giovedì 12 settembre 2013

Di che stoffa?

(La "Triglia" è sempre stata abbinata alla "Fiandra", che inserisco  ora di seguito, in buona compagnia, prima di passare ad altri scritti, più recenti, come quelli delle Olimpiadi. Rileggendo, capisco di essere stata  molto infelice, e sono contenta di averlo trascritto, perché ora non sarei più capace di riprodurre così fedelmente uno strazio che solo a stento ricordo. Ho impiegato molto a guarire da certe ferite, ma quando l'ho fatto, l'ho fatto.
 
Da anni ho ricominciato a vivere. E' bellissimo.)
 
 
La mia cucina in Sant'Agostino...
 coi muri azzurro Egitto
 
Ottima fiandra

Torino, 25 gennaio 2005

Ci sono vite che hanno percorsi netti e regolari, come un colpo di carabina in un brumoso cielo d’autunno. O come una picchiata d’uccello, rapidissima e geometricamente accurata. Queste vite hanno un inizio e una fine ed entrambi costituiscono eventi riconoscibili. Sono cerchi squisiti, logici quadrati, eleganti prismi o anche solo banali rette da A terminano in B, secondo formule collaudate, velocità fisse, equazioni di rassicurante prevedibilità. Ma la mia elicoidale esistenza comincia e ricomincia di continuo, e ogni volta è uno strazio. Non soltanto mentale o emotivo - sebbene i fardelli del cuore abbiamo un peso tutto loro, terrificante perché non misurabile e mai specifico - bensì oggettivo. Ricominciare è brigoso, in ogni senso. E quando ci si stupisce dell’altrui immobilismo, del fatto che certe persone, invece di incidere energicamente e fattivamente sul proprio gramo quotidiano, buttando tutto all’aria, cambiando questo aspetto o quest’altro - casa, partner, professione, cane e financo marca di pelati – si adagino nella rassegnazione più assoluta, nel silenzio più opprimente, nell’accidia più paralizzante, non ci s’interroga quasi mai sulla gravosità del cambiamento stesso o sulla sua onerosa logistica.
 
Compiamo errori di ogni tipo. Tra tutti, è l’errore d’amore il più penalizzante. Perché sbagliare nella sfera pratica non è infrequente. Rimediare è quasi sempre un cimento, però affrontabile. Negli affetti, invece, ogni livello è toccato, e ogni livello va rivisto, corretto, ricreato. Spesso non resta che la riformattazione totale di quell’hard disk cui congiuntamente danno vita cuore, anima e cervello.
 
          L’hard disk di cui sono dotata io è sicuramente un prototipo sperimentale. Per funzionare, funziona e anche bene. Contiene risorse insospettate e comodi talenti. Soprattutto, mi regala emozioni improvvise e gioie violente. Peccato solo che questo “forte” sentire si manifesti anche al negativo. Quindi, forti sofferenze, forti delusioni, forti rivolgimenti, forti malumori. Le tarature sono due, massimo e minimo. Di normale, standard, medio, non c’è niente. Come dire: non ci si annoia ma nemmeno ci si rilassa.
 
         Il che spiega perché mi sia ritrovata a trascorrere le vacanze di Pasqua del 2001 con una cuffia da doccia in testa (di quelle del Novotel, trasparenti e rugosette, che non donerebbero nemmeno a Charlize Theron), a passare un gocciolante rullo intinto d’idropittura sul soffitto per metà spiovente di quello che è il mio attuale tinello. L’elicoide aveva compiuto il suo giro, sbattendomi da un comodo ma inadeguato ménage di provincia a un promettente ma scioccante nubilato bis in cui tutto era un divenire, io per prima e il mio alloggio per secondo.

 
Il tinello verde pistacchio,
coi piatti di Vietri (ormai spaiati ma tanto cari)
che mamma portò da Ischia
al ritorno dal suo viaggio di nozze
(1959)
 
 
Lo studio,
sempre in via Sant'Agostino
("Triglia" è in pole position a sx della vecchia tele,
che è venuta molto tempo dopo il racconto)
 
         Avevo sette valigie piene di cose inutili e care, irrinunciabili. Quattordici paia di scarpe, libri cult come la “Lettera d’amore” di Cathleen Scheen e le “Mele d’oro” di Rawlings, il mio abito da sera rosa col plissé davanti e due Venezie del Cavani, il servizio da tè della signora Tinozzi e il copricaraffa di pizzo e perline che avevo acquistato nel negozio di souvenir del castello di Glamis, in Scozia. Ma è un fatto che a rinfrancarmi sia il futile più che il necessario. Perché il necessario s’impone, il futile mai.
 
         Così circondata di bagatelle, e con l’unico conforto di un thermos di caffè forte, dipingevo per l’appunto il tinello, che era stato di tutti i colori ma che adesso sarebbe diventato verde pistacchio, per mio unico e legittimo piacere. Vi avrei messo i pochi mobili che avevo salvato, il tavolo rotondo dei miei e la vecchia madia dell’aceto rilaccata di bianco Dover. Lungo la parete accanto alla porta di cucina avrei appoggiato un triste tavolino che un drappo non orlato di stoffa inglese aveva curiosamente ingentilito. E il resto, pensavo, sarebbe venuto da solo. Lo studio rosso con la tovaglia di organza al posto delle tende e il divano riciclato del povero zio Mario. La camera da letto gialla con la tetra ma elegante mobilia della nonna Bice e il paravento dei Cuti. Il bagno indaco col cestello d’acciaio pensile dell’IKEA zeppo di cosmetici e saponi. E ancora la cucina celeste con un pomodoro rotondo infilato nel mestolo appeso. Sì, il resto sarebbe venuto da solo, pensavo mentre alacremente davo di rullo, con la pittura che – densa - mi colava addosso, avvolgendomi nel suo polveroso odore di mesticheria e rinnovo.
 
Ma da solo è venuto giusto l’affanno, perché ricominciare costa, e le spese ordinarie (cibo, vestiario, auto e storie varie) si assommano a quelle straordinarie (nuovo alloggio, nuovi mobili, nuovo tutto). Ed è venuto il panico, perché ricominciare fa paura, quando la notte sei sola nel letto e fuori piove e la pioggia ticchetta e tu ti chiedi quando tornerà il sole, sul tuo tetto, nel tuo letto e nella tua benedetta vita. Ed è venuto il dubbio, perché ricominciare mette in crisi (niente garantisce che la fuga sia meglio di ciò che l’ha motivata e niente prova che il futuro ti sia amico).
 
Il sollievo, invece, me lo sono dovuto procurare perché da solo proprio non veniva. Così, dopo aver passato Pasqua a tinteggiare, Pasquetta a sgurare, e quei venti-trenta giorni a trasportare mobili e a rompere stoviglie mal imballate, mi sono seduta sul divano dello zio e ho affrontato il pensiero dell’ennesimo punto e a capo.
 
 Intanto, la solitudine è bella solo quando si è felici. E allora non lo ero sempre, anche se prima stavo peggio. Comunque, non ero abituata a stare da sola, ad ascoltare i miei pensieri, a vedere le serate allungarsi come nastri di raso davanti ai miei occhi. Perché, di colpo, sì, avevo tempo. Magari non durante la giornata, quando traducevo. Ma non appena il cielo incominciava a scurirsi e lo schermo del computer a baluginare nella rossa atmosfera dello studio, ecco che per la prima volta dopo anni mi ritrovavo padrona di me stessa e sgomenta al pensiero di esserlo. Azioni che prima riservavo ai fine settimana o a quei ritagli impossibili tra lavoro e cena, o lavoro e pranzo, o lavoro e qualche altro dannatissimo pasto diventavano di colpo possibili già in prima serata. E la notte non aveva più limite, era anch’essa usabilissima per tante, meravigliose cose da fare.
 
 Solo che quelle tante, meravigliose cose non mi venivano più naturali. Perché non ero avvezza, e tutto quel tempo inizialmente mi inibiva. E se prima facevo cento, ora arrivavo sì e no a dieci. Un quadro invece dei due in poche ore di folle trasporto. Due libri al mese invece dei tre o quattro la settimana. Azzerata la produzione di anelli. Dimezzate attività come il ricamo, il cucito, il bricolage in generale. Non avevo più lo spazio per restaurare mobili vecchi, e gli attrezzi erano comunque perduti. La cucina non esisteva, per cui manco con le ricette mi sbizzarrivo più (ci sono limiti a ciò che si può approntare con una piastra, e i cibi freddi si esauriscono anch’essi). La televisione, che pure mi apparteneva, era rimasta nella mia vita precedente, pertanto nemmeno a quella potevo ricorrere. Non che l’abbia mai amata. Ma una serata senza TG1 può risultare sinistra di primo acchito. E certi telefilm si lasciano guardare quando gli occhi non vogliono leggere.
 
Ma la tele non c’era. E io non ero più inserita in un contesto familiare più o meno indigesto, con compiti da svolgere, doveri cui adempiere, diritti da difendere, bocconi da mandare giù. Ero libera. Libera di fare. Libera di mangiare quando volevo, libera di dormire quando me ne veniva l’estro, libera di uscire ogni volta che me ne saltava il ticchio. Ed ero libera anche di non fare. Libera di non stirare le mutande e nemmeno gli stracci. Libera di non riordinare la scrivania a fine giornata. Libera di non pensare a che cosa fare per il pranzo già a colazione. Libera di non fare la spesa alla Coop ogni tre sabati del mese, senza dimenticare il latte e la farina 00.
 
Insomma, libera. Be’, concettualmente è bellissimo. Nella pratica è terrificante. Quelle serate che prima corteggiavo e vagheggiavo, adoravo e centellinavo come rum Demerara adesso erano paventate, temute, disprezzate, esorcizzate, quasi rimosse.
 
