pare. L’ho conosciuto per caso
quando si è materializzato da dietro il quattro stagioni che divide i nostri
open space. Col fatto che non sono abituata ad avere nessuno intorno, ho fatto
un salto sulla sedia che a momenti cadevo. Ma non sono caduta, e Rich non se
l’è presa. Né se la prende quando, sbagliando come spesso mi accade, lo chiamo
Rick.
Del resto, nemmeno io me la prendo
quando George Hantzis, IT, mi chiama Chiga. Sempre meglio di Diga, Riga,
Higa... E sono stata chiamata in modi anche peggiori per colpa di un’altra,
maledetta consonante.
Ma l’unico a essere informato di questo
episodio non proprio esaltante è Edoardo
Cogo che, oltre a essere Caravan Manager per Ignition, l’agenzia che cura il
Torch Relay, è anche un grande, piccolo (o dovrei basso?) amico. Ci siamo
conosciuti nel 1997, in occasione di una delirante fiera ad Hannover. All’epoca
lavoravamo entrambi per un’azienda di trattori e il nostro pubblico era
agricolo. Lo era anche quella fiera. Capitò di tutto. Hostess che piangevano,
account che svenivano, capi che alzavano il gomito e fornitori che davano di
matto. Tutti litigavano o si azzuffano. Tranne me, che avevo troppo da fare, ed
Edo, che era messo ancora peggio. Ci sono cose che cementano, e la disperazione
è una di esse. Da allora siamo amici e, sebbene Edoardo abbia spesso
definizioni lusinghiere per me, tipo “Nonna delle hostess”, spesso ci diamo una
mano con cose piccole e pratiche. Cose vere.
Accanto a Edo, sempre nel settore
riservato a Ignition, lavorano la spumeggiante Cristiana, la bella dell’ufficio che tutti corteggiano perché
socievole, simpatica e abbronzata, Davide
e Nicola, i bronzi se non proprio di
Riace almeno del Lingotto (anche loro sono tanned)
e la bionda Lauri, al cui confronto
Stacanov era un gran pivello. Lauri è un’accanita lavoratrice, qualità che - da
buona emiliana - non posso fare a meno di ammirare. S’impegna in tutto quello
che fa e mette grande passione. Ma col fatto che è molto riservata, sembra
fredda ed è peccato, perché non lo è.
Lasciando i ragazzi del Torch Relay, si
piomba in piena buvette, coi pannelli di sughero che si ripiegano (ma non
sempre) e due algidi divanetti bianchi su cui si accascia Davide ma solo quando pensa all’Iva. Che non è una bella donna,
bensì lei, l’imposta, ora del 4, ora del 10, ora del 20%. Ora recuperabile, ora
no. Ora comprensibile, ora meno. Davide, va da sé, è il Signore delle Finanze.
Solo che invece di essere severo e segaligno come imporrebbe il ruolo, è un
vero tesoro, e piace a tutti. Sarà merito dei tortelli di zucca che gli serve
puntualmente la moglie (della Bassa) o del papà simpatico o... Boh, certi
misteri non si spiegano: esistono e basta.
Un altro insondabile mistero di
Coca-Cola Italia è lei, madame Hospitalité, Vesna Malesevic, la persona che, insieme al suo braccio destro
carlsoniano, costituisce la negazione stessa dell’aggettivo “sportivo” e che
pure è un perno del programma olimpico. Bionda, affascinante e flessuosa, Vesna
è un’Herzigova in versione chanelliana, con accenti gucciani e riflessi pradiani.
Una Coca-Cola formato persona, fresca e spumeggiante. I numeri, con lei,
acquistano un senso, e non c’è budget che, nelle sue mani, non frutti il
doppio. Il suo inglese è rapidissimo e il suo italiano con vero accento
francese è talmente charmant da
tramortire il povero signor Garetto dell’Hotel Genio, che da tempo non è più in
grado di negarle niente.
