martedì 27 agosto 2013

Insieme (da molto tempo)

(C'è stato un tempo della mia vita in cui avevo tanto di tutto. Per esempio, tante amiche. Più amiche che tempo. Poi sono successe cose. La mia vita si è involuta prima di evolvere nuovamente. In quel processo ho perso diverse realtà. Soprattutto, ho lasciato indietro persone, anche care, carissime amiche. Per l'80% è stata colpa mia: quando si è infelici, non si è il massimo, anzi... Per il restante 20% è stata colpa loro: un'amica va presa anche (o proprio?) quando non sa essere il massimo.

Clelia [Moretti] è un'amica così. Un'amica che ti prende anche quando non sei il massimo. Credo di essere lo stesso anche per lei.)

 
Come un limone
 
Torino, 18 febbraio 2005

Ho conosciuto Clelia nel 1992.

Eravamo a Londra, impegnate in un grosso progetto di ospitalità. Lei si occupava dei voli, io dei rapporti coi fornitori. All’epoca, era una moretta schiva, con lunghi capelli castano scuro che si annodava a casaccio ma con sorprendente eleganza, e severi tailleur gessati o comunque scuri che a Modena solo una prof in pensione avrebbe sfoggiato... per qualche riunione condominiale. Vero è che, a Torino, il look “Villa dei Tigli” va parecchio, pertanto lei era in linea, suppongo.

Ma io ero tutta un fiorellino già allora, quando i fiorellini non andavano di moda e Twin Set - più che una griffe - era un modello. Vestivo colorato, con fantasie vivaci e maglioncini francobollo che mi annodavo e attorcigliavo intorno ad abitini fatti di niente. Poi, c’erano le scarpe, oltraggiose e altissime, degne di una Carrie Bradshaw ante literam. Le scarpe di Clelia, per contro, erano sempre nere. Tutt’al più marroni. Basse e severe, con certe tomaie da paura. Mai un cinturino, mai un fiocchetto, mai un incrocio, niente. Scarpe che facevano solo le scarpe: camminavano. Oppure texani appuntiti, da abbinare al più sportivo e androgino dei look: calzoni scuri e dolcevita alla Sartre, con qualche barboso gilè abbottonato sul davanti.

E l’ultimo strato, quello esterno, segnava un’ulteriore differenziazione. Il mio cappottino, per esempio, era minimalista ma solo perché rispondeva all’esigenza di enfatizzare la frivolezza dei fiorellini sottostanti. Ma con Clelia anche il cappotto diventava una corazza di bon ton torinese contro il mondo intero. Di nero come me s’ammantava. Però imbacuccandosi tutta, informemente, ed evitando ogni genere di vezzosa sciancratura. I suoi cappotti erano rigorosamente comprati da Olympic, il negozio della Torino-bene che tiene articoli “muffi” e alla moda in egual misura. Clelia, naturalmente, si manteneva sul classico spinto, e con lei persino i bottoni erano low profile. Osso o corno, bianchi o neri, così semplici da provocare un attacco di narcolessia.

Per non parlare delle gioie. Niente orecchini, solo l’orologio, severo, e due splendide ma seriose verette di brillanti. Io, a confronto, ero quasi barocca, coi miei anelli fatti col fil di ferro e le perline, materiali che allora non s’usavano quasi. Erano stati in voga anni prima, quando ero bambina io e mi ero fatta comprare dalla mamma una pinza da gioielliere che ancora oggi conservo nel barattolo dei trucchi, e poi erano caduti nell’oblio, per essere da me ripescati in epoche non sospette e sotto l’effetto di una curiosa nostalgia. Ho sempre adorato la stravagante varietà delle perline. Grosse, piccole, lucenti, cangianti, lattescenti, veneziane, quasi sensuali. Pure le pietre dure o preziose mi piacevano colorate, come quelle che avevo portato dal Brasile. Topazi azzurri e gialli, tormaline rosse o bicolori, con una puntina di verde, quarzi citrini tagliati a marquise e ancora ametiste violette, turchesi arroganti e piccoli smeraldi quadrati. I brillanti, quelli non li possedevo nemmeno quand’ero una donna ricca, e dopo... be’, dopo non si è più posto il problema, manco in cent’anni di risparmi me li sarei potuti permettere.