Soprattutto sembravano lunghissime. Spegnevo il computer, ricordo, e trascinavo i piedi fino alla cucina. Guardavo nel frigo, il mio unico elettrodomestico dopo il computer, e dentro c’era sempre qualcosa che non volevo mangiare. Mi adattavo, però. Così, approntavo la piastra in terrazza, con le rose appena piantate che mi guardavano curiose, con le loro tre foglie in croce, e mi cucinavo la classica bistecchina che un’insalata di pomodori rendeva appena meno squallida. Poi, lavavo i piatti nel bagno (il lavello non c’era). L’acqua calda tardava a venire, perché il boiler era in cucina, così aspettavo. Faticosamente, riempivo la bacinella verde mela di Mister Brico. A quel punto, mi sedevo sul water, e macchinosamente passavo un piatto dopo l’altro sotto il rubinetto del bidet. Allora lo facevo come una penitenza. Ma è un ricordo che ora mi è più caro di un vecchio golf. E che mi fa sorridere. Anche perché, per lavare tre piatti, impiegavo un’eternità, e spruzzavo dappertutto, soprattutto le pareti piastrellate, che poi mi toccava pulire.
 
Nel frattempo, tuttavia, si erano fatte le ventuno e già così non andava male. In capo a un’altra ora mi sarei potuta ragionevolmente coricare, e il sonno è incolpevole, ti salva da ogni situazione. Solo che le ventidue erano lontane. Così, mi sedevo sul solito e ormai amatissimo divano e, col fatto che nemmeno fumavo più, fissavo lo sguardo sulla portafinestra. Questa incorniciava la Ghirlandina, così bianca e perfetta nella sua illuminazione notturna. Era la mia televisione di allora: i tetti di Modena con la Ghirlandina algida e svettante. Un programma personalizzato, per me soltanto, a reti unificate, perché unica era la rete, quella del Duomo, patrimonio dell’umanità.
 
E com’era umano, quello spettacolo, quasi tenero nella sua statica semplicità. E come lo apprezzavo nelle serate in cui il mio programma di animazione non prevedeva fantastiche “attrazioni” quali il bucato a mano, lo stiro sul tavolo, con un panno di fortuna, o qualche altro lavoretto con cui tentavo di riempire l’agghiacciante vuoto di una troppo recente libertà.  
 
Vero era che mi mancava quasi tutto, ed ero inerme davanti alla privazione in quanto tale. Risparmiare mi deprimeva, spendere mi rovinava. Così, alla fine, evitavo di uscire, per non cadere in tentazione. La casa, lei, mi proteggeva. Nel suo colorato bozzolo restavo, aspettando tempi e fortune migliori. E se a volte mi sentivo triste, ecco che sempre trovavo conforto nel fatto di avere un luogo - che non a caso è la casa dei miei nonni paterni, a riprova che i morti non sono mai morti per noi, ma ci aiutano, sempre, basta chiedere, a loro così come ai vivi: tutti ci aiutano se solo lo chiediamo - che mi ospitasse e proteggesse mentre ero fragile e spaventata. Una sorta di benefico pentacolo contro il male.
 
Finché, lentamente, non sono guarita. Perché anche il dolore è una malattia. E va curato prima che ignorato.
 
 Il dubbio è sparito in un mese, il panico in due, l’affanno in tre anni. E sono ancora libera, solo che di vuoto non c’è più niente, né fuori né dentro di me. La casa si è riempita di mobili, e il balcone trabocca di rose, caprifogli e clematidi. Le tre foglie in croce sono diventate tremila, e c’è un bel mazzo d’aglio attaccato in balcone. Possiedo un vero asse da stiro e la mia cucina dell’Ikea sforna continue delizie. La televisione è rientrata nella mia vita e, qualche volta, per gratitudine, la guardo anche. Pure le idee sono tornate, e di nuovo scrivo, dipingo, ricamo e sempre con qualcosa armeggio, creando meraviglie e orrori in egual misura.
 
 La libertà non mi fa più paura: so usarla. E la povertà ha avuto una sua amara utilità. Adesso sono felice anche con poco perché c’è stato un tempo in cui sono stata infelice con molto. Non sono le cose a servirci. E’ la passione. Ovunque ci vuole passione. Ricominciare è orribile, non farlo lo è di più.
 
 A volte penso a me stessa come a una bianca tovaglia rattoppata. La sua fiandra, tuttavia, è di ottima qualità e i rammendi sono belli robusti. Finché c’è un ago, finché c’è un filo, finché c’è voglia di cucire, avanti si può e si deve andare. Perché la stoffa, quella, reggerà in ogni sua fibra.
 
Siamo tutti di ottima fiandra, solo non lo sappiamo. 

 
Altra foto del tinello,
ma visto dallo studio
 
 
Sempre lo studio,
ma con un occhio
sulla camera da letto


 
 
 
 

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