Del resto, si sa, i francofoni grondano fascino. A fornirne ampia
dimostrazione sono Vincent,
Planning, che ricorda Yves Montand
in bello, e Thierry, Torch Relay
Manager, con quel suo sguardo intenso da Passator Cortese senza mantello.
Vincent è il solo francese al mondo a vantare un inglese impeccabile,
soprattutto allo scritto. Thierry, che è da poco diventato papà del piccolo,
tenerissimo Louis, vanta un incredibile sangue freddo. Quando è arrivata la
notizia che sua moglie aveva perduto le acque, siamo piombati tutti
nell’agitazione più totale. <<Vai, vai!>> gli gridavamo. Ma lui,
tranquillo, non si è fatto pressare. E prima ha controllato la posta, e poi ha
risposto a quelle due o trecento mail, e poi ha guardato fuori dalla finestra,
quindi ha fatto una telefonata e per finire si è fatto accompagnare da Edo in
ospedale. Roba da farle perdere a noialtri, le acque... se solo le avessimo
avute!
Anche Thierry, come Vince, parla un
ottimo inglese, e meno male! Perché il general manager di Coca-Cola Italia,
Nicola Kettliz, che pure ama tutte le lingue dello scibile umano e passa dal
curdo al parsi senza nemmeno impappinarsi, ha una vera e propria avversione per
il gallico idioma. Bonjour, bonsoir, salut, aiut! Meglio licenziarsi in
automatico che tentare una conversazione in francese con Nicola. Che, in
realtà, è easy e generalmente cheerful, specie se può vestire in jeans e felpa,
preferibilmente brandizzata Coca-Cola. Spesso però gli toccano riunioni che
impongono giacca e cravatta. Ed è allora che tanto mi ricorda il personaggio
dello spot dell’American Express, quello che da ragazzo sogna un abito su
misura e che da adulto lo getta via, per poi gettarsi a sua volta nell’azzurro
oceano.
Che è poi dove butterebbe me Enrico Dessy, Activation Manager, il
cui sogno, nemmeno tanto recondito, sarebbe quello di avere tutta la propria
squadra a portata di ufficio. Purtroppo per lui, l’angolo estremo dell’open
space di sua competenza è occupato dalla mia (ingombrante) presenza, pertanto
l’ambizioso progetto ha conosciuto una necessaria frammentazione. Per giorni
Sua Acidità mi ha guardata in cagnesco, minacciando sfratti e traslochi. Poi,
non so, dev’essersi abituato, perché adesso saluta anche, ed è capace di fugaci
sorrisi. In realtà, con tutto che è un po’ secco in certe sue rispostine,
l’Enrico non è affatto male. Anzi. Una mattina, sbucando dall’ufficio, mi ha
confessato di agognare quanto segue: uscire dalla porta, con la mano chiusa a
microfono, e simulare una gara canora alla Sanremo. Chiaramente, ho riso. E si
è radicata in me una devastante consapevolezza: chi cova una fantasia del
genere non può essere antipatico.
Chi certamente non lo è risponde al nome
di Stefania Montesano, Risorse
Umane, la ragazza più cara e popolare dell’ufficio, la cui massima ambizione
del momento è avere... un tetto torinese. A dire il vero, l’alloggio, lo
avrebbe anche trovato. Peccato solo che questo abbia enormi vetrate sprovviste
di tende e che la doccia non sia comprensiva di cabina. Praticamente, mancano
tutte le rifiniture, così che il trasloco di Stefania subisce continui e
frustranti ritardi che la costringono a una scomoda precarietà. Ma non per
questo si abbatte né fa pesare i suoi problemi, che porta anzi con elegante
leggerezza.
Come fa Angela, la ragazza che quotidianamente riordina e pulisce le nostre
scrivanie, lustra i nostri bagni, getta le nostre cartacce e aspira metri su
metri di polverosa moquette. Per giorni si è presentata in ufficio con la
febbre e quant’altro, perché la sua azienda era in difficoltà e non poteva
sostituirla. Eppure lei non si è mai lamentata, ha continuato a lucidarmi il
computer senza colpo ferire, anche quando le dicevo di lasciar perdere. Che,
tanto, per un giorno, non importava. L’altro giorno, martedì 8 marzo, si è
presentata con un mazzetto di mimosa. Mi ha detto: <<L’ho preso per
te.>> Ho molto apprezzato questo gesto, e non a caso conservo il
mazzetto, anche se ormai vizzo, dietro una bottiglia di Coca-Cola sulla mia
scrivania. Ci sono gesti che ti riscaldano meglio di una tazza di brodo.
Amicizie che nascono da niente. E che pure durano. Proprio perché non hanno
motivo né scopo. Come vorrebbe la definizione.
E adesso, naturalmente, arrivo io
che, dal mio mitico angolo, non solo vi guardo ma vi vedo anche, più attenta e
incongrua che mai. Incongrua perché, nemmeno coinvolgendo agguerriti cacciatori
di teste, Coca-Cola Italia avrebbe potuto trovare una persona meno casual e
meno sportiva di me. Ho nuotato per dieci anni, di cui sette in agonismo, mi
alzavo alle sei del mattino prima del liceo e adesso, quando vedo una tuta da
ginnastica, mi viene il vomito. Lo sport, nel mio caso, era terapeutico perché
avevo una scoliosi gravissima. Pertanto, il moto non è mai stato sinonimo di
svago bensì di necessità. Ne consegue che, ora, sono pigra. Evito le palestre
peggio della mia ex suocera, e se qualcuno, come l’incauto Kay, mi propone un
sabato mattina di jogging, be’, ecco che mi rattrappisco al pensiero! Il mio
concetto di abbigliamento sportivo è un prendisole di Kookai abbinato a sandali
con zeppa di sughero. Guardo i match di calcio ma solo se gioca la nazionale, e
la parte che preferisco è quando si canta l’inno, così mi alzo in piedi e
divento sentimentale.
Il mio lavoro è il più delle volte
oscuro, per questo mi piace. La logistica dell’ospitalità e i suoi misteri,
ecco il mio settore. Si fa e si disfa il più delle volte. Oppure si disfa e si
fa. Tutto è un divenire. Alla fine, anch’io.
La mia casa a Torino
durante il periodo olimpico
Sono l’operativa più vecchia della
squadra, e questo potrebbe essere – per molte ragioni - il mio ultimo lavoro
(sebbene mi sia arrivata un’offerta per Beijing che in fondo mi alletta...). Ma
ciò che sogno veramente, in futuro, è di aprire un albergo di charme, scrivere
e tradurre a tempo pieno, prendere una seconda laurea, magari in storia, e
godermi questa vita bellissima che ho – come tutti – costellato di fallimenti
(tanti ma rimediabili) e di successi (pochi ma assoluti).
Lo so, lo so, batto molto forte sulla
tastiera del computer, terrorizzando i colleghi. Ma mi sembra che, in questo
modo, le mail vengano più corpose, più appassionate. Ed è altresì vero che sono
sbadata e che ho le mie manie (tipo usare solo la toilette di centro in
bagno…). Ma non sono quasi mai molesta, e sebbene mi capiti di cantare orride
canzoncine che sento alla radio venendo al lavoro, tipo “Non sapeva che mi
amava” di Meneguzzi, non sono troppo cattiva e nemmeno scorretta.
Mi chiamo Ghiga Ferrari e da domenica
scorsa, 13 marzo, ho quarant’anni.
A dieci, sognavo di essere famosa. A
venti, di essere colta. A trenta, di essere importante.
A quarant’anni, sogno di essere felice.
E’ quello che, dal mio angolo, auguro a voi tutti.
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