(Anche questo è un racconto del 2010, apparso originariamente all'inizio di quest'anno nell'antologia degli ex Alumni della Scuola per Interpreti e Traduttori di Trieste http://issuu.com/sslmit30/docs/sslmit30. Lo avevo incominciato a marzo, quando Lorenza [Destro] mi aveva parlato di un progetto che aveva con Saulo [Bianco] di realizzare un'antologia del periodo universitario. A me scrivere piace e soprattutto ho una memoria capillare... sia per le cose brutte che per quelle belle. Ma sto quasi sempre facendo qualcosa, e non riesco a dedicarmi a quella che sarebbe una grande passione. A marzo però incominciai a scrivere "Foglia d'edera" che riassume velocemente ma precisamente non solo gli anni universitari ma anche quelli che seguirono.
Poi, nel maggio del 2010, mi accaddero 2 cose. Venni colpita da un ictus giovanile, dovuto al fatto che avevo il forame ovale pervio, e persi quel senso di onnipotenza che da sempre mi accompagnava. Non ero più integra, perfetta, quasi d'acciaio come avevo sempre pensato: anzi, a momenti ero stata lì lì per diventare la organizer più improbabile di nostro Signore, seduta dietro qualche bella scrivania... vista nuvole! Questo pose un accento totalmente diverso sull'andamento del racconto stesso, che ripresi in convalescenza, e soprattutto sulla sua conclusione, che avvenne nel giugno di quello stesso anno.
Allora non potevo sapere che l'ictus sarebbe stato la parte "migliore" di quell'anno, e che tanto dolore ancora sarebbe venuto. Ma a giugno contavo soltanto le mie benedizioni, e "Foglia d'edera" uscì così, fragrante, pulito, quasi giocondo. Ero felice di vivere (ancora).
Il titolo richiama l'amicizia che strinsi con il tenente Piero de Petris, un eroe per la mia diletta Italia e per me anche un angelo custode. So che queste presenze possono strappare un sorriso. Ma Piero fece per me quello che la Dame Au Foulard fece per Saulo. He made me win.)
Foglia d’edera
di Maria Gaetana
Ferrari
Prima che mio, Trieste era il
sogno di mia madre.
Una donna elegante, colta e briosamente
intelligente che avrebbe voluto studiare all’infinito. Ma è nata in un’epoca,
nemmeno tanto lontana, in cui a studiare erano i maschi, anche quando quei
maschi avevano meno talento o cervello o amor proprio. Per lei niente
università, giusto le Magistrali… per la gioia di schiere di vocianti alunni
che se la sono contesa fino a quattro anni fa.
Ha insegnato fino all’ultimo, la maestra
(Maria) Rosa, e appassionatamente, con un’abnegazione assoluta. Nemmeno così si
è placata. Infatti ha prolungato di altri due anni, andando in pensione oltre
il limite, a sessantasette anni compiuti, dopo aver portato fino alla quinta
quella che sarebbe stata la sua ultima, fortunata scolaresca. E avrebbe potuto
continuare, perché ancor oggi si divide tra me e mia sorella, Francesca Romana,
il babbo e i suoi (molti, variegati) medici, il corso d’inglese, quello d’acquarello,
le mostre di ogni tipo e pregio (anche dubbio) verso cui ha una vera e propria
dipendenza, gli amici, le gite dell’università della terza età… una lista che
potrebbe continuare all’infinito, se fosse per lei.
La sua energia è pazzesca,
persino Cecilia e Beatrice, detta Bibi, le mie nipoti quasi ventenni, da anni
negli Scout e comunque sportivissime, fanno fatica a starle dietro. Io e mia
sorella, ben più agées, manco ci
proviamo più! Patton (dal famoso generale americano che mamma sembra voler emulare)
sa essere veramente massacrante quando si tratta di fare, organizzare,
prenotare, partire, lettera e testamento. A volte mi stanco solo a sentirle
enumerare le varianti di programma di una sua domenica ideale. Ma è anche vero che
le sue domeniche ideali si sono rarefatte adesso che il papà non sta più così
bene.
E’ uno strano destino, quello di
mia madre. Il destino di una donna con mille sogni, mille interessi… e mille
ostacoli per ciascuno di essi. Ma lei non si è persa d’animo, e quanto non ha potuto
o voluto fare lo ho letto o scritto oppure immaginato, anche attraverso di me,
attraverso quello che facevo io.
Di Trieste, non sapevo un tubo.
Fu lei un giorno a passarmi la fotocopia di un articolo che lessi
nell’accecante mensa piastrellata del Liceo Linguistico Mercurio di Modena.
Parlava di una scuola nel vento, una scuola a numero chiuso in cui solo pochi
eletti entravano per singhiozzante miracolo divino. Non so che cosa m’intrigò di
più, se il vento, che di fatto adoro, visto che ha sempre caratterizzato i
momenti più semplicemente felici della mia vita, o la difficoltà dell’implicita
sfida. Ma ricordo bene quel giorno in mensa, perché di colpo mi assalì il
tormento di provare, ed ebbi paura.
Non fu che l’inizio.
Della paura, intendo.
Perché, tra tante emozioni che ho
provato a Trieste – e ce ne sono moltissime, tutte molto intense - è stata la
più fedele e ricorrente, non mi ha lasciata mai. Al punto che ci sono state
volte in cui ho persino avuto paura di non
avere paura. Di essere insomma troppo sicura di me, magari a torto.
Mi diplomai in uno sfolgorante
luglio del 1984. Faceva un caldo terribile all’orale. O forse ero soltanto
nervosa, essendo stata sorteggiata prima assoluta dell’intero liceo. Just my luck. Me la cavai bene, però, e
uscii con quel benedetto sessanta che tutti si aspettavano da me. Non mi
dilungo sull’argomento perché Dionisio, il primogenito di Landa, mi ha già
accusata di autocelebrazione. Rimane il fatto che da giovane ero una secchia.
Un dato importante per capire qualcosa/tutto di me.
In ogni caso non ebbi il tempo di
assaporare quel piccolo successo perché, col fatto che l’ammissione a Trieste
si sarebbe svolta in autunno, urgeva partire, informarsi, iscriversi. Allora si
faceva tutto di persona. Il fax era quasi esotico, la mail era un pensiero
stupendo che nessuno si era ancora fatto venire, e il telefono era quello
strumento simpatico ma inaffidabile che non ti dava alcuna certezza.
Anche sul treno faceva un caldo
terribile. Io indossavo la camicia a scacchi giganti che avevo comprato da
Massi Cremonini, quando ancora aveva il maglificio a Carpi. L’avevo “finita”
con un cinturone che si è disintegrato negli anni, tanto l’ho usato e amato e
ancora usato. Con me c’era Patton, in rigoroso chemisier blu. Perché mamma è la
donna meno colorata del mondo nel vestire. Beige, nero e blu con una puntina di
bianco sono le sue tinte canoniche, a prescindere dalla stagione… ma non dalla
circostanza (certo non si vestirebbe di nero a un matrimonio, via). Col fatto
che io, invece, sono coloratissima, non posso dire che il mio guardaroba
incontri la sua approvazione. Generalmente mi trova “sopra le righe”, il che
significa che l’abito è troppo fantasia (7%), oppure troppo scollato (13%),
oppure troppo alla moda (22%), oppure troppo frivolo (27%) oppure semplicemente
sacrificabile (31%).
Naturalmente, quando faccio
shopping, mi guardo bene dal coinvolgerla.
La camicia di Massi, però, le
piaceva perché, per quanto colorata and
checkered, era di gusto, con un miscuglio di verde menta sopita, azzurro
pavone e tabacco che ancor oggi ricordo con piacere. Più del viaggio, in ogni
caso, che fu eterno. Cambio a Bologna e poi cambio a Mestre, e Mestre si rivelò
una stazione mesta, del tutto dimenticabile. Come i paesini che sfilarono in
rapida successione. San Donà, Portogruaro, San Giorgio, Monfalcone. A
Monfalcone le case erano così vicine alla ferrovia e tanto più in basso da
creare un buffo effetto teatro. Come se, seduta dal treno, stessi guardando il
fondale di una commedia in cui non succedeva nulla. Poi il treno prese una
curva, e parve come inanellarsi, e si stagliarono la costa e il mare e grande
fu la mia meraviglia, perché ci sono poche viste al mondo che mi hanno commossa
come quell’ondulato nastro di scoglio che precede Trieste, rasentando il
castello di Miramare o Miràmar come dicono i triestini.
Dicono anche, anticipando
l’accentazione in modo alquanto bizzarro, lùnedi invece di lunedì (ripetibile
su tutti i giorni della settimana), ìppocastano invece di ippocastano e così
via.
Allora non sapevo che Miràmar fosse
stato il castello dell’infelice Carlotta e che dalle sue ariose finestre il
mare risplendesse come un pezzo di specchio nel sole. Dal treno forse lo
guardai anche, quella volta, ma senza veramente registrarlo. Ci andai in
seguito, con mia madre e mia sorella, quando ero già al secondo anno della
Scuola Interpreti, e conservo fotografie di quel giorno. Ero tornata castana ma,
per la gioia della mia grande ammiratrice di sempre, Marcella Rivatelli, il
passaggio da chiaro a scuro si era tradotto in una sfumatura verdastra che nelle
foto mi conferiva un aspetto alieno. O forse era il cappottone della Maska con
la martingala, bellissimo ma severo, più adatto a una quarantenne che alla ventenne di allora. Del resto, mi sento più
ventenne ora, a quarant’anni passati, di come non mi sentissi da ragazza.
Comunque, Miramar apparve e
disparve, lasciando il mare luccicante, con poche barche in lontananza. All’epoca
i finestrini del treno si aprivano ancora all’interno dei singoli scompartimenti
e, abbassando il vetro a ghigliottina, l’aria entrava giocosa, gonfiando le
tendine di tela grossolana.
Me lo risento in faccia, quell’odore
di salsedine, cose perdute e vento perché segnò l’inizio di un grande amore,
quello mio per Trieste.
Mi piacque subito. Ne amai la
stazione asburgica, che trovai esotica in quanto terminale. Non come a Modena,
dov’è passante, e arrivare è come partire, non sai mai esattamente da che parte
andrai. Amai il parchetto antistante la stazione, che pure non vantava particolari
lusinghe. E amai i vetusti edifici del lungomare, con quei cornicioni che, come
opulenti merletti rigonfi di fiori e frutti, si drappeggiavano intorno a porte
e finestre, abbracciandoli. Una meringa su un piattino da tè vittoriano,
pensai. Fu questa l’immagine che mi evocò Trieste di primo acchito. Bianca,
turgida e spumosa. Uno sbuffo di panna montata davanti all’azzurro riflesso del
mare.
Nulla rovinò l’impatto iniziale
perché Via D’Alviano mica la vidi subito. No, con mamma si andò all’Università
vera e propria, quella di travertino bianco in stile razionalista che rimaneva
sul monte, con la scalinata interminabile che la bora si divertiva a
trasformare in uno scivolo gigante. Ma questo, allora, non potevo saperlo.
Mi avevano parlato della bora,
naturalmente, solo che pensavo fossero esagerazioni. Alla tele, quando
soffiava, mostravano crocevia ventosissimi dove omini attaccati a pali e catene
lottavano contro un nemico invisibile che gonfiava i loro cappotti di tweed e
dove le macchine finivano in mare come i bastoncini colorati dello Shanghai. Però,
non sembrava una cosa possibile, dai. Lo diventò la volta in cui che venni
sollevata, motorino (lo storico Ciao di mia sorella) e tutto - proprio così, a
mezz’aria, come un’emerita minchiona! - sulla salitina che precedeva via
Parenzan. E lo diventò ancor di più quando vidi Crevatin, docente di
linguistica applicata e astruserie varie che fui anche costretta a studiare, sfidare
in pieno vento contrario un lastrone di ghiaccio con l’aiuto dei famosi rampini
(com’erano buffi, com’erano utili!).
Un vecchio detto triestino recita
che la bora nasce a Segna (Senj), si sposa a Fiume e muore a Trieste. Ma se
anche muore a Trieste, diciamo che lo fa… con vigore, ecco.
Quel giorno, comunque, non
soffiava alito di vento e la salita fino alla segreteria fu sostanzialmente uneventful. Davanti allo sportello sostava
con la madre un’altra ragazza, una delle Tre Grazie, la Paola, che mi raccontò
di essere nata in Africa, cosa che trovai molto intrigante, visto che io ero
più emiliana di un tortellino. Venne poi il nostro turno e un fascio compatto
di moduli passò da un lato all’altro del vetro.