Comunque, non li portavo, se non falsi e scherzosamente oversize, quasi a dire: “Sì, sono falsi. Meglio loro di me!”.

Ma Clelia, lei, era Sua Sobrietà fatta persona, e a Londra eravamo maestre in quell’esercizio di stile che è l’ignorarsi. Lei girava a sinistra, io a destra, e se mai ci capitava di procedere affiancate, io acceleravo il passo e scomparivo in quel colorato caos ch’erano la mia vita e il mio lavoro. Non che ci fosse antipatia, perché non ce n’era. Semplicemente non legavamo. La mia scombinata allegria si scontrava con la sua compostezza. E le mie intuizioni facevano a botte coi suoi ragionamenti cavillosi.

Mi chiamava la Barbie. Per via dei miei vestiti. Perché li cambiavo spesso. Perché erano colorati. Perché tutto in me era frivolo, tranne quello che avevo dentro (e che per definizione non si vedeva). Io dicevo che lei era un limone. Anzi, che se ne mangiava uno tutte le mattine, con la scorza. Perché era brusca. E la mattina, invece di parlare, sprizzava acido.

Londra arrivò alla sua naturale fine, e ricordo ancora il concerto di Ray Charles che ne rappresentò il suggello e tutti i problemi che mi derivarono per via di una certa partita di champagne. Mi piombò nell’ufficio l’addetto al catering di Earl’s Court, così simile al canarino Titti da averne inconsapevolmente ereditato il nome, a dirmi che il cantante aveva ordinato un’intera cassa di Moet&Chandon, da consumarsi prima dell’esibizione. Voleva la mia autorizzazione, così io dovetti a mia volta ottenere un avallo. Chiamai il big boss, che dichiarò: “Faccia lei, Ghiga. Nella misura in cui i capricci non sconfinano nelle stravaganze...”. E io domandai, prudente: “Cioè?”. Il capo rispose: “Be’, se per esempio le chiede uno squadrone di ballerine nude, mi raccomando, dica di no”. “Anche perché non le vedrebbe” ribattei io, e la giornata proseguì con altalenante energia, fino al fatidico concerto. Che ripagò un po’ tutti di tanta fatica. A volte si lavora come pazzi, e ci si chiede alla fine perché. Ma quella volta, con Ray Charles che cantava giù in sala e noi ragazze (sì, allora eravamo ragazze) appostate sui ballatoi in alto, lontano dai clienti, lontano da tutti se non da noi stesse e dalla nostra fatica, la sensazione di aver lavorato bene fu netta e piacevolissima.

Ma non tutti i lavori sono belli e non in tutti lo sforzo è premiato. Mi riferisco alla convention Orlando ‘96, dove per due mesi dormii due minuti e mi fumai due intere manifatture tabacchi. Fumava anche Clelia, e fu questo a unirci inizialmente, quando venimmo catapultate nei grigi container di Settimo Torinese, dove la New Holland aveva allestito all’epoca gli uffici organizzativi di quest’ennesimo evento. Già lo stabilimento non era il massimo, con quella pensilina giallo sporco dell’entrata e i custodi che facevano i duri. Ma i nostri container erano veramente il minimo. Siti davanti alla mensa dello stabilimento, tra un parcheggio ingombro di rottami e la palazzina degli uffici, erano oggetto di continue sbirciate da parte di impiegati e operai che, chiaramente, si domandavano che cosa avessimo mai fatto per meritare una sede così deprimente. Vi si accedeva attraverso una porticina color isabella che si affacciava su quattro scrivanie disadorne. Altre quattro aspettavano nell’ufficio adiacente. In entrambi i locali, piccoli e instancabili termoconvettori sparavano aria torrida, così che l’impressione era di entrare in una serra di orchidee alle quali, chissà perché, si erano sostituiti verza e spinaci. L’aria era comunque irrespirabile già dalla seconda sigaretta, e tutto era grigio, a incominciare dalle nostre facce.

Abitavo in albergo con la Raffa, una collega francese sposata a un perugino. All’epoca ero sposata pure io e mi sembrava di essere anche felice. Ma lavorare era la mia passione, così ero partita per Torino carica di idee e di entusiasmo. Clelia faceva anche lei parte della squadra ma, essendo del posto, si godeva casa propria invece delle saponettine al Last dell’Hotel Luxor. Io e la Raffa, invece, facevamo la spola tra l’allegro container e l’allegro albergo, e tutte le mattine, con la mia Y10, ci recavamo nell’altrettanto allegro Settimo.

In tutta quest’allegria, io curavo i VIP, Raffa gli alberghi e Clelia i materiali. Si stava ognuna nel proprio angolo, fumando, e la posta elettronica non si usava ancora, solo il fax, davanti al quale facevamo la fila, collezionando fior di report. Il nostro era l’ufficio B, il più scadente (se si può tentare una classifica del mediocre), ma si lavorava bene, a testa bassa, con qualche battuta salace (se veniva da Clelia, perché il suo aspetto contegnoso, com’ebbi poi a scoprire, era giusto esteriore) o scema (se veniva da me). La Raffa non faceva battute, lei rideva e basta, e noi ridevamo di lei perché, con tutto che abitava in Italia da una vita intera, continuava a coniugare “puttana” con “freddo”, uscendosene ogni tanto con qualche “freddo puttano” che, nei tragitti tra il container e la mensa, ci metteva invariabilmente di buonumore.

Nell’ufficio A, il “freddo puttano” non aveva connotazioni climatiche, bensì umane. Ci lavoravano tre persone: un tecnico dei computer, che se ne stava sulle sue, il nostro capo di allora, persona anticamente simpaticissima che aveva negli anni subito una curiosa mutazione in pezzo di merda, e la sua nuova pupilla, una rampante ragazzotta dalla gamba forte che era bravissima in tutto, specie a inguaiare gli altri. Sul lavoro era rapida, intuitiva, efficiente. Come tutti, ogni tanto faceva errori. Ma non se li accollava, li accollava alle colleghe. Accadeva così di frequente che il capo, obnubilato, se la prendesse con noi dell’ufficio B (mai con Clelia, però, che temeva) per colpe che in realtà pertinevano a lei, la kapò, così definita per il suo buon cuore.

Più la kapò mi massacrava, più mi avvicinavo a Clelia nella quale avevo trovato inattesa comprensione e solidarietà. Anche Raffa era bersagliata ma, dall’alto dei suoi cinquant’anni, sapeva fregarsene o al bisogno driblare. Io invece ero giovane e comunque non abituata a competere, perché non ne avevo mai avuto il bisogno, non professionalmente almeno. A scuola primeggiavo con facilità e naturalezza. Per forza, ero brutta, quindi passavo tutto il mio tempo a studiare. Lì almeno riuscivo. Poi, gli anni mi hanno migliorata ma comunque l’attitudine a eccellere come forma di riscatto personale mi è rimasta. Competere con chi mi circondava non faceva parte del gioco. La competizione era semmai con me stessa. Non ho mai visto gli altri come rivali. C’è posto per tutti, e io mi prodigo parecchio per stare dove sto. Regali non me ne hanno mai fatti, e non sono scorretta, per cui ho pochi nemici, il giusto.

Ma in quel container di Settimo, per la prima volta dopo anni, qualcuno mi osteggiava, e col fatto che non ero abituata a difendermi, mi lasciavo maltrattare. Seguirono giorni grami, fatti di dispetti che ne suscitavano altri perché, purtroppo, non si è sempre meravigliosi. Un po’ reagii e un po’ successe l’incredibile: io e Clelia diventammo amiche veramente, e la concreta positività di quell’incongrua alleanza - incongrua anche fisicamente visto che io misuro un metro e ottanta e Clelia un metro e otto - stemperò i veleni dell’ufficio A. Poi, Clelia, che di solito è una che si fa gli affari propri ma che con me non se li fa quasi mai (grazie al cielo), anche se vorrebbe, incominciò addirittura a proteggermi da quei veleni, prevenendo le insidie o facendomele tempestivamente notare.

Con lei o grazie a lei, ho superato da allora tanti problemi, messo a posto parecchie persone, saldato diversi conti. Nessuno più di Clelia mi ha addestrata alla realtà. Abbiamo praticamente la stessa età, solo che lei è più dura, bistrattata da una non facile vita e tuttavia indomita dopo tante batoste. Nemmeno con me la vita è stata tenera ma il mio infantilismo, che è forse la mia dote più grande, perlomeno così mi pare ora, mi ha sempre conservato il sorriso. Ai tempi di Orlando ero molto ingenua e, se adesso non lo sono più tanto, lo devo non soltanto al dolore, che è un grande ma crudele preparatore, ma anche alla mia amica Clelia, alla sua straordinaria capacità di imporsi e alle sue collaudate tecniche di difesa. In tutti questi anni, mi sono spesso ispirata a lei (look a parte), a come si poneva con gli altri, a come li affrontava, e ho imparato tanto, trucchi e strumenti con cui sfruttare appieno i contenuti che mi venivano dagli studi.

Ora sono una teorica che sa essere operativa. Mi so difendere e non disdegno la lotta. M’impongo quando devo e mi ritiro se conviene. Prendo per quanto offro. E sempre sto attenta, perché la gente è strana.

La Barbie è cambiata da quando ha scoperto il limone. Porta sempre gli abitini a fiori, anche adesso che lavora a Torino, con Clelia nell’ufficio dirempetto al proprio. Spesso pranzano insieme, e sempre chiacchierano, si beccano, persino litigano. Perché non ci sono persone più diverse di loro nei modi, nell’aspetto, in tutto.

Il bene tra due persone non si spiega. Esiste e basta. Per fortuna.

giovedì 22 agosto 2013

13 è bello

                                                   
(Con questo raccontino, un divertissement più che altro, arrivai nel 2009 tra i primi cinque classificati nell'ambito del concorso letterario della GTT di Torino, "Parole in corsa". Vinsi un abbonamento annuale ai mezzi pubblici e lo trovai bellissimo. Il che è strano, perché raramente trovo belle le cose utili.)


Io e la 13

Non c’ero mai salita.

Sul tram, intendo. Sono di Modena, da noi i tram non esistono. Esistevano. Poi li tolsero, risparmiando solo i filobus del centro.  Mai usati nemmeno quelli. Gli autobus, li prendevo anche, da liceale: il 15 col 29. In seguito, mi sono trasferita a Trieste. Di nuovo autobus. Solo che i numeri venivano coniugati al femminile. Tanto che il 29 (sì, lo pigliavo pure là) diventava “la” 29, con riferimento alla linea più che al mezzo.

In quattro anni di università ne ho prese tante, di 29. E c’erano giorni in cui la bora - che subdola s’alzava la sera, piano, e poi cresceva come un soufflé con troppe uova fino a durare un giorno o anche tre - ti spazzava via alla fermata se non ti ancoravi alla pensilina. Nel 1989 mi laureai, tornai a Modena e presi la macchina, inaugurando una proficua stagione da automobilista durante la quale approdai a Torino.

Guidare è decidere. Quando, dove, perché. Non dipendi. Vai. Ma ci sono volte in cui non sei tu a decidere, bensì altri. Accade così che un giorno l’automobile ci sia e il giorno dopo non ci sia più.

E’ quanto è accaduto a me il 27 febbraio scorso. Ho parcheggiato in Via Zumaglia la mia Alfa 147 grigia, detta “Musetto” perché bella di muso, e sono andata a casa, in piazza Chironi, dove ho passato la serata a cucinare e a dipingere un (brutto) vaso di zinnie.

L’indomani, un venerdì, Muso non c’era più. Ho rovistato il quartiere, chiesto in giro, pianto. Niente. Così, sono andata dai carabinieri dove ho scritto, anzi sottoscritto, l’epitaffio di una macchina che mi aveva dato immensa gioia e che stavo ancora finendo di pagare. Ma, si sa, i ladri non sono noti per la loro sensibilità. Per questo si chiamano ladri. Essi rubano senza sapere che cosa rubano. Senza sapere quale danno procurano oltre a quello materiale, di per sé gravissimo.

Nel mio caso, insieme all’auto, se ne è andata l’autonomia.

Ero a piedi. A piedi in una città come Torino che non è come Modena, dove basta la bicicletta. A Torino tutto è lontano, i ciclisti sono sparuti perché non esistono percorsi ad hoc se non per pochi tratti, e il traffico è feroce.

Tuttavia, dovevo muovermi, lavorare. Così, superato lo shock iniziale, sul quale non mi dilungo perché tutti conoscono il dolore e non hanno bisogno di sentirselo raccontare, mi sono rivolta al tabaccaio d’angolo per un corso accelerato di tram. “Come sarebbe a dire, un corso?”, ha ribattuto lui. Ho risposto: “Sarebbe a dire che non ho mai preso un tram e ora devo prendere la 13.” Avevo infatti scoperto che era quello il tram per l’ufficio e, siccome non usavo i mezzi da Trieste e a quei tempi mi ero fermata, ho usato l’articolo al femminile.

Il tabaccaio ha riso (ridono tutti a Torino quando dico “la” 13) per poi erudirmi su biglietto singolo, carnet, abbonamento bisettimanale, mensile, semestrale, annuale, eccetera. Tramortita dall’assortimento, ho acquistato il mio primo carnet e raggiunto la fermata. Lì ho trovato una signora in cappottino grigio cui ho domandato come si capivano gli orari. “Sono affissi al palo”, ha detto. Mi sono chinata a guardare ma senz’altro sembravo dubbiosa perché la madama ha aggiunto, asciutta: “Quando lo vede, lo prende.”

Mi è parso un gran buon consiglio. Così, così quando l’ho visto, l’ho preso. Anzi, l’ho scalato… visto che i gradini sono eterni. E lo dice una che misura 1.80.  Arrancando sul pavimento di gomma ondulata, ho obliterato il biglietto e mi sono accasciata sul primo seggiolino. In quella, le porte del tram si sono chiuse con un fragore di tuono. Per le prime cinque fermate non ho nemmeno respirato tant’ero nervosa. Poi mi sono appoggiata allo schienale di legno, che sembra scomodo ma non lo è visto che è sagomato, e ho guardato fuori. Ho guardato Torino che è bella dal tram, forse ancor più bella, perché ogni finestrino la incornicia in tante cartoline bordate d’acciaio che sfrecciano via come (bei) pensieri.

In prossimità della fermata, mi sono alzata. Qualcuno aveva già spinto il pulsante e ho spiato l’insegna rosso inferno. Poi il tram ha inchiodato, e ho affrontato i temibili gradoni… per ritrovarmi, sì, in pieno centro.

Ce l’avevo fatta: ero salita sul tram e ne ero persino ridiscesa. Mi fumavano le orecchie e certe frenate mi avevano fatto inghiottire finanche le mutande. Tuttavia ero arrivata, tanto bastava.

Da allora ne ho prese, di 13 (anche se non come di 29). Non solo. Ho organizzato la mia vita in base alla 13 o, per meglio dire, alla sua linea. Faccio compere in zona 13, ovvero in Piazza Castello e dintorni, prendo l’aperitivo al Gran Bar, capolinea della 13 e ceno da Michele in Piazza Vittorio o all’adorato Lapin Agile di via Ghemme, praticamente sotto casa. Con la 13 vado, con la 13 torno. Certo, Muso era un’altra cosa e presto arriverà una sua sosia. Ma anche allora prenderò la mia 13, controllando come faccio ora tutte le case e gli esercizi sul percorso, se la vetrina del macellaio di via Fabrizi trabocca come sempre di costine e braciole con l’osso, o se il mercato di Corso Svizzera ondeggia di gente o se quella sparuta bocca di leone rosa che per primo notò mio babbo (anche la famiglia mi porto sulla 13) ingentilisce ancora la gronda al 41 di via Cibrario.

Io sono nata di 13. Il 13 mi porta fortuna.

Anche “la” 13.

E al diavolo il ladro.