(La "Triglia" è sempre stata abbinata alla "Fiandra", che inserisco ora di seguito, in buona compagnia, prima di passare ad altri scritti, più recenti, come quelli delle Olimpiadi. Rileggendo, capisco di essere stata molto infelice, e sono contenta di averlo trascritto, perché ora non sarei più capace di riprodurre così fedelmente uno strazio che solo a stento ricordo. Ho impiegato molto a guarire da certe ferite, ma quando l'ho fatto, l'ho fatto.
Da anni ho ricominciato a vivere. E' bellissimo.)
La mia cucina in Sant'Agostino...
coi muri azzurro Egitto
Ottima fiandra
Torino, 25 gennaio 2005
Ci
sono vite che hanno percorsi netti e regolari, come un colpo di carabina in un
brumoso cielo d’autunno. O come una picchiata d’uccello, rapidissima e
geometricamente accurata. Queste vite hanno un inizio e una fine ed entrambi
costituiscono eventi riconoscibili. Sono cerchi squisiti, logici quadrati,
eleganti prismi o anche solo banali rette da A terminano in B, secondo formule
collaudate, velocità fisse, equazioni di rassicurante prevedibilità. Ma la mia
elicoidale esistenza comincia e ricomincia di continuo, e ogni volta è uno
strazio. Non soltanto mentale o emotivo - sebbene i fardelli del cuore abbiamo
un peso tutto loro, terrificante perché non misurabile e mai specifico - bensì
oggettivo. Ricominciare è brigoso, in ogni senso. E quando ci si stupisce
dell’altrui immobilismo, del fatto che certe persone, invece di incidere
energicamente e fattivamente sul proprio gramo quotidiano, buttando tutto
all’aria, cambiando questo aspetto o quest’altro - casa, partner, professione,
cane e financo marca di pelati – si adagino nella rassegnazione più assoluta,
nel silenzio più opprimente, nell’accidia più paralizzante, non ci s’interroga
quasi mai sulla gravosità del cambiamento stesso o sulla sua onerosa logistica.
Compiamo errori di ogni tipo. Tra
tutti, è l’errore d’amore il più penalizzante. Perché sbagliare nella sfera
pratica non è infrequente. Rimediare è quasi sempre un cimento, però affrontabile. Negli affetti, invece,
ogni livello è toccato, e ogni livello va rivisto, corretto, ricreato. Spesso
non resta che la riformattazione totale di quell’hard disk cui congiuntamente
danno vita cuore, anima e cervello.
L’hard disk di cui sono dotata io è
sicuramente un prototipo sperimentale. Per funzionare, funziona e anche bene.
Contiene risorse insospettate e comodi talenti. Soprattutto, mi regala emozioni
improvvise e gioie violente. Peccato solo che questo “forte” sentire si
manifesti anche al negativo. Quindi, forti sofferenze, forti delusioni, forti
rivolgimenti, forti malumori. Le tarature sono due, massimo e minimo. Di
normale, standard, medio, non c’è niente. Come dire: non ci si annoia ma
nemmeno ci si rilassa.
Il
che spiega perché mi sia ritrovata a trascorrere le vacanze di Pasqua del 2001
con una cuffia da doccia in testa (di quelle del Novotel, trasparenti e
rugosette, che non donerebbero nemmeno a Charlize Theron), a passare un
gocciolante rullo intinto d’idropittura sul soffitto per metà spiovente di
quello che è il mio attuale tinello. L’elicoide aveva compiuto il suo giro,
sbattendomi da un comodo ma inadeguato ménage di provincia a un promettente ma
scioccante nubilato bis in cui tutto era un divenire, io per prima e il mio
alloggio per secondo.
Il tinello verde pistacchio,
coi piatti di Vietri (ormai spaiati ma tanto cari)
che mamma portò da Ischia
al ritorno dal suo viaggio di nozze
(1959)
Lo studio,
sempre in via Sant'Agostino
("Triglia" è in pole position a sx della vecchia tele,
che è venuta molto tempo dopo il racconto)
che è venuta molto tempo dopo il racconto)
Avevo sette valigie piene di cose
inutili e care, irrinunciabili. Quattordici paia di scarpe, libri cult come la
“Lettera d’amore” di Cathleen Scheen e le “Mele d’oro” di Rawlings, il mio
abito da sera rosa col plissé davanti e due Venezie del Cavani, il servizio da
tè della signora Tinozzi e il copricaraffa di pizzo e perline che avevo
acquistato nel negozio di souvenir del castello di Glamis, in Scozia. Ma è un
fatto che a rinfrancarmi sia il futile più che il necessario. Perché il
necessario s’impone, il futile mai.
Così circondata di bagatelle, e con
l’unico conforto di un thermos di caffè forte, dipingevo per l’appunto il
tinello, che era stato di tutti i colori ma che adesso sarebbe diventato verde
pistacchio, per mio unico e legittimo piacere. Vi avrei messo i pochi mobili
che avevo salvato, il tavolo rotondo dei miei e la vecchia madia dell’aceto
rilaccata di bianco Dover. Lungo la parete accanto alla porta di cucina avrei
appoggiato un triste tavolino che un drappo non orlato di stoffa inglese aveva
curiosamente ingentilito. E il resto, pensavo, sarebbe venuto da solo. Lo
studio rosso con la tovaglia di organza al posto delle tende e il divano
riciclato del povero zio Mario. La camera da letto gialla con la tetra ma
elegante mobilia della nonna Bice e il paravento dei Cuti. Il bagno indaco col
cestello d’acciaio pensile dell’IKEA zeppo di cosmetici e saponi. E ancora la
cucina celeste con un pomodoro rotondo infilato nel mestolo appeso. Sì, il
resto sarebbe venuto da solo, pensavo mentre alacremente davo di rullo, con la
pittura che – densa - mi colava addosso, avvolgendomi nel suo polveroso odore
di mesticheria e rinnovo.
Ma da solo è venuto giusto l’affanno,
perché ricominciare costa, e le spese ordinarie (cibo, vestiario, auto e storie
varie) si assommano a quelle straordinarie (nuovo alloggio, nuovi mobili, nuovo
tutto). Ed è venuto il panico, perché ricominciare fa paura, quando la notte
sei sola nel letto e fuori piove e la pioggia ticchetta e tu ti chiedi quando
tornerà il sole, sul tuo tetto, nel tuo letto e nella tua benedetta vita. Ed è
venuto il dubbio, perché ricominciare mette in crisi (niente garantisce che la
fuga sia meglio di ciò che l’ha motivata e niente prova che il futuro ti sia
amico).
Il sollievo, invece, me lo sono
dovuto procurare perché da solo proprio non veniva. Così, dopo aver passato
Pasqua a tinteggiare, Pasquetta a sgurare, e quei venti-trenta giorni a
trasportare mobili e a rompere stoviglie mal imballate, mi sono seduta sul
divano dello zio e ho affrontato il pensiero dell’ennesimo punto e a capo.
Ma la tele non c’era. E io non ero
più inserita in un contesto familiare più o meno indigesto, con compiti da
svolgere, doveri cui adempiere, diritti da difendere, bocconi da mandare giù. Ero
libera. Libera di fare. Libera di mangiare quando volevo, libera di dormire
quando me ne veniva l’estro, libera di uscire ogni volta che me ne saltava il
ticchio. Ed ero libera anche di non fare. Libera di non stirare le mutande e
nemmeno gli stracci. Libera di non riordinare la scrivania a fine giornata.
Libera di non pensare a che cosa fare per il pranzo già a colazione. Libera di
non fare la spesa alla Coop ogni tre sabati del mese, senza dimenticare il
latte e la farina 00.
Insomma, libera. Be’, concettualmente è bellissimo. Nella pratica è
terrificante. Quelle serate che prima corteggiavo e vagheggiavo, adoravo e
centellinavo come rum Demerara adesso erano paventate, temute, disprezzate,
esorcizzate, quasi rimosse.
Soprattutto sembravano lunghissime.
Spegnevo il computer, ricordo, e trascinavo i piedi fino alla cucina. Guardavo
nel frigo, il mio unico elettrodomestico dopo il computer, e dentro c’era
sempre qualcosa che non volevo mangiare. Mi adattavo, però. Così, approntavo la
piastra in terrazza, con le rose appena piantate che mi guardavano curiose, con
le loro tre foglie in croce, e mi cucinavo la classica bistecchina che
un’insalata di pomodori rendeva appena meno squallida. Poi, lavavo i piatti nel
bagno (il lavello non c’era). L’acqua calda tardava a venire, perché il boiler
era in cucina, così aspettavo. Faticosamente, riempivo la bacinella verde mela
di Mister Brico. A quel punto, mi sedevo sul water, e macchinosamente passavo
un piatto dopo l’altro sotto il rubinetto del bidet. Allora lo facevo come una
penitenza. Ma è un ricordo che ora mi è più caro di un vecchio golf. E che mi
fa sorridere. Anche perché, per lavare tre piatti, impiegavo un’eternità, e
spruzzavo dappertutto, soprattutto le pareti piastrellate, che poi mi toccava
pulire.
Nel frattempo, tuttavia, si erano
fatte le ventuno e già così non andava male. In capo a un’altra ora mi sarei
potuta ragionevolmente coricare, e il sonno è incolpevole, ti salva da ogni
situazione. Solo che le ventidue erano lontane. Così, mi sedevo sul solito e
ormai amatissimo divano e, col fatto che nemmeno fumavo più, fissavo lo sguardo
sulla portafinestra. Questa incorniciava la Ghirlandina, così bianca e perfetta
nella sua illuminazione notturna. Era la mia televisione di allora: i tetti di
Modena con la Ghirlandina algida e svettante. Un programma personalizzato, per
me soltanto, a reti unificate, perché unica era la rete, quella del Duomo,
patrimonio dell’umanità.
E com’era umano, quello spettacolo,
quasi tenero nella sua statica semplicità. E come lo apprezzavo nelle serate in
cui il mio programma di animazione non prevedeva fantastiche “attrazioni” quali
il bucato a mano, lo stiro sul tavolo, con un panno di fortuna, o qualche altro
lavoretto con cui tentavo di riempire l’agghiacciante vuoto di una troppo
recente libertà.
Vero era che mi mancava quasi tutto,
ed ero inerme davanti alla privazione in quanto tale. Risparmiare mi deprimeva,
spendere mi rovinava. Così, alla fine, evitavo di uscire, per non cadere in
tentazione. La casa, lei, mi proteggeva. Nel suo colorato bozzolo restavo,
aspettando tempi e fortune migliori. E se a volte mi sentivo triste, ecco che
sempre trovavo conforto nel fatto di avere un luogo - che non a caso è la casa
dei miei nonni paterni, a riprova che i morti non sono mai morti per noi, ma ci
aiutano, sempre, basta chiedere, a loro così come ai vivi: tutti ci aiutano se
solo lo chiediamo - che mi ospitasse e proteggesse mentre ero fragile e
spaventata. Una sorta di benefico pentacolo contro il male.
Finché, lentamente, non sono guarita.
Perché anche il dolore è una malattia. E va curato prima che ignorato.
Siamo tutti di ottima fiandra, solo
non lo sappiamo.
Altra foto del tinello,
ma visto dallo studio
Sempre lo studio,
ma con un occhio
sulla camera da letto
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