Così attrezzate, prendemmo un
taxi fino alla fermata successiva, il cui nome avrebbe gettato chiunque nello
scoramento più totale. La “Casa della Fanciulla” di Via Giulia era un istituto
religioso che accoglieva ragazze madri e studentesse timorose della vita e
della propria ombra. Vi si accedeva da una porticina di vetro smerigliato che
dava adito a una piccola scala di graniglia bianca e purpurea. Ci accolse una
suora di grigio velata che ci fece fare un piccolo giro dell’(orrenda)
struttura, conducendoci infine nella stanzetta che avremmo occupato. Mamma
aveva infatti deciso che avremmo pernottato lì, al convitto, così da vedere se,
magari, non potesse fare al caso mio anche in futuro. Se fossi stata ammessa
alla Scuola, infatti, avrei dovuto alloggiare da qualche parte, e la Casa della
Fanciulla sembrava depressa e morigerata al punto giusto. Il genere che garbava
al babbo, terrorizzato all’idea che io potessi veramente finire a Trieste e
sottrarmi a ogni genere di controllo “dove-vai-che-cosa-fai-chi-è-quello-che-cosa-fa-suo-babbo-e-anche-suo-nonno”.
Ora, con tutto che ero una
secchia, non ci volevo abitare, in quel posto. Tanto per incominciare, non ero
una fanciulla. Quanto meno, non mi vedevo così. Leggiadra non ero per niente,
visto che misuravo un metro e ottanta dagli undici anni d’età. E comunque non
s’era mai vista una fanciulla col quaranta di piede. Certo non nei romanzi dei
fratelli Delly, dov’erano tutte more e graziose e naturalmente mignon! Secondariamente,
per quanto praticante, non ero bigotta, pertanto l’idea di circondarmi di
suore, santini e crocefissi con chiodi sanguinanti non mi allettava per niente.
Avevo fatto dodici anni di catechismo alla Madonna Pellegrina del temutissimo
Don Ivo, mi sembrava di aver dato abbastanza. Anche perché era già tanto che,
dopo quelli, fossi rimasta fiduciosamente cattolica.
La mamma, tuttavia, si mostrò contentissima della Casa della
Fanciulla. Era ben servita dai mezzi, sentenziò con piglio pratico, e le stanze
erano ordinate. Certo, non era un posto lussuoso (neanche mia madre ha simili
coraggi!) e l’odore stagnante di pasta e fagioli cotta e ricotta non era
invogliante. Tuttavia, costituiva una buona base da cui esplorare Trieste. Se
poi fossi stata presa alla Scuola, avrei potuto sfruttare quell’appoggio per
cercare un appartamento con altre studentesse. Insomma, la Casa andava
benissimo, come la bistecca nell’olio (anche se, questo, mamma non lo disse.)
Non ricordo che cosa facemmo o mangiammo
quella sera mentre ho un’immagine nitidissima del bagno comune, squallidissimo
e cupo, nonché del letto, che era poi una branda di ferro, con una coperta
militare color testa di moro e un lenzuolo che non aveva mai conosciuto il
languoroso profumo di un ammorbidente. Il materasso era bitorzoluto, senz’altro
di crine ma, se dormii male, fu perché prima di chiudere gli occhi gettai
un’incauta occhiata al materiale che avevamo ritirato dalla segreteria della
Scuola Interpreti.
Tra i tanti fogli, spiccavano le
prove degli esami d’ammissione degli anni passati, che avevo richiesto sia per
francese che per inglese. Francese era infatti la mia prima lingua, e mi
consideravo forte sia allo scritto che all’orale. Ma “forte” non mi sentii per
niente quando scorsi la prima frase, preceduta dal cappello: “ESAME DI
AMMISSIONE – TRADUZIONE DAL FRANCESE IN ITALIANO – SCUOLA SUPERIORE DI LINGUE
MODERNE PER TRADUTTORI E INTERPRETI”.
La frase in questione era lunga
tre righe soltanto e constava di 24 parole. Mi sembrò scritta in aramaico,
tanto mi risultò comprensibile.
Non dissi nulla a mia madre, riposi
il foglio e cercai di spegnere il cervello.
Naturalmente il trucco non
funzionò, e mi arrovellai tutta notte su quella maledetta frase e sul senso di
infinita inadeguatezza che aveva saputo, così d’emblée, comunicarmi.
Al risveglio, lei era lì. La Casa
della Fanciulla, cioè. Per fortuna, oltre a quella, c’era anche mia madre che
se non altro odora sempre di Chanel e al mattino è più cinguettante che mai,
specie se in trasferta. Cinguettò anche allora, e mi trascinò al bar per la
colazione. Gli zuccheri salirono, l’umore anche e il fervore si rinnovò. Avrei
studiato, mi dissi. Sì, avrei studiato e mi sarei esercitata e avrei dato il
benedetto esame, perbacco! Anche se, forse, sarebbe stato più corretto dire che
lo avrei “tentato”.
Tornai a Modena come un’Erinni e
mi buttai a pesce sui libri. Rividi ogni singola regola, rilessi pagina dopo
pagina, rifeci tutti gli esercizi degli anni passati e nei ritagli di tempo sfogliai
anche lo Zanichelli, memorizzando termini inconsueti. In francese scrivevo a
mano intere pagine di verbi, declinandoli variamente. Poi, ascoltavo cassette,
traducevo canzoni e scrivevo mediocri poesie.
Non paga di ciò, feci ritorno a
Trieste – e alla Casa della Fanciulla - per un minicorso propedeutico all’esame
di ammissione. Fu allora che vidi per la prima volta via D’Alviano, col famoso
ex jutificio che tanta parte avrebbe avuto nella formazione del mio (terribile)
carattere. Vi approdai con la ventinove e, chiedendo a destra e a manca, raggiunsi
il laboratorio in cui languiva lo sparuto gruppetto che aveva aderito al corso.
Mi stupii della scarsa affluenza. Com’era possibile che fossimo così in pochi a
voler aumentare le nostre chance di entrare?
In seguito, Lodi Rizzini mi disse
che quel corso faceva pena, infatti lo seguivano soltanto gli sfigati. Aggiunse
che nessuno di quegli sfigati entrava mai.
(Per fortuna lo appresi dopo l’ammissione).
Comunque, mi sedetti accanto a
una ragazza delle Marche con la quale legai subito. Lei era lì da qualche
giorno e, siccome era più spiccia e si depilava anche le sopracciglia,
m’insegnò un sacco di cose. Tipo a pranzare in mensa, ch’era per me terra
sconosciuta e potenzialmente nemica. A Modena manco alla biblioteca civica mi
avventuravo, timida com’ero. Ma l’Angela, così si chiamava, mi trascinò alla
mensa dell’Università centrale, mi cacciò in mano un vassoio di plastica marrone
che voleva imitare il legno d’acero, e mi disse: <<Spicciati>>. Così
mi spicciai, entrai nella fila, presi il pane (che non mangio mai ma desideravo
incominciare con un gesto significativo), aggiunsi posate, bicchieri e acqua, e
affrontai le solide signore dell’interminabile bancone di acciaio. <<Ciò, cos te vòl, mula?>> La mula
voleva pasta al pomodoro. No, niente formaggio, grazie. E, sì, due mestoli
pieni sarebbero andati benissimo, visto che avevo una fame assassina. Evasa la
“pratica pasta”, passai al secondo. Ma tra baccalà annegato nel sugo e arrosto
talmente cotto da arricciarsi ai bordi come trine sintetiche, ripiegai sulle
patate lesse, che mi parvero tanto care nella loro semplicità giallo chiaro.
Frattanto aveva terminato anche
Angela di riempirsi il vassoio e insieme caracollammo in direzione dei tavoli
strapieni. Trovammo posto sul fondo, e ci sedemmo, io di schianto. A distanza
di anni, ricordo quel percorso come eternamente lungo, e conservo
un’impressione tutt’al più vaga della mensa in generale, perché, terrorizzata
com’ero da quell’ambiente nuovo e da tanto assembramento, se mai alzai la testa
dal piatto, fu solo per rispondere ad Angela che, a differenza di me, si
sentiva perfettamente a proprio agio.
Io invece ero selvatica come un
cardo, e avrei impiegato anni a superare il blocco di trovarmi in pubblico. Già
era tanto che m’inserissi in un gruppo, in un’attività comunitaria, in un contesto
overcrowded, sebbene una stagione in
Valtur nell’estate della quarta liceo mi avesse insegnato a dissimulare il
panico che la folla generava in me.
Con me e Angela studiavano due
ragazzi kuwaitiani, Imed e Mohammad, quest’ultimo figlio di un antiquario.
Parlavano un buon inglese e un perfido italiano, sfoggiavano improbabili
capelli moicanati, comunque erano simpatici e in breve diventammo inseparabili,
specie quando si trattava di studiare nella piccola biblioteca della Scuola… da
cui guatavo, non vista, la mia cotta del momento, il già menzionato Lodi
Rizzini, interprete in fieri. Perché
mi piacesse così tanto, non so, visto che era riccio di capelli e io, i ricci,
li odio adesso come li odiavo allora (anche su di me). Lo trovavo carino e, col fatto che portava gli
occhiali ed era oltremodo pallido, mi sembrava avesse quell’aria
superintelligente, un po’ da genio.
Non gli parlai mai in quel
periodo né lui mostrò il benché minimo interesse nella mia persona, anche se in
seguito, dopo l’ammissione, quando poi ci conoscemmo e ci rivolgemmo la parola
grazie a Landa Grazioli (erano entrambi mantovani), lui mi chiese che cosa ne
fosse stato dei due “indiani” con cui facevo comunella in settembre. Gli
“indiani” erano Imed e Mohammad che, di indiano, avevano ben poco, essendo del
Kuwait. Mi spiacque per i miei amici, che persi di vista del resto, e la cotta
– magicamente – passò. A volte sono piccole cose a ridarti grande sobrietà.
Tutto questo sarebbe venuto dopo,
naturalmente.
Il corso volse al termine, e io
tornai a Modena ma lì non mi fermai (quando mai?). Mi ero altresì iscritta
all’esame di ammissione della Scuola Civica di Lingue di Milano, che godeva di
ottima reputazione. Sarebbe stato il mio piano B dopo Trieste. Partii pertanto
per Milano dove studiai indefessa per un’altra settimana, ospite della cugina
Claudina e di sua madre Giovanna. La Claudina, che in realtà si chiamava
Claudia, aveva un anno più di me, ed era spiritosa e sveglia. Sua nonna Rosina,
che era sorella di mia nonna Beatrice, passò alla storia per averle rivolto
come precipuo complimento da neonata il fatto di avere “un collo da cigno”.
In realtà la Claudina aveva un
collo normalissimo ma ciò che la rendeva del tutto particolare era il carattere
allegro che fede, intelligenza e tenacia rendevano irresistibile. Io ero felice
quando ripassavo con lei nell’Aula Magna della Cattolica, sua alma mater da più di un anno. Fu una
settimana attivissima e spensierata che mi allontanò col pensiero da Trieste
perché, sebbene non mi piacesse la grigia e frenetica Milano, che pure offriva
spunti interessanti, visto che l’anno prima avevo preso contatti con un’agenzia
di modelle che avrebbe potuto aiutarmi ad arrotondare, adoravo la Claudina,
perché percepivo in lei un rigore assoluto, un lindore mentale che niente mai
avrebbe potuto contaminare. A suo confronto io ero ancora una bamboccia: non le
stavo alle caviglie.
L’esame alla Civica si svolse
prima dell’ammissione a Trieste, e già con quello subii la prima, sostanziale
ridimensionata. Le frasi da tradurre erano lunghe e involute, le multiple choice addirittura crudeli… per
non parlare del test d’italiano che avrebbe messo in crisi lo stesso Dante
Alighieri prima dell’esilio a Ravenna (e anche dopo).
Uscii scornatissima e, tornando
in treno con mia madre, piansi tutte le lacrime che mi riuscì di trovare. Il
povero Patton mi consolò come poté (veramente fare i genitori richiede nervi
d’acciaio) ma come si fa a consolare una sgobbona che aveva pensato/sperato di
essere un mostro almeno di bravura? Di colpo fui mostro e basta, perché sono sempre
stata complessata e non ho mai realmente superato il trauma che mi derivò
dall’essere l’adolescente più brutta e scorbutica delle GB Amici, quella col
busto alla marsigliese che tutti
chiamavano Furia, non perché fosse bella come l’omonimo cavallo ma perché
semplicemente sembrava… un cavallo!
La media scolastica, il fatto di
eccellere grazie allo studio e a una certa eloquenza mi avevano sempre ripagata
in passato. Ma se adesso non eccellevo più scolasticamente, come mi sarei
riscattata in futuro? Ero ancora brava, okay. Non così tanto, però.
Da uno ero di nuovo nessuno.
Fu così che il mio terzo
soggiorno alla Casa della Fanciulla principiò sottotono. Evitai di farmi
accompagnare da Patton, già duramente provato dall’esame di Milano. Alla Casa
ritrovai Lucia Piccione, una ragazza calabra con cui avevo diviso la camera quand’ero
venuta per il corso. Lucia frequentava Scienze Politiche, e aveva occhi scuri e
liquidamente intensi che ti facevano ignorare la pelle rovinata da un’acne
feroce che nemmeno la dermoabrasione – tanto mi raccontò lei stessa – aveva
potuto arginare. Per certe persone l’inferno incomincia prestissimo, e non si
risolve mai. La famiglia della Lucia non appoggiava i suoi sogni accademici,
cosa che faceva di lei l’essere più solo e volitivo del mondo. Restammo amiche
per qualche anno, vedendoci sporadicamente anche quando mi trasferii in via
Hermet, poi persi le sue tracce e a tutt’oggi non so più niente di lei.
Ancora una volta fu studio matto
e disperatissimo che si consumò tra la Biblioteca dell’Università centrale e la
Casa della Fanciulla. Non bazzicai lo jutificio, non quando correvo il rischio
di esserne esclusa per sempre. Nei rari momenti liberi vagavo per la decadente
e affascinante Cavana, assorbendo l’atmosfera di Trieste vecchia, e spesso ero
così schizzata e nervosa che dal tribunale salivo a piedi - quasi di corsa -
fino a San Giusto, dove m’immergevo in quella natura fuori dal mondo che pure
rimaneva in città. Se non andavo in chiesa, guardavo il mare o percorrevo la
strada a serpentina che abbracciava tratti erbosi o alberati sotto cui
spiccavano lapidi grigie in ordine sparso.
Passavo da una all’altra, leggendo nomi e date, piccole notizie che
riassumevano vite finite, vite di cui non sapevo nulla ma che di colpo m’incuriosivano
e al contempo turbavano, perché ero turbata di mio, e avevo bisogno di tutto.
Siccome mi sentivo fragile e molto
sola, scelsi una lapide e feci amicizia col defunto che commemorava. Si
chiamava Piero de Petris, tenente, ed era nato a Trieste il 18 febbraio 1915. Di
lui mi colpirono il nome aulico e il fatto che, avendo vissuto così brevemente,
si fosse probabilmente giocato esperienze fondamentali o anche solo piacevoli.
Un’edera comune cresceva intorno alla lapide, incorniciandola a destra come un
piccolo fregio. Un giorno ne staccai una foglia, verde e lucidissima, e la
infilai tra le pagine della piccola Bibbia nera, dal dorso scollato, che era
stata di mia madre e che mi accompagna da allora. Elessi Piero mio angelo
custode e incongruamente promisi che, se avessi passato l’esame d’ammissione a
Trieste, sarei andata per sempre a trovarlo.
Che cosa possa aver pensato quel
povero ufficiale caduto in AOI ancora non so. Ma il sodalizio nacque e mai si
spezzò perché, come risultò poi, io entrai effettivamente alla Scuola e
continuai le mie visite a Piero, anche se irregolarmente, visto che la
frequenza era obbligatoria, gli esami infiniti e le ore di studio praticamente
eterne.
Non solo. Anni dopo, quando già
ero laureata e lavoravo full time, incorniciai la fogliolina e l’appesi al
mare, accanto al letto. Poi la mia vita fu stravolta e persi tutto. Ma salvai
la foglia di Piero (perché la nascosi) e le cambiai addirittura cornice. Adesso
è con me a Torino. Mi segue o io seguo lei, non ho ancora capito. So solo che
siamo ancora insieme, la foglia col mio angelo e viceversa, come quel giorno a
San Giusto, quando più del sangue mi scorreva dentro la paura.
Immagino che questa cosa possa
sembrare ridicola. Immagino anche di essere grande abbastanza da poterlo
sopportare. Non ci si vergogna di un angelo, e certo io non mi vergogno del
mio, che è anche medaglia d’argento ed è caduto in guerra.
Tra angeli (di San Giusto) e
demoni (della mia mente), arrivai al giorno dell’ammissione, che si tenne
all’Università Centrale in uno stanzone che miracolosamente ci conteneva tutti.
Mi dissero che per inglese eravamo in ottocento ma tuttora mi sembra un numero
incredibile che comunque mai verificai.
Ci consegnarono due fogli, non
ricordo se insieme o a fasi alterne, il primo per la traduzione attiva e il
secondo per la traduzione passiva. Poi, ci sarebbe stato il dettato, annunciò
l’allora alive-and-kicking Patricia
Coales, sorridendo dalla cattedra parecchio più in basso.
Angela sedeva lontano da me. Lo
stesso ci guardammo allucinate. Poi, cercai Imed e Mohammad. Ma non li vidi nel
marasma generale. Allora, mi tolsi l’orologio che posizionai in bella vista,
per tenere d’occhio i minuti, e quando la commissione diede l’okay, girai i
fogli.
Qui, più che la memoria, mi
aiutano i testi stessi, perché ho voluto conservarli.
Adesso, dopo infiniti romanzi
tradotti e i quotidiani contratti che ricevo, assimilo, modifico e firmo, mi
farebbero un baffo, naturalmente. Allora, invece, il baffo, me lo fecero sudare
e basta.
Cito in particolare una frase, la
terza del foglio di traduzione dall’inglese verso l’italiano.
Soccer’s top brass
gloomily predict the pending doom of the game, but little is being done to
alter the situation.
Uhm, mi dissi, mentre leggevo e
rileggevo freneticamente parole che, anche sommandosi, non mi dicevano gran
che.
E pensai: Piero, Piero.
Piero, non so che cosa fece. Io…
mi diedi una mossa! Sapevo che soccer
era il calcio, che brass era l’ottone
(anche se con top non mi sembrava
c’entrasse tanto) e che doom indicava
un destino non propriamente benigno. Da quelle tre parole ricostruii la frase
da zero a cento, traducendo a senso, anzi a sentimento, e il sentimento in
questione era la disperazione. I top
brass diventarono “caporioni” (mi venne così) e il resto seguì da solo.
Terminai l’esame in una sorta di
provvidenziale trance, e il giorno seguente fu anche peggio, perché se la prova
di inglese era stata mission impossible, quella
di francese diventò addirittura suicidal,
e la Politi mi ricordò Ramsete II dopo l’imbalsamazione, con quel viso
bianchissimo tirato-tirato, e quel sorrisetto piccino, a mezzaluna.
A prova avvenuta, riaffrontai il
viaggio verso Modena, troppo spossata persino per piangere. In stazione a
Trieste mi accompagnò Mohammed che, a quanto pareva, si era preso una cotta,
perché al momento di partire mi allungò due braccialetti. Così, senza sacchetto
né carta. Erano di plastica, uno rosa bebé e l’altro turchese, e li trovai
bruttini, tipo omaggio delle patatine. Lo stesso li misi. Se lui aveva fatto lo
sforzo di regalarmeli, io avrei fatto lo sforzo di indossarli. Fu il primo dei
due uomini che mai mi accompagnò alla carrozza di un treno, e lo ricordo per
quella premura squisita, quasi d’antan.
Ci salutammo con un misto di imbarazzo e speranza. Non potevamo sapere che non
ci saremmo visti più.
Salii sul treno che si mosse,
prima piano e poi sempre più forte, e mi portò via. Di lì inizio un’attesa che
solo un mio stupido libro del liceo avrebbe potuto definire come un enchantement. Per me fu straziante e
basta, e non oso pensare come abbia potuto viverla mia madre, che mi aveva
spinta oltre ogni limite e ora rischiava di farmi vivere la più cocente
delusione della mia vita. Gli orali a Milano – alla Civica l’esame si strutturava
in orale e scritto – funsero da gradevole diversivo, perché feci un figurone… for a change! In francese sbalordii
addirittura la commissione perché conoscevo tutte le opere della Duras, della Yourcenar
e della Marie Cardinal…. E allora la Marie Cardinal non era popolare per niente.
Non fui pertanto realmente stupita
quando, alla fine, lì venni ammessa. La Claudina saltò dalla gioia ma io non mi
mossi né fiatai: ero sospesa tra Milano e Trieste, e soffrivo. Non partii.
Aspettai. Conveniva così. Poi, se proprio Trieste mi avesse dato il picche, mi
sarei iscritta alla Civica, pace e amen.
Ed era già ottobre.
Ebbero inizio le lezioni a
Milano, e si sparse la voce che io non potevo frequentare – poverina! - perché
mia mamma stava male. Nascono così le leggende metropolitane, suppongo.
In realtà Patton stava male
davvero. Per me. Che languivo nell’attesa. Telefonavo a Trieste ogni giorno
ormai, chiedendo dei risultati. Solo che non erano mai pronti.
Telefonai anche quel giorno,
chiudendomi in camera, perché nessuno sentisse. Non potevo nemmeno immaginare
che cosa avrei fatto o detto se fossi stata respinta. Composi il numero, allora
c’era ancora la rotella e le mie dita compirono rapidi giri circolari, perché conoscevano
le cifre a memoria.
040…
Ci furono tre squilli, poi s’udì
la voce della segretaria, quella povera crista cui da giorni toccava l’ingrato
compito di temporeggiare con orde di ansiosi ragazzotti di belle speranze.
<<Pronto?>>
<<Pronto.>> Tono
secco, sfinito.
<<Mi chiamo Maria Gaetana
Ferrari. Chiedevo se…>>
<<Sì>> rispose la
segretaria, recisa.
<<Sì, che cosa?>> domandai
io, con le orecchie ritte come quelle del mio storico cane Bamba.
<<Sì, sono usciti i
risultati>> ribadì l’infelice, che ormai conosceva il mio nome, cognome,
segno zodiacale e infinita apprensione.
<<E posso sapere
se…?>>
<<Sì.>>
<<Sì, che cosa?>> tornai
a chiedere mentre il mio cuore da triangolare diventava cilindrico come un
salamino cacciatore.
<<Sì, è stata
ammessa.>>
Il sangue mi defluì dal viso, si
concentrò nei piedi, che notoriamente sono lunghi, e vi restò per qualche
istante fino a riprendere la via del cuore e del cervello. Fu come morire.
<<Ha detto che sono stata
ammessa?>> annaspai.
<<Proprio così.>>
<<Oh, grazie. Grazie,
grazie!>>
E lei, asciutta: <<Aspetti
a ringraziarmi>>.
Ma io non colsi l’ironia. Al
contrario mi venne in mente un’altra cosa.
<<Sono passata per francese,
giusto?>> Francese era la mia prima lingua. La studiavo dalle medie,
eccellendo da sempre.
<<No, per inglese.>>
Questa poi! Mi sembrava inaudito.
<<Per inglese?>>
La segretaria sospirò.
<<Sì>> confermò. <<E’ passata per inglese, non per
francese.>>
Avrei voluto fare tante altre
domande ma il tono, già poco propizio, era diventato decisamente ostile.
Salutai e riappesi, poi corsi in cucina dalla mamma e diedi la notizia. Passai
il resto della giornata cantando, e alla fine Patton mi ordinò di piantarla,
perché a tutto c’era un limite, anche alla felicità.
Non sapendo come altro sfogarmi, telefonai
ad Angela. Ero giovane e stupida, non mi sfiorò nemmeno che io fossi dentro e
lei fuori. La trovavo tanto più brava di me. <<Angela, Angela!>> gridai.
<<Ho passato! Tu?>>
Lei disse: <<Io no>>.
Seguì un lungo silenzio durante
il quale mi passò davanti il film del suo viso paffuto, delle sue ciglia
perfettamente depilate, del suo sorriso schietto.
<<Io…>> Tacqui. Avevo
capito di essere stata involontariamente crudele.
La telefonata si chiuse con pochi
convenevoli, non c’era più niente da aggiungere.
Nemmeno Angela rividi più.
Ma pensai a lei quando, di nuovo
a Trieste, abbandonai l’odiata Casa della Fanciulla per la ben più congeniale
Casa… del Marinaio! Era stata Angela a segnalarmela, visto che aveva sempre
alloggiato lì. Mia madre non la prese bene (per non dire altro), e ci fu una
piccola bagarre che mi vide peraltro
vittoriosa. Dopo tre uggiosi soggiorni dalle suore, con rientro tassativo alle
ventidue, ero agguerritissima. La Casa del Marinaio aveva un nome turpe e
improbabile, certo. Tuttavia, la divisione femminile, completa di sei letti
metallici verniciati di bianco, era recente e soprattutto linda. Vi trascorsi (pochi)
giorni spensierati senza mai imbattermi in Popeye né tanto meno in Querelle e,
mentre spulciavo gli annunci del Piccolo, cercando affannosamente casa, ricominciai
a fumare (avevo smesso per due minuti quell’estate). A volte dialogavo col
direttore dell’istituto che, come Luc Merenda, aveva la scriminatura laterale e
un viso da bracco italiano, buono e lungo. Altre volte girovagavo per
l’elegante quartiere, così bianco e vicino al mare, familiarizzando con alberi
e cespugli.
Più o meno in quel periodo mi chiamò
la milanese Silvia Steiner. Ci eravamo conosciute all’ammissione, in panico
totale, e ci eravamo scambiate i numeri di telefono. Lei era passata, mi disse.
Ed io? <<Non so come, ma ce l’ho fatta>> risposi francamente. E mi
propose di dividere una camera in via della Tesa, il mio primo appartamento
triestino. Alla Casa del Marinaio stavo bene ma mancava la cucina, e il mio
stomaco, provato da metri quadrati di focaccia alle olive e altre cene
altrettanto approssimative, mi esortò a traslocare.
Io e Silvia non avevamo nulla in
comune salvo la serietà… e gli occhiali, perché allora li portavo al posto
delle lenti a contatto. Ma ci trovammo sostanzialmente bene insieme e se -
passato il primo anno - lasciai via della Tesa per via Hermet, certo non fu per
l’ottima Silvia, che del resto lasciò la Scuola senza diplomarsi.
Il primo anno... beh, quello lo
ricordo come un susseguirsi di critiche, quasi sempre fondate, e sgridate
spesso gratuite. Per la Politi, avevo lo stesso accento di una lavandaia
nizzarda. Anzi, no, peggio. Marsigliese! La erre, in particolare, non andava.
Dovevo mettermi un righello in bocca, consigliò perentoria. Ecco che cosa
dovevo fare. E con detto righello pronunciare le varie frasi fino a produrre un
francese accettabilmente parigino. Adesso, il righello, saprei io dove
ficcarglielo, alla Politi. All’epoca, lo ficcai in bocca a me stessa e mi
esercitai fino allo sfinimento. Potevo aver letto in lingua i grandi e i
piccini della letteratura ma il mio francese rimaneva tutt’al più passabile. Madame mi trovava “indietro”. D’accordo,
all’ammissione, avevo fatto discretamente, commentò una volta in classe, nel
pieno rispetto della mia privacy di studentessa. Ma non avevo il livello di una
prima lingua, no?
Le lavandaie raramente ce
l’hanno.
Rivolsi tutta la mia gratitudine
all’inglese che mi aveva fatto ammettere e, sebbene circondata da madrelingua e
mostri di bravura, mi applicai con passione mista a tenacia. C’era chi parlava
con l’accento della regina e chi la regina la conosceva addirittura e ci
prendeva anche il tè (col latte scremato e lo zucchero di canna). Io a
confronto non vantavo genitori stranieri o natali extraeuropei o balie
darwiniane o interscambi in Patagonia o proverbiali zii d’America. Avevo sempre
e solo studiato ma – per tutti i diavoli della Caienna! – mi sarei fatta
valere.
In realtà, ogni aspirazione di
rivalsa dovette aspettare mentre mi accontentavo di… sopravvivere. La frequenza
obbligatoria di quarantotto ore era massacrante. E tenere tre lingue (perché portai
tedesco fino al diploma) non si rivelò esattamente una passeggiata. Una volta a
casa, poi, c’erano gli esercizi e le versioni da affrontare, gli appunti da
studiare, per non parlare della grammatica che richiedeva un’applicazione coi
fiocchi o delle lettere d’inglese commerciale che l’Argenton distribuiva come
pioggia. Chiudevano la carrellata aspetti quotidiani ma pressanti come la
spesa, le bollette, la telefonata a casa, le lettere agli amici, il letto
(provvido).
A primavera inoltrata, poco prima
che tentassi tutti gli esami a giugno, entrai in rotta con Via della Tesa. Mi
ero stancata di dividere la stanza, esperienza logorante anche quando si va
d’accordo. Mi ero stancata altresì delle abitudini delle inquiline più adulte.
Mi mandava in bestia il lucchetto intorno alla rotella del telefono. E
detestavo l’accappatoio lurido che spesso pendeva dall’unico gancio del
minuscolo bagno. Volevo cambiare casa e il la, me lo fornì Daniela Pazzelli. L’avevo
incontrata una sera in birreria, quando lei stava ancora col talentuoso Marco
Savella, e ne rimasi incantata. Non solo era carina e vestiva alla moda (quella
sera portava un camicione di jeans sbiadito con i legging, novità assoluta) ma
aveva una lingua che tagliava e cuciva, senza soluzione di continuità. Ti
faceva sbellicare dalle risate… se non prendeva di mira te. E anche allora,
dovevi ridere, perché era arguta, intelligente, nevrotica, affascinante,
adorabilmente pazza. Le volli bene come a una sorella ma non era tipo da
affetti durevoli, e la nostra amicizia,
che peraltro non rinnego perché mi trasmise molto, anche in positivo, fu più
effimera di una rosa canina in pieno sole.
Avevo conosciuto frattanto un
ragazzo triestino, Luciano. Era proprietario di una piccola discoteca, il New
Jazz New Wave. Ci andavo il sabato con le amiche. Non con la Silvia, che era
morigeratissima, bensì con Alessandra Chiesa, che il primo anno (dopo lasciò)
era diventata la mia best friend.
Bionda e ricciuta, originalissima nel vestire come l’amica più senior Laura
Varaldo, veniva da Bra, e possedeva (cosa inaudita tra noi studenti) una
graziosissima mansarda nei pressi di via Giulia. Il soffitto con le travi e il
cucinino di legno erano un vero amore. Furono Laura e Alessandra a presentarmi
i ragazzi di Navalgenarmi. E furono sempre loro a portarmi al New Jazz, New
Wave, dove conobbi per l’appunto Luciano.
Di cui non ero tecnicamente
innamorata, perché l’amore è grande e diverso, ti fa ridere quando dovresti
piangere e il contrario, è un margarita con molto sale mentre Luciano poteva
tutt’al più equipararsi a un mojito senza troppa menta. Ma mi piaceva, era
“grande” ed educato, mi apriva la portiera quando scendevo dalla macchina e mi
accendeva la sigaretta se fumavo e mi versava da bere se andavamo fuori a cena.
Trovavo esaltante quel suo savoir faire.
Ed esaltante il fatto che mi trovasse non solo alta il giusto (quindi non
troppo) ma assolutamente bellissima! Altro che Furia! Tra l’altro, era
rispettosissimo. Mai una mano fuori posto o pressioni inopportune. Per lui ero
sacra e sacra dovevo rimanere.
Erano gli anni di Tainted Love, che trovo tuttora una
bella canzone. Ce n’era
un’altra, che diceva: I don’t think I can
love anyone but you, dear. That’s for
sure. Era un verso che, piacendomi moltissimo, avevo trascritto su
un muro di via Hermet. Piena di versi era quella stanza. Piena di versi ero io.
Per forza, avevo diciannove anni, niente poteva spezzarmi. Ero padrona di
tutto, e per fortuna non lo sapevo.
Luciano frequentava la Trieste
bene, un giro di brillanti e gaudenti imprenditori, commercianti e
professionisti che si godeva generalmente la vita. Il gruppo gravitava intorno all’abitazione
del carismatico Matteo che, pur essendo piuttosto in là con gli anni (anche
allora), continuava a essere un uomo bellissimo e accattivante. Aveva occhi
come la tormalina e capelli diritti e grigi, foltissimi. D’inverno lavorava a
Cortina, dove gestiva un club alla moda, molto frequentato dal jet set. Negli
altri mesi, di ritorno a Trieste, teneva una piccola corte privata che si
riuniva nella sua abitazione di via Bonaparte. Perlomeno credo che la strada si
chiamasse così. Era lunga e stretta, un po’ tortuosa, con alberi che
sommariamente la ombreggiavano e un’aria quasi campestre. Mi piaceva quella stradina
quando la imboccavo col Ciao. Sentivo l’aria schiaffeggiarmi la faccia, e aveva
un odore verde che, se voglio, risento nelle nari e nel cuore.
Come Matteo, anche la casa aveva
carattere. La si raggiungeva mediante una corta scaletta di pietra, con difformi
edere variegate e rampicanti tutt’intorno. Un piccolo cancello di ferro battuto
portava nel giardino, che era minuscolo ma ricolmo di vegetazione. Sulla sinistra
si scorgeva un tavolo rotondo con quattro sedie spaiate. Sulla destra
rimanevano il dondolo su cui una sera avrei visto, senza saperlo, la Cinzia,
quella che sarebbe poi diventata la moglie del mio Valter, e la cuccia del cane
Dago o Drago (lo chiamavo in tutti e due i modi e lui veniva lo stesso, per cui
a tutt’oggi non so bene quale fosse il suo nome esatto). Era uno splendido
lupo, vecchio come il suo proprietario e altrettanto fascinoso.
Un portoncino invetriato a doppio
battente incorniciava il corridoio che faceva anche da ingresso. Subito dopo si
apriva la cucina, molto moderna per allora, perché era a vista e collegata alla
sala da pranzo, in stile country rivisitato. Gli arredi erano casualmente
raffinati, di gusto estremo.
Il soggiorno quadrato aveva un’enorme
pala di coloniale memoria fissata al soffitto e tanti altri oggetti postmoderni
che non avrebbero sfigurato in una casa di Newport. Il bagno e la camera non so
com’erano perché non ebbi bisogno di
andare.
Di solito Luciano mi teneva per
sé, anche abbastanza gelosamente, ma una sera
pensò bene (o male, non so) di portarmi a questa cena da Matteo. Non rammento
che cosa indossassi per l’occasione ma sicuramente avevo la borsa a tracolla
marron cioccolato, quella uguale a mia sorella. Quando entrai nella cucina e la
trovai piena di gente – calcolate una ventina di persone tra uomini e donne, e
tutti che mi guardavano con occhi come uova al tegamino – mi sentii morire e
dissimulai come potei il disagio che sentivo. C’erano due posti vuoti
sull’altro lato del tavolo, così io e Luciano facemmo il giro. Nella fretta di
sedermi e porre fine all’esame-finestra, posai la borsa di schianto e
naturalmente ruppi subito un bicchiere. Ruppi anche il ghiaccio perché tutti
risero, mentre io continuavo a morire.
Però vissi e mi ambientai in
fretta perché mi ero miracolosamente seduta vicino alla Pazzelli, che conoscevo
dalla serata in birreria. Questa, esilarata dal mio ingresso trionfale con
tanto di cocci, si affrettò a presentarmi la vicina Lella Dario che allora veniva
chiamata “la cinese”. In realtà la Michela proveniva da Vicenza ma aveva un
aspetto veramente orientale, con quegli occhi a mandorla, quell’incarnato
chiarissimo e quel sorriso misteriosamente perfetto. Al cinema davano “L’anno
del Dragone”, e lei rassomigliava alla (bellissima) ed esotica interprete, da
cui il nomignolo. La Lella abitava con la Daniela Pazzelli in via Hermet,
quella che sarebbe diventata poi la mia seconda casa triestina. Alla serata era
presente anche la terza coinquilina, la bolognese Passerella, una bella bionda
cordiale che faceva interpretazione come la Pazzelli. Lella invece frequentava
traduzione. Fu in quell’occasione che venni a sapere di come si fosse liberata
una camera singola in via Hermet. Una moretta di Venezia, di cui non ricordo il
cognome, anche se aveva un bel suono, si stava preparando a rientrare, e
cercava qualcuno che le subentrasse.
Provata dall’incolore via della
Tesa e lusingata dal fatto che Pazzelli, così di mondo (quanto meno, a me
sembrava), mi trovasse idonea alla coabitazione, decisi di fare il tuffo, e nel
giro di breve mi trasferii.
Ebbrezza. Ecco che cosa ricordo
di quel periodo. Il taxi con le valigie a bordo, il lungomare verso Campo
Marzio, con la marina e le sartie che tintinnavano al vento, l’ingresso nella
casa… e che casa! Tanto per incominciare, era vasta e quasi signorile, con un
largo corridoio che il parquet vetusto nobilitava pur mancando di cera. Il
salone rimaneva sconfinato malgrado il fatto che una serie di stuoie ne
chiudesse l’arco centrale, creando un vano che era poi la camera da letto di
Pazzelli. Di fronte, si apriva una stanzina singola, con due porte, una delle
quali contigua al bagno. Sembrava un locale di transito, forse la camera della
domestica o la lavanderia, quella che di lì a poco sarebbe assurta a mio regno
privato. Poco oltre c’era il bagno padronale, più funzionale che bello ma
comunque spazioso e pulito, con la vasca subito entrando. La cucina era rettangolare
e ben attrezzata, con una terrazza asfaltata di almeno quaranta metri. La vista
era alquanto deprimente, un po’ come accade in certi grandi condomini di Torino, dove abito e
lavoro ora. Balconi in rivolta e bucati impietosi di sventolanti mutande e
pancerine si paravano allo sguardo, e da un lato una sparuta vite americana
saliva dal basso, più in sotto di noi che eravamo al primo piano, fino al
quarto o quinto balcone, trovando forza in non so bene che cosa, certo non nel
panorama. A specchio, davanti alla cucina, si delineavano il bagnetto di
servizio, con giusto il wc, che trovavo molto francese nel suo isolamento e
perciò desolante, e una grande dispensa con tanto di porta su misura, con più
ripiani ricoperti di cerata a quadretti. Era bellissima, quella cavernosa dispensa,
ricolma di cibo e promesse e colini e barattoli e spezie. Appresi tempo dopo
che nella latta “Vavavuuma” si nascondeva una piccolissima quantità di maria
che, per fortuna mi fu segnalata per tempo, altrimenti l’avrei scambiata per
origano, tant’ero disinteressata, e ne avrei cosparso il sugo per la pasta. Chi
fuma sigarette non è molto interessato all’altro fumo. Gli basta il proprio,
formato monopolio. Tornando a bomba, comunque, la camera a due letti che Lella
divideva con Passerella si apriva subito dopo la pittoresca dispensa, e vantava
un comodo balcone che si affacciava sugli alberi.
Tra tanti locali, il mio due
metri e mezzo per cinque era senz’altro il più umile. Eppure, raramente ho
amato una cameretta più di quella. Diedi il tormento a mamma finché non mi
confezionò un copriletto candido con tanto di balza. Da parte mia rivestii di
carta continua che la mamma di Passerella ci faceva riciclare le assi della
libreria che la precedente occupante aveva dipinto di arancione, colore che
detesto più delle improvvisate e un po’ meno delle bugie. Laccai di bianco la
scrivania e ne ricoprii il piano – anch’esso arancio – di spessa cerata bianca.
Adesso rabbrividisco al pensiero ma il risultato non era niente male. Ridipinsi
l’infisso grigiastro della finestra lunga e stretta, poi cambiai le tende.
Anzi, le misi, a ben pensarci. Anche qui tiranneggiai Patton, che mi cucì un
rettangolo di organza, con tanti occhielli da fissare alla cornice con chiodi a
elle, un’idea che avevamo copiato da Grazia,
la storica rivista di famiglia, quella su cui scriveva Donna Letizia, finché
scrisse. Adesso il nuovo Grazia
ripropone il botta e risposta della Colette Rosselli, perché tutto ritorna, e
non c’è vecchio che dopo un po’ non riappaia nuovo. Comunque, riempii il davanzale
di bulbose e annuali perennemente assetate. In particolare abbondai di azalee
rosa e variegate che compravo ogni tanto in piazza Goldoni, tra un bus e
l’altro. Per finire attaccai alle pareti gruppi di foto del mio passato e del
mio presente, scribacchiando versi inconsulti e per l’appunto quella strofa di
canzone che avevo sentito al New Jazz New Wave.
Non che Luciano fosse più così in
auge. Tanto mi era piaciuto da solo, tanto mi era scaduto in compagnia. Me
l’aveva presentato lui, Matteo. Eppure, di colpo non voleva più che
frequentassi casa sua. Solo che ci andavano le mie mondane coinquiline, di cui
subivo moltissimo l’influenza, specie ora che Landa si era fidanzata con Enrico
Colombo e aveva giocoforza meno tempo per le amiche. Per cui ci andavo anch’io,
in via Bonaparte. Era il glorioso 1985, l’anno di “Quelli della notte”, con Renzo
Arbore, Andy Luotto e il buon Ferrini coi suoi silos. Figurarsi, neanche a
parlarne, di perderne una puntata in compagnia, nell’accogliente salotto di
Matteo, con le pale che pigramente muovevano l’aria, anche se non faceva caldo.
Ci trovavamo anche in quindici, venti persone, e ognuno si sedeva dove
capitava, di solito per terra, tra peli di cane e fiori appassiti portati
dentro dal giardino, ed era divertentissimo ascoltare gli aforismi di Catalano
o le corbellerie in romanesco della Marchini o gli strafalcioni di Frassica.
Giusto la Laurito, con quella erre moscia del cavolo, mi dava un tantino ai
nervi, e poi pazienza, digerivo anche quella. Anche perché alla fine c’era la
sigla, col materasso e tutto. Insomma, ci si divertiva un casino e con poco.
Luciano mi aveva dato l’aut aut.
Ma out era rimasto lui. Io avevo
scelto via Hermet e gli altri. Del resto, si sa che una cassata con la ciliegia
candita attira più di un asciutto Oro Saiwa ancora avvolto nel cellophane. Ero
bionda, fresca, ingenua, praticamente tonta. Tutto era nuovo e meraviglioso, e
il fatto che stesse incominciando l’estate rendeva il momento ancor più
spettacolare. Le notti stordivano, tanto odoravano di tiglio, sogni e desideri,
e non c’era niente che potesse andare storto… no?
Malgrado la differenza di età, in
molti mi avrebbero vista con lo stesso Matteo, appresi in seguito. Mentre io
avevo messo gli occhi su un ragazzo moro e per me carino che portava occhiali
bordati di scuro. Era più schivo degli altri, anche più serio, credevo, e si
chiamava Piero, proprio come il mio angelo dell’edera. Non era molto alto, anzi,
se adesso ci penso, era un vero tappo, ma mi ero convinta che l’intelligenza,
peraltro solo intuita, compensasse abbondantemente. Era stato per anni capitano
dei Carabinieri, il che avrebbe dovuto farmi riflettere, solo che non lo fece.
Pensando che fosse destino, mi presi una cotta bestiale.
Mi veniva a prendere in Ferrari, la
più scomoda delle vetture per una giraffa com’ero io. Dovevo ripiegarmi in
quattro per entrare e comprimermi sul sedile di pelle chiara, quasi umana, e
anche quello avrebbe dovuto farmi riflettere. Se Piero correva e ci fermava la
polizia, una scorsa alla sua patente bastava a chiudere l’incidente con una
profusione di scuse e sorrisi insinceri. Non prendemmo mai una multa, lui era
speciale. In realtà, aveva solo un cognome importante, e se ne approfittava.
Una volta mi disse, ricalcando il
logo della società di famiglia, che “assicurava di pensare a me.”
Neanche a farlo apposta, la nostra
relazione terminò all’indomani di quella spiritosaggine. Era durata quattordici
giorni esatti. Piero mi lasciò senza una spiegazione per mettersi ipso facto con
una trentenne dall’aria vissuta che viveva a San Giusto e aveva le unghie
laccate di rosso.
A tutt’oggi le unghie laccate di
rosso mi danno i brividi.
Fui devastata. Piansi e mi
disperai, poi mi tuffai nello studio, che mi aveva sempre curata dal male. Mi curò
anche quella volta. Persi tre chili, superai tutti e quindici gli esami del
primo anno a giugno, e passai il resto dell’estate a piangere per un amore in
cui avevo creduto io soltanto. Lella mi fu di grandissimo aiuto, e anche le
altre ragazze si fecero in quattro per consolarmi. Caterina Visani, che
frequentava via Hermet e faceva traduzione come la Lella, era anche lei reduce
da una delusione sentimentale, e automaticamente ci alleammo. Ricordo ancora
una domenica a Quarto d’Altino. Caterina, che era originaria di Forlì, mi stava
dando un passaggio fino a Bologna. La sua Uno restò in panne in quel luogo
triste - sfiga totale - e ci bloccammo sotto un cavalcavia assolato. Era
luglio, faceva un caldo d’inferno e, mentre aspettavamo il carro attrezzi, mettemmo
su una cassetta degli U2 e cantammo tra riso, pianto e sudore “Sunday Bloody
Sunday”. Fu veramente una bloody Sunday.
L’estate scorse pigra. Col fatto
che avevo già dato tutti gli esami, ero libera come l’aria. Mi sarei dovuta
dare alla pazza gioia, magari sugli scogli di Barcola, dove gli altri
prendevano il sole. Invece languivo, annoiata e disillusa da tutto, spezzata
nel cuore e nell’orgoglio. Lì per lì smisi nuovamente di fumare. Ma ero troppo
stressata e ricominciai. Tuttavia, anelavo un cambiamento, così decisi di
ritornare mora. Entrai nel primo supermercato e comprai una di quelle tinte
casarecce che nascondevano i capelli bianchi e – speravo – quant’altro. Mi
chiusi in bagno, per una volta non monopolizzato dalla Lella, e miscelai acqua
ossigenata e colore. Un tanfo bestiale mi assalì ma nemmeno allora desistetti. Volevo
essere diversa e da qualche parte dovevo pur incominciare. Castana castana
proprio non diventai. Piuttosto nera con qualche sfumatura verdastra, come
dicevo. Però ero scura. Mi parve naturalissimo ma gli altri impiegarono
parecchio ad abituarsi. Mia madre, per esempio, insiste col dire che anche ora,
nelle rare occasioni in cui passa a prendermi in stazione, continua a cercare
una testa bionda e ricciuta. Poi arrivo io, mora e liscia di piega e, sul
momento - ogni volta - rimane spiazzata.
Il castano non segnò la fine di
una Ghiga più romantica, perché quella continuò a esistere (solo si fece più
furba). Fu comunque una rinascita. O per meglio dire una riconferma di chi ero
e di che cosa volevo veramente. Studiare, imparare, laurearmi. Basta con le
distrazioni.
Tornai dal vero Piero, tra quel
verde, quelle edere, dove tutto era pace.
Iniziò il secondo anno, venne
l’autunno. Frequentavo ancora casa di Matteo ma senza la stessa frequenza. Certe
sere andavo con le altre al Mandracchio, la discoteca del momento. Ero corteggiata
e ogni tanto flirtavo ma con scarso impegno. Rimanevo distrutta e non avevo
particolare voglia di divertirmi. Ma dovevo salvare la faccia, specie quando
incontravo il falso Piero con Unghie-Laccate-di-Rosso. Per cui mi facevo
vedere, vestivo con ricercatezza e ridevo quando volevo gridare e pestare i
piedi e piangere e basta. Erano serate sterili, senza piacere. Nemmeno il fatto
che l’Andrea, il bellissimo farmacista di Ponte Rosso mi avesse finalmente
notata, riusciva a scuotermi dal torpore in cui ero caduta.
Mi sentivo un relitto. Avevo
vent’anni.
Una sera di ottobre indossai un abitino
di maglia nera con le calze di pizzo e i camperos che avevo comprato col babbo
da Dugoni in via Canalchiaro. Come look, suona atroce, lo ammetto. Ma andava di
moda così. Avevo grandi anelle dorate alle orecchie, e tenevo i capelli
sciolti, vaporosi. Una negra bianca. Così mi chiamavano a Trieste. Per i capelli
crespi. E per il fatto che ero molto alta, con un corpo sportivo, nervoso. Come
paragone, non mi piaceva gran che. Mi faceva venire in mente un film
tristissimo con Lana Turner in cui la figlia della governante nera era nata
bianca, e si vergognava delle origini materne, salvo poi piangere come un
capretto al funerale della madre. Comunque, io continuavo a vedermi più simile
alla Scopa Pippo che forse all’epoca manco esisteva. Resta il fatto che in
quella città io piacevo, sensazione mai provata a Modena.
Conobbi Valter in un ristorante,
durante una cena di gruppo. Era biondo, alto, elegante, usava il congiuntivo e
persino il passato remoto. Era più triestino del Molo Audace, più limpido del
mare che sfiora Krk, più bello del sole riflesso nelle vetrine del Caffè degli
Specchi, e me ne innamorai.
Se si può passare dalla
disperazione alla felicità?
Si può.
A me accadde quella sera.
Quando lo vidi, restai come fulminata.
La jota perse sapore. Lo stinco di vitello diventò granito. La palacinka si
spogliò di ogni fascino malgrado il cioccolato fuso che la ricopriva. Di colpo
sul mio personale menu c’era soltanto Valter Volpe, che non mi piacque gradatamente.
Mi piacque e basta. Il cuore si posizionò in gola e li restò finché lui non mi
chiese il numero di telefono.
Mi chiamò l’indomani nel primo
pomeriggio, quando ormai la povera Lella non sapeva più che cosa fare per
tenermi calma, salvo forse percuotermi con lo spazzolone da pavimenti, e la
vita – di colpo – ricominciò. Un po’ come quando la polvere di caffè, se
macinata troppo sottile, ottura il filtro della moka casalinga e non esce niente,
e nell’aria si sprigiona quell’odore cotto, così reminiscente della gomma
arancio ruggine della guarnizione, e poi – come per miracolo - tutto si
sblocca, ed ecco sgorgare il caffè nero e buono e fumante di schiuma e tu lo
bevi, finalmente felice.
Fu un caffè piuttosto lungo,
perché durò tre anni, con l’epilogo già noto.
Anche a lui piaceva tutto di me…
tranne la medaglietta di smalto beige, molto vintage, che portavo al polso
sinistro. Era infilata in una sottilissima catenina d’argento che, quando ero
indisposta (per usare una definizione della mamma), mi macchiava la pelle di un
verde nerastro. L’avevo comprata l’anno prima al mercato antiquario di Modena. Sopra
recava un teschio con una corona di ossicina e la frase “Oltre la morte”. Per
alcuni era il motto di un valoroso aviatore della Prima Guerra Mondiale, il
principe Fulco Ruffo di Calabria, per altri apparteneva al corpo dei Sabotatori
Paracadutisti. La frase mi piaceva, evocava un coraggio di cui sentivo di avere
bisogno, e non gli scenari politici o gli schieramenti a cui è stata associata
negli anni.
Mi dava forza, pensavo. Ma me ne
dava tanta anche Valter che desideravo compiacere, così alla fine accettai di
togliermi la medaglietta e di gettarla in mare. Era una gelida sera di inverno,
la bora faceva scempio del mio cappotto che si sollevava frenetico, come una
tenda impazzita, e ad oggi rimpiango di non aver scelto un periodo più mite e benevolo
per salutare quello che era stato, alla fin fine, un gran bravo teschio.
Non fu che il primo di molti
cambiamenti. Valter aveva undici anni più di me e una visione adulta nonché
maschile del mondo, quindi concreta. Il suo influsso non fu mai diretto, perché
era troppo intelligente per intromettersi nelle mie scelte. Fu la vicinanza in
sé a condizionarmi. Il confronto della sua vita con la mia. Di colpo, Matteo e
la sua casa non m’invogliarono più, e persino via Hermet, così chiassosa e frivola,
mi venne a noia. Avevo voglia di rigore e solidità, e con Valter le ritrovai.
La convivenza con le altre ragazze diventò automaticamente pesante. Come spesso
accade, la presenza di un fidanzato risultò destabilizzante, anche perché io non
ero più così modaiola. Lentamente avevo cambiato gusti e abitudini,
sottraendomi alle dinamiche della casa. Non andavo più al Mandracchio e mi
facevo vedere pochissimo persino al Portiza per l’aperitivo delle diciannove.
Disertavo le cene da Suban o all’Elefante Bianco e, se c’era da uscire,
sceglievo Valter e non una delle mie coinquiline o il vecchio gruppo della
Tergeste bene.
A poco l’armonia si tramutò in
dissenso, e i litigi per le cause più banali si ripeterono con cadenza
quotidiana. Non ero una brava casalinga e di colpo venni messa in croce per
questo. A sentire Pazzelli, non pulivo mai i fornelli quand’era il mio turno e
poi il mio cane francamente rompeva. Freddo (detto Bamba o Amore-della-Mamma,
come capitava) era un cucciolo di husky, un vero peperino dal punto di vista del
carattere. Me lo aveva regalato Valter per il compleanno, realizzando tutti i
miei sogni di felicità e amicizia canina. Bamba adorava masticare gli angoli
del mio tappeto di lana cotta e se, cadeva un costume da bagno, magari firmato,
dall’attaccapanni a muro, lui era lesto a triturarlo. Spesso si mangiava
qualche pagina di libro, magari contenente un passo cruciale (era un cane molto
selettivo) e invariabilmente gli scappava la pipì (o peggio) nei luoghi meno
indicati. Per esempio, una volta, lo portai alla Scuola e lui irrorò con
prodigalità l’intera soglia dell’Aula Magna. Un’altra volta si fece venire una
dissenteria pazzesca in Piazza Goldoni, nell’atrio di un esclusivo negozio di
borse, la cui titolare fu così buona da non strangolarmi con la prima tracolla
che le capitò a tiro. In via Hermet Bamba
imperava e spadroneggiava, forte della sua bellezza soffice, dei suoi occhi
color del destino e di quelle zampe infantili che sotto erano ancora rosa confetto.
Col senno di poi, capisco che non a tutti fossero gradite le sue effusioni. Per
non parlare dei suoi olezzanti bisognini. To
cut a long story short, caddi di colpo in minoranza. Anche Lella, cui mi
legava un affetto sincero, quasi fraterno, seguì l’umore generale e alimentò
suo malgrado chiacchiere gratuite, per cui alla fine mi ritrovai sola e
impopolare.
In tutto questo Valter, facilmente
dominante in tanto malcontento, passò all’azione. Via Hermet non gli era mai piaciuta
e in particolare temeva l’influenza di Pazzelli, che non lo convinceva. Mi
trovò una casa bellissima in via Parenzan, con tanto di giardinetto per Bamba,
e alla Scuola io conobbi Christine, che sarebbe diventata poi la mia ultima
convivente donna. Sua mamma era inglese ma il babbo era pugliese, di Lucera,
così che Christine parlava un ottimo inglese e un italiano dall’accento
curioso. Era curioso anche quello della madre che una volta venne a Trieste,
ospite nostra, e annunciò di averci preparato il “gatto di patate”. Mi
spaventai terribilmente prima di capire che gatto era “gateau” e che in quanto
tale forse era anche commestibile.
L’affitto era ragionevole, e
Christine sembrava un tipo pratico, cosa che mi rassicurò. Il tempo di trovare
una sostituta per via Hermet, che molti chiamavano via Vermet per via della
bonomia che vi regnava (ma questo l’ho appreso solo di recente, parlando con Landa),
e via che mi congedai. Ancora una volta era finita un’era, e per fortuna che
non ho mai avuto problemi a ricominciare da zero, altrimenti sarei fritta a
quest’ora.
Tentai a giugno anche tutti gli
esami del secondo anno ma sbagliai mira con tre di essi. Crevatin, che mi aveva
convocata in aula d’esame con un campanaccio tirolese, al grido di “Venite,
belle muccarelle, venite”, mi chiese il sistema fonematico dello swahili, il
che spiega la mia conseguente e quasi immediata cacciata senza scampanio
alcuno. Avevo studiato ogni aspetto della linguistica ma certo non lo swahili,
per cui c’era ben poco da fare. Di Predonzani ho già parlato profusamente, e
non intendo ritornarci sopra. Passai per il rotto della cuffia l’esame della
Diana. Ventuno era un voto che mi faceva schifo ma avevo troppa paura di
perdere l’anno per fare la snob, così lo presi e portai a casa. Ben che feci,
perché subito dopo cannai la traduzione della Coales, e per poco non mi venne
un colpo (anche se quello accadde in epoca ben successiva, e certo non per lo
shock).
La mia sicumera, già duramente
provata, si assottigliò come una fetta di mortadella tagliata da un salumiere
avaro. Ristudiai la noiosissima Linguistica Applicata, di cui continuo a
domandarmi l’utilità. Affrontai programmi passati e presenti di Lingua Italiana.
E per non farmi mancare nulla, passai l’estate a tradurre verso l’inglese di
tutto, dalle ricette istriane ai bugiardini delle medicine, dalle poesie di
Jimenez (chissà perché) agli articoli di giornale. Ma alla sessione autunnale
passai Crevatin e Predonzani mentre mi eluse nuovamente la Coales. Mi sarei
sparata! E certo non saltò di gioia la mia compagnia di sventura, Lorenza
Destro, come me condannata a febbraio.
Distrussi lo Swan a furia di
consultarlo. E tanto sfogliai l’Oxford da piegarne la copertina a righe, pur
rigida. Nello Zanichelli feci addirittura solchi (o erano trincee?), ed ero
arrivata a sognare in inglese tanto vivevo per esso. Un esame soltanto mi
mancava. Ma cannato quello, cannato tutto, e non potevo.
Valter disse che avrei passato.
Ma gli uomini dicono tante cose, molte delle quali non significano niente, e
lui non faceva eccezione.
Nondimeno, a febbraio, tutto
l’empireo di cui avevo invocato l’aiuto entrò con me in aula d’esame, e superai
la prova. Presi ventiquattro. Quando vidi il mio nome in bacheca, seguito dal
voto, provai un’emozione profonda. Mai esame fu così importante per me. Mai
risultato contò altrettanto.
Com’era di rigore, andai a farmi
mostrare le correzioni. Lorenza, che aveva pure passato, era presente. Non
ricordo se entrò con me o dopo di me. Senz’altro conosceva l’episodio, perché
me ne ha parlato di recente. Per farla breve, la Coales mi rivolse quel suo
sorriso da caimano che poteva durare anche un minuto intero, se voleva (e un
minuto è lungo), mentre sollevava dalla cattedra il testo d’esame corretto e me
lo sventolava sotto il naso. Avevo sbagliato un tempo verbale e due aggettivi
non erano abbastanza adeguati, annunciò. Poi c’era un errore di spelling e mi
ero scordata una maiuscola… birbante! Ma l’imperdonabile, beh, quello lo avevo
commesso verso la fine, sottolineò l’ineffabile Patricia, e il ciuffo bianco e
sofficissimo le sobbalzò come uno spoiler mal fissato, quasi a ribadire il
concetto. Io guardai il punto che m’indicava sul foglio. Non capivo. Era un
sette – vedevo - scritto in cifra. <<Questo le è costato mezzo
punto!>> continuò la Coales col suo marcatissimo accento alla Stanlio e
Olio. <<Very grave.>>
Grave, che cosa, mi domandai io che seguitavo a non capire. <<Il
sette?>> chiesi educatamente. <<Intende quello?>> Patricia additò
la barretta, ora rossa, che lo solcava nel mezzo. <<No>> obiettò
scrollando il capo dinanzi a tanta ottusità, <<non il sette, bensì il
fatto che lei lo abbia barrato!>> Sembrava oltraggiata, neanche avessi
sostituito il rosario della Madonna di Loreto con una collana di Chanel. Non ci
vedevo niente di sbagliato (nel sette barrato, cioè) e lo dissi. La Coales
allora mi spiegò – come se fosse stata Parola del Signore scritta nella pietra
– che nei paesi anglosassoni il 7 non si barrava mai e poi mai. Portava male, non
lo sapevo, heavens?
In effetti, male mi portò eccome,
se è vero che per una dannata barretta mi giocai mezzo preziosissimo punto.
Ora, lì per lì ci restai
malissimo ma le umiliazioni erano talmente quotidiane a Trieste che ormai ci
avevo fatto il callo. Tra l’altro i mezzi punti non contavano, certo non avrei
potuto passare con ventiquattro… e mezzo, no? L’incidente, pertanto, si consumò senza
particolari conseguenze. D’accordo, di colpo non riuscivo più a barrare il
sette per via dello shock, nemmeno in italiano. La penna vergava il numero per
poi lasciarlo intatto e fuggire via. Ma l’importante era che anche l’ultimo
esame del primo biennio si fosse finalmente concluso e che potessi accedere
ufficialmente al terzo anno, che già frequentavo.
Non ho più pensato a quel sette –
e al ciuffo della Coales – se non a marzo di quest’anno, mentre mi trovavo al
Mugello col Ferrari Club Italia. L’Assemblea dei Soci si riuniva prima delle
prove di regolarità e, poiché alcuni erano muniti di deleghe, si era deciso di
vergare con un marker il numero delle persone rappresentate. Quando si fosse
votato per alzata di mano, ognuno avrebbe alzato la scheda col numero delle
deleghe in questione che, in fase di conteggio, si sarebbe sommato al voto del
socio presente.
Non era compito mio predisporre
le schede, visto che mi occupo di logistica per conto di una incentive house di
Torino ma, siccome il preposto Mauro era stato chiamato in riunione, mi ero
ritrovata a sostituirlo. Proprio mentre iniziava l’assemblea, un socio ritornò
indietro di gran carriera per rettificare il numero di deleghe che adesso nel
suo caso erano salite a sette. Come da procedura, annullai la scheda errata che
mi stava rendendo e gliene compilai una nuova, col numero di matricola, il nome
e cognome. Poi, sul retro tracciai un grosso sette.
Non barrato, naturalmente. Figurarsi.
Ilaria, del Club Ferrari, guardò il
numero e disse: <<Sembra un uno. Barralo>>.
Io, che mi ero già allungata a
porgere la scheda, rimasi come paralizzata.
<<Barrarlo?>>
pigolai.
La mia voce tradiva puro terrore.
<<Sì>> intervenne il
socio. <<Meglio evitare ambiguità, no?>>
Io deglutii e tolsi il cappuccio
al pennarellone. Presi tempo. <<Non barro mai il sette>> dichiarai
senza motivo. Poi, con grande scempio dell’intero mondo anglosassone e di
quello interiore mio, barrai il sette con uno svolazzo tremante.
Ilaria mi fissò come se fossi
scema, e senz’altro dovevo sembrarlo. <<Perché non lo barri mai?>>
volle sapere.
Raccontai di quel giorno lontano
con la Coales.
<<In testa, gliela dovevi
tirare, quella barra>> sentenziò il socio a denti stretti. Ed entrò in
assemblea.
Io rimasi seduta. Ero tutta
sudata.
Per aver barrato un fottutissimo
sette più di vent’anni dopo.
A riprova del fatto che siamo ciò
che abbiamo vissuto.
Comunque, tornando a Trieste e facendo
un passetto indietro, mi ero messa a frequentare il terzo anno già da novembre,
nella speranza di passare – come poi accadde a febbraio – il benedetto esame
della Coales. Se dovessi tentare una catalogazione, definirei quel momento come
di crisi, e non soltanto perché rischiavo – come tanti - di perdere l’anno. Mi
ero decisa per Interpretazione perché era quella la scelta popolare. Non la soft choice ch’era poi come Snelling soleva
sprezzantemente definire Traduzione. Col senno di poi, immagino che la
chiamasse “soft” perché lui, sicuramente, non l’aveva frequentata mai, e non
aveva la benché minima idea di come fosse invece scomoda e perciò “durissima”.
Tutte le persone che preferivo
come Landa e Mauro Bubnic (tranne le venete Lorenza Destro e Monica Casonato e
la friuliana Phillips-Colore-Sempre-Vivo che si erano dichiarate traduttrici
nel cuore sin dall’inizio) facevano interpretazione, per cui mi ero accodata,
anche perché chi va a Trieste non si vede nei panni di qualche oscura
traduttrice giurata o tecnica alle prese con contratti capestro o manuali
narcotizzanti bensì in quelli grandemente mitizzati di una interprete à la page
con tanto di cuffie incorporate. Naturalmente, mi vedevo così anch’io. Per quello ero andata a Trieste,
no?
Al bivio
Intepretazione-Traduzione, che era poi lo stesso del diploma, si erano defilate
diverse persone care. Come Silvia, tornata nella caotica Milano. O come la
bionda Alessandra, che se ne uscì di scena silenziosamente e con mio grande, inespresso rimpianto. Da
tempo non ci frequentavamo nemmeno più, eppure eravamo state così bene insieme.
Ma avevamo fatto cose diverse. Io, per esempio, stavo tenendo duro.
In realtà, passato l’entusiasmo
iniziale per Intepretazione, che anche per me fu immenso, rimasero loro, le
Gazzette. All’inizio le avevo trovate diverse e tutto sommato interessanti. Era
divertente tradurle a vista, e ancor più divertente farsele leggere e prendere improbabili
appunti per la consecutiva. Parlavano di tematiche comunitarie. Alloggi,
disoccupazione, crisi interne, disavanzi, tassazione, cazzi & mazzi. Tutti
argomenti rivelatori, suppongo. Di respiro europeo, a volte più ampio.
Senz’altro era terapeutico parlare di sviluppo, affari, bilanci. Era anche una
palla per chi, come me, viveva di libri e per i libri, e s’inventava storie
anche solo guardando un pezzo di Scottex.
Interpretare era una sfida
allettante. Un esercizio che solo abilità, tenacia e concentrazione
consentivano. Ma la creatività non doveva né poteva avere troppo spazio. Il
testo andava reso fedelmente e velocemente, con un’intonazione quanto più
naturale possibile, ovvero senza quelle spezzettature alla Star Trek che spesso
tradiscono l’incertezza di un interprete, il décalage con cui annaspa in cerca
di un termine adeguato. A volte, nei congressi cui partecipo, prendo una cuffia
e mi metto ad ascoltare gli interpreti al lavoro. Alcuni sono bravi, brillanti,
dei veri istrioni. Altri prendono tempo, con pause e ridondanze, e mi fanno una
pena terribile perché ricordo i miei inizi e quelli dei miei colleghi la prima
volta in cui ci capacitammo di come interpretare non fosse affatto un picnic.
Confessare di preferire
traduzione non era pensabile, visto che per tutti era impopolare, quasi démodé.
Ma almeno tre fatti m’indussero a prendere una decisione che in pochi
compresero. Un giorno Snelling, interpretazione inglese attiva, ci impartì un
riassunto. Ero bravissima nei riassunti ma quel giorno – porco gatto! - non so
che cosa diavolo mi prese e, invece di condensare, espansi, scrivendo una sorta
di piccola e superflua Enciclopedia Britannica. Un disastro. Sicuramente ero
passiva di biasimo ma forse non del pubblico ludibrio cui pensò bene di
sottopormi l’umorale Clyde. Probabilmente era deluso da una studentessa che riteneva
promettente e invece non lo era, tanto che si sfogò così, facendomi a pezzi in
classe. Sic transit gloria mundi.
Uscii avvilita e umiliata e certo non mi aiutò quando Snelling, fino ad allora ciarliero
e cordialissimo, smise di considerarmi. Se alzavo la mano, lui m’ignorava. Se
dicevo qualcosa, si girava dall’altra parte. Se cercavo di parlargli, diceva di
non avere tempo. Se m’incrociava nei corridoio della Scuola, mi sorrideva con
compatimento. L’intesa, se mai c’era stata (e ora come ora ne dubito), si era
rotta.
Più o meno nella stessa
settimana, la Boschian, interpretazione passiva inglese, mi assegnò un discorso
che avrei dovuto pronunciare in pubblico. Ottemperai, e lei mi lodò per quel
“raro esempio di eloquenza”, complimento che mi ripagò in parte dell’ostracismo
clydiano. Qualche giorno dopo, però, fece provare a me e agli altri le vetuste
cabine dell’Aula Magna. Impugnata la solita Gazzetta, si mise a leggere nel suo
spassoso ma non propriamente facilissimo inglese versione triestina. Io, già
inibita dal tanfo della cabina e dalla gloria che rappresentava, capii poco o
niente. Non so se siano state le cuffie o la pronuncia della Boschian o l’agitazione. A
occhio, direi quest’ultima. Non ero abituata a sentire le voci in cuffia, e
ancor oggi, per esempio in phone conference, so di essere meno pronta che dal
vivo o per iscritto, dove ho la velocità di un crotalo. Sia in inglese che in
francese (in tedesco ormai mi accontento di farmi capire e basta, è una lingua
che non uso mai). Arrampicandomi sugli specchi, cercai di rendere lo speech come meglio potei ma è chiaro che
non brillai. Sicuramente critica e punizione sono pilastri del buon apprendimento,
componenti della bonne méthode, ma
anche in quel caso venni messa alla berlina come se nella storia della Scuola
fossi stata l’unica a zoppicare in occasione del suo primo passaggio in cabina.
Di nuovo tornai a casa con l’umore sotto lo zerbino. E una nuova angoscia:
interpretazione eludeva i miei talenti più immediati, che si ricollegavano alla
parola scritta. Avrei dovuto non soltanto studiare di più ma dedicare maggior
tempo. Probabilmente mi sarei laureata non nei quattro anni che mi ero prefissa
ma almeno in cinque o sei. Ci sarebbero state più spese per i miei genitori che
inoltre sarebbero rimasti delusi – pensavo io - dalla mia resa non subitanea ed
eccelsa. Era un quadro per me fosco.
Tra l’altro, continuavo a
spasimare per l’esame della Coales che mi rimandava automaticamente a traduzione.
Da una lato avevo abbracciato la parola orale, coi suoi altalenanti artifizi.
Dall’altro dovevo concentrarmi ancora su quella scritta, perché era lì che si
giocava il mio avvenire. Mi trovavo tra due roghi, altro che fuochi!
Come se non bastasse, la mia
amica storica, Landa, tremendamente provata dalla morte accidentale di Enrico,
col quale peraltro aveva rotto da tempo, aveva frattanto perso la testa per il
leccese Andrea, un affascinante ufficiale di marina, in visita a Navalgernarmi
dalla Toscana. Pazienza quello. L’amour
toujours l’amour, no? Tuttavia, sfortuna
o fortuna volle (la vita è sempre un dono, intendiamoci, ma nel caso specifico le
circostanze non giovarono) che Landa restasse anche incinta mentre si trovava a
Pisa per un’embrionale convivenza. Adesso Dionisio, il suo primogenito, è per
lei motivo di gioia mista a orgoglio ma all’epoca, giovane e inesperta com’era,
l’inattesa gravidanza risultò problematica e pesante, anche perché fu
difficilissima da portare avanti. Le nausee erano continue e spaventose, spesso
doveva stare a letto, e comunque ventitré anni sono pochi per diventare mamma,
quanto meno ai giorni nostri.
Che fosse incinta, Landa me lo
aveva scritto. Allora era normale mandarsi lettere. Il telefono fisso costava
un occhio e mezzo della testa, il cellulare ce l’aveva giusto Valter per
lavoro, e rassomigliava a un mattoncino, tant’era squadrato e ingombrante.
Anch’io scrivevo parecchio all’epoca, pertanto trovai normale scovare una busta
di Landa nella cassetta. L’aprii con nonchalance mentre andavo a spasso con
Bamba, su per il sentiero che da Via Parenzan portava in un piccolo sottobosco
in salita, quasi un passaggio segreto per capre.
Per poco non mi sfuggì il
guinzaglio e Bamba e tutto quando passai dal “Cara Ghiga” all’incipit della
lettera, che conservo tuttora. Landa mi scriveva della gravidanza. Diceva di
essere felice e innamorata ma non nascondeva l’incertezza o i dubbi o lo
strazio di dover lasciare Trieste.
Perché lasciava. Per forza. La
sua vita, di colpo, era altro. Era altrove.
Bastò quella notizia perché il mio
orizzonte rimpiccolisse fino a soffocarmi. Mi sentii tremendamente ed egoisticamente sola. La mia Landa se ne
andava per seguire un destino più alto, io ero prigioniera di una scelta ostica
che nemmeno mi piaceva e mi causava violenti dispiaceri e, se non fosse stato
per Valter, Bamba e poche care amiche, non avrei avuto saputo da che parte
girarmi.
Passai le settimane successive a
telefonare a Landa. Partivo la mattina da via Parenzan e a metà strada, prima
del tunnel, mi fermavo col Ciao in una cabina compiacente (sempre la stessa, ero
e sono abitudinaria) e la chiamavo a suon di cinquanta e cento lire. Ridevamo.
Piangevamo. Andavamo a braccio. Eravamo amiche per davvero, avevamo bisogno di
sentirci e in particolare io di ricordarle che la distanza geografica non contava,
che ero con lei lo stesso, che non l’avrei lasciata mai.
L’anno dopo sarei andata al suo
matrimonio a Roma, in Campidoglio, con Dionisio in fasce e un’assurda borsetta
a forma di cappelliera che faceva pendant col mio tailleur bordeaux e un atroce
rossetto iridescente di cui chissà perché mi ero incapricciata. In
quell’occasione Landa mi regalò una sciarpa di Kenzo a strisce, che conservo
ancora. Così come l’immagine di lei che appare felice ed elegantissima
nell’abito di seta bianco latte, con un grande fiocco verticale. Ci fu una
festa da Re Enzo e gli sposi regalarono a tutti una copia di Siddartha. Come
testimone io ricevetti altresì una stampa di Klimt, “Il Bacio”, che è rimasta
nella mia vita precedente, ovvero è stata elegantemente fagocitata insieme al
resto dal mio ex marito. A volte penso che si sia ritrovato a corto di baci, se
è vero che ha dovuto rubare il mio.
Con Landa in Toscana e il mio
avvenire a Trieste subordinato alla Coales, io ruppi intanto gli indugi e
passai a traduzione. Non ero Diego Marani né tanto meno Marco Savella o Luca
Dini, pertanto era inutile che perseverassi. Se avevo altri talenti, tanto
valeva che li trovassi, e certo non giocando a fare l’interprete, per giunta
infelice e frustrata. Snelling mi tolse il saluto, come se fossi diventata più
invisibile di Casper, ma lo spigoloso Mauro Bubnic continuò a essere mio amico,
a riprova del fatto che le scelte non rendono migliore o peggiore, solo ti
fanno prendere direzioni diverse. Mia madre, convinta che il mio voltafaccia
fosse stato dettato da Valter, che in realtà non era intervenuto visto che
avevo fatto tutto da sola, rimostrò con vigore. Mi ero fatta influenzare,
accusò. Avrei dovuto insistere. Prima o poi mi sarei appassionata. E pazienza
se le Gazzette erano barbose. Mica si lavorava per ridere, no?
Mentre io ne ero convinta. Non di
come fossi destinata a ridere, naturalmente. Ma del fatto che lavoro e passione
dovessero coniugarsi. Il fine era la soddisfazione. Di quella non volevo fare a
meno.
Traduzione, in ogni caso, mi fu subito
congeniale. Di nuovo affrontavo cose gradite e difficili, non difficili e
basta. Mi arrovellavo in cerca di aggettivi preziosi e sinonimi accattivanti,
sfogliavo i dizionari in cerca dei loro segreti, trattavo i testi come se
fossero vivi, e lo erano. Rifiorii, anche fisicamente. Superai il plurimenzionato
esame della Coales e mi tuffai nei nuovi corsi con sete autentica di sapere.
Rinsaldai i rapporti, peraltro già molto forti, con le trivenete Lorenza,
Monica e Teresa.
Lorenza, in particolare, era la
mia partner in crime quando si
trattava di ridere e fare scherzi. Tutto era spunto per noi, da una frase
astrusa all’abito singolare di un prof o di qualche studente, da un
pettegolezzo sugoso a un nostro errore in classe. Lei notava tutto, con quei
suoi occhi scuri mobilissimi, e spesso mi aizzava senza volere e con
conseguenze funeste…. considerato che il mio tempo di reazione era brevissimo.
La battuta mi partiva all’istante, e spesso non ero pronta nemmeno io al suo
feroce impatto. Per cui ci mettevamo a ridere nei momenti meno adatti, e a volte
ci beccavano anche, mannaggia!
Con la Claudia Manidi, che ogni
giorno calava dalla lontana Muggia e invariabilmente tesseva le lodi dello
storico fidanzato, lo statistico Belaz, avevo un’intesa più pacata ma comunque
buona. Mi feci anche una nuova amica, la Manuela Noce, che avevo sempre
considerato sdegnosa mentre probabilmente sdegnosa ero soltanto io. Aveva
capelli soffici e ondulati come lana merino, ed era nata in Ghana, dove continuava
ad abitare suo padre, ma abitava a Biella con la mamma, una signora minuta
dagli occhi dolci e sinceri che aveva bellissimi pastori tedeschi. Manu parlava
un inglese eccezionale, e suo fratello studiava ingegneria negli Stati Uniti.
Eravamo molto simili per famiglia ed educazione, anche se la mia vita non era
mai stata avventurosa come la sua, e ancor oggi mi sorprendo del ritardo con cui
abbiamo legato. A tutt’oggi, Manuela rimane una delle mie poche certezze.
Le altre si chiamano Landa e
Lorenza.
Queste tre persone sono ancora
con me, hanno vissuto le mie luci e ombre, io ho vissuto le loro quando me lo
hanno permesso. Sappiamo di che cosa parliamo e, se anche la mail o l’instant messaging hanno sostituito le
lettere d’antica memoria, poco male. I contenuti rimangono. E’ vero, ci
sentiamo quando capita, anche molto irregolarmente. Ma non c’è mai imbarazzo.
Ogni volta il discorso riprende come se si fosse interrotto l’attimo prima, a riprova
di come il bene scardini il tempo, perché è indipendente da esso.
A Trieste formavano un gruppo
compatto e unitissimo, molto solidale e linguacciuto. Le lezioni erano
divertenti prima, durante e dopo. Stavamo insieme per studiare e a volte
studiavamo per stare insieme. Ci confortavamo a vicenda, quasi a stemperare la
solitudine in cui a turno ci eravamo trovate nel primo biennio. Ci supportavamo
con sincerità e sano umorismo.
Da parte mia, adoravo le lezioni
di Gerald Parks, traduzione dall’italiano in inglese, anche se facevo fatica a seguire
il suo drawl. Mi piacevano i brani letterari
che sceglieva, ostici ma sublimi. E a distanza di anni ricordo ancora i suoi
insegnamenti, i trucchi che da prof e futuro collega ci snocciolava. Parks era
un ottimo traduttore. Così bravo che l’ambizione lo eludeva. Noi saremmo
diventati concorrenza successiva, eppure lui ci preparava lo stesso con
coscienza e severità. C’era posto per tutti, e questo so di averlo imparato non
tanto dalle sue lezioni ma da come si poneva lui: semplicemente. Era un genio
umilissimo la cui grandezza sfuggiva ai più.
Per traduzione dall’inglese verso
l’italiano avevamo invece il triestino Livio Horrack che aveva labbra color aubergine e un gusto perverso, se non …
diverso, quando si trattava di coniugare il verbo “tossire”. Sebbene tutti mi
chiamassero Ghiga, lui preferiva chiamarmi “Maria”. E siccome aveva una voce
molto profonda, alla Yves Montand col raffreddore da fieno, quando pronunciava
“Maria”, per giunta calcando, sembrava recitasse. Ora, Maria Gaetana è il mio
nome completo. Gaetana, volendo abbreviare. Maria, da solo, non m’identifica né
m’identificava allora, per cui spesso non reagivo nemmeno. Non capivo, insomma,
che il prof stesse chiamando proprio me. Allora lui tornava a dire, in tono lievemente
interrogativo: <<Maria?>>. E quelle s… di Lorenza e Manuela, che si
erano messe in testa che Horrack mi facesse il filo, incominciavano a cantare
West Side Story, facendomi diventare di tutti i colori: <<Maria, Maria… I’ve just met a girl called
Maria…>>.
Un tormento! Tra che dovevo
leggere, tra che mi scappava da ridere, tra che non potevo guardare lui, Livio,
a momenti grugnivo.
Un po’ come accadde a Lorenza
quella volta da Sadar, quando grugnì (ma lei veramente) per via di una mia
sciocchissima ma godibile battuta sulla carta igienica detta “raspaculo”.
Povero Sadar, a lui sì che gliene
capitarono di ogni! Al di là del
grugnito destriano, ormai passato alla storia per la durata e la
sonorità, anche un oggetto sconosciuto gli toccò di avvistare nel bel mezzo
dell’Aula Magna. <<Che cosa capperi è quello?>> domandò, scandendo
com’era solito le parole e additando una forma semicircolare di colore beige
che spuntava dal pavimento. Ci allungammo tutti a guardare e io fui lì lì per
svenire dall’imbarazzo. Erano gli anni delle spalline giganti, e io avevo
appena smarrito la spallona destra del maglione verde bandiera col fiore
pervinca che mi aveva confezionato la nonna Beatrice! <<Ho perso un
pezzo!>> berciai. E con una spalla comicamente più alta dell’altra, mi
precipitai fino alla spallona caduta e l’afferrai. Ci fu un boato,
naturalmente, ma io ero troppo impegnata a ripristinare l’impalcatura interna
del maglione per notarlo.
Adesso mi viene da ridere se
penso a quando ci incastravamo le spalline sotto gli elastici del reggiseno.
Guai a uscire senza. Guai a non averle abbastanza rigonfie. Avere spalle
normali era imperdonabile!
Gli studenti – e quanto sopra lo
dimostra - erano generalmente più buffi o anche solo simpatici dei prof ma
Dodds, esercitazioni pratiche d’inglese, faceva eccezione. Era spiritoso di suo,
con una mamma che aveva insegnato canto al vocalist degli Spandau Ballet,
allora molto in voga. Ci raccontò un giorno di aver approvato una mozione del dean dell’università centrale rendendo
la frase “it makes sense” con un
clamoroso “fa senso” che strappò risate corali. Piaceva a tutti, Dodds. Forse
perché ogni tanto commetteva errori. Forse li commettevano anche gli altri
docenti. Ma nessuno di loro l’ha mai raccontato. Quanto meno, non rammento.
Il terzo anno trascolorò nel
quarto e di colpo mi ritrovai ad affrontare i finali. Che sono esami
particolari, nel senso che valgono soltanto in negativo. Se li passi, la tua
media complessiva non migliora. Se non li passi, non ti puoi laureare.
Ricordo di averli sostenuti nell’autunno
del 1988, quando il prodigioso ma schivo Cauti, prima lingua francese, già si
laureava in interpretazione con una giacca color del sedano. Erano testi
difficili ma Parks e Horrack mi avevano preparata a dovere, ragion per cui andai
come il diavolo. Rammento un brano: “Apologia dell’umile virgola”. Era arguto e
scritto benissimo, e mi divertii a tradurlo. Per la tesina, anche quella
ininfluente ai fini della media, scelsi Italo Calvino e “Il Castello dei
destini incrociati”. La discussi alla presenza di Horrack e della Diana. Quest’ultima,
ascoltandomi, disse: <<Però, che cambiamento rispetto a quando era mia
studentessa>>. Voleva dire, naturalmente, che ero molto migliorata. In
realtà, avevo solamente trovato qualcuno che mi dava fiducia, e di colpo ero
diventata una brava traduttrice, perché il resto – magari - ce l’avevo dentro.
Ma se a Scuola tutto filava bene,
nel privato mi stavo preparando a salutare Valter. Era stato un grande amore,
un amore a cui dovevo equilibrio, determinazione e maturità. Tuttavia, non ero
più innamorata, sono cose che accadono senza motivo, giusto per farci dispetto.
Perché è brutto ricevere un rifiuto. Ma lo è anche darlo.
Lasciai Valter, lascia via
Parenzan, lasciai Trieste.
Di ritorno a Modena, mi buttai
nella tesi. Avevo scelto Parks come relatore e l’Argenton come correlatrice.
L’argomento me l’ero trovato controverso, visto che avrei parlato della
traduzione della cosiddetta paraletteratura
o letteratura d’evasione, in particolare del romanzo rosa. Passai mesi a
documentarmi, il che significò leggere atrocità come Liala e la Cartland. Per
non parlare di centinaia di sciocchi ma almeno spassosi Harmony. O dei rosa
hard come Scrupoli della Krantz che dovetti
citare con estrema parsimonia, visto che Parks tendeva a scandalizzarsi. In sei
mesi esatti sfornai una tesi corposa e ironica che fu antesignana del mio
inizio di carriera, quando tradussi moltissimi gialli e romanzi rosa.
La dissertazione venne fissata
per il 17 luglio. Mia madre disse subito che sarebbe venuta. Mi venne male
mentre cercavo di dissuaderla con ogni mezzo. Non sapevo che cosa aspettarmi.
Alla Scuola, dopotutto, non si sapeva mai. Non volevo che restasse delusa dell’exploit
di qualche docente. Ma Patton non volle sentire ragioni. Voleva esserci e, per
tutti i diavoli, ci sarebbe stata. Così, mentre io già l’aspettavo a Trieste,
ospite di Lorenza, mamma affrontò il viaggio in treno come quella volta per
l’ammissione. A quel punto, mi trasferii con lei nell’ordinata pensione Brioni
di via Ginnastica, consigliataci da Manu Noce. La Casa della Fanciulla non fu
nemmeno nominata, grazie a Dio.
Io ero agitatissima. La presenza di
mia madre mi inibiva terribilmente, e comunque non ero tranquilla. Tanto per
incominciare, sapevo di non poter aspirare al massimo dei voti. Partivo da 97.
Pertanto, anche prendendo gli undici punti che erano il massimo per la tesi,
sarei tutt’al più arrivata a 108. Sempre che ci arrivassi! In realtà, negli
anni precedenti, era stata assegnata l’eccezionalità a diverse tesi, con picchi
di addirittura quindici punti extra. Ma di recente c’era stato un giro di vite,
pertanto addio regalie. L’era dell’indulgenza era finita.
Per la dissertazione, indossai un
abito blu scuro di Pianoforte che ho gettato via solo quest’anno, insieme agli
appunti di Melato e Sadar, e con rimpianto (ma solo per il vestito, ormai immettibile).
In mano reggevo la tesi rilegata di grigio perla. Mia madre, pure in blu (ma
che sorpresa), sedeva in prima fila e qua e là si scorgevano le teste delle
amiche e qualche curioso. Parks sorrise, l’Argenton pure, e io mi sedetti. A
presiedere la commissione era purtroppo Crevatin. Dico “purtroppo” perché da
lui, come dalla Scuola, non sapevo mai che cosa aspettarmi. O tanto bene o
tanto male. Incominciai a parlare, mi accalorai con misura, ci furono domande
cui risposi prontamente, e poi altri interventi. Tutto filava alla perfezione.
Non che io mi fossi permessa il benché minimo rilassamento. Ero tesa come
l’elastico degli asparagi che ho comprato stamane al mercato della Benefica. Nondimeno,
avevo chiara percezione di come la dissertazione si stesse svolgendo alla
grande. In fase conclusiva, quando pensavo di essere ormai prossima al
traguardo, Crevatin prese tuttavia la parola.
Smisi di respirare, terrorizzata,
e il mio pensiero corse alla mamma. Che cosa c’era in serbo per me? Per lei?
Qualche domanda trabocchetto, magari sui romanzi rosa… in swahili? Ma Crevatin
pontificò per un buon quarto d’ora, rispolverando tra l’altro il romanzo greco
che avevo io stessa citato… e alla fine, invece di fare domande imbarazzanti o
anche solo impossibili, com’era suo marchio di fabbrica, concluse:
<<Ottima tesi, non ho altro da dire. Bell’argomento davvero!>>.
Insomma, aveva parlato per il piacere di farlo, e io ero libera.
Presi il prevedibile 108 e ne fui
felice. Sapevo di poter aspirare tutt’al più a quello, e il fatto solo di
essermi laureata mi ripagava di tutto. Patton mi disse che era il più bel
giorno della sua vita e io mi sentii rimescolare, perché dare vita a un sogno -
suo, mio, nostro - ha un valore molto
speciale. Festeggiai con lei e le amiche più care nel modesto baretto vicino
alla Scuola. Ho ancora la spilla che Monica, Lorenza e Diana Boer mi regalarono
quel giorno insieme ai fiori. La romantica stampa con le ninfee di Monet che ricevetti
da Manuela, invece, ha fatto la stessa fine del Bacio klimtiano.
Quella sera cenai con mamma e
Lorenza al Corsia Stadion di via Giulia e mi abboffai di Kaiserfleisch, würstschen
e asprigni crauti. Dio, che bontà! Per non parlare dell’ottima birra von Faß, una vera delizia. Del resto, se
anche mi avessero dato una scatoletta di Whiskas, avrei mangiato pure quella,
tant’ero entusiasta. La sera dopo, col placet di mamma, andai in discoteca con
le sorelle Visani e mi presi un ballone
dell’altro mondo. Ma tutto era permesso. Che diavolo, mi ero laureata, no?
L’anno dopo, come venni a sapere,
una studentessa della Scuola si aggiudicò quindici punti con la tesi. Partiva
da 90 ed ebbe 105, il minimo richiesto per i concorsi pubblici. Come ottenne
l’eccezionalità ormai bandita, ancora non so. Nemmeno chi lesse la tesi, lo sa.
Circolò voce (ma senz’altro è falso) che la studentessa in questione sia andata
a letto con un professore. Circolò anche il nome del professore in questione.
Se la cosa è vera - ma ne dubito
perché la Scuola è sempre stata molto pettegola - ben che han fatto a darle quei
quindici punti. Personalmente, gliene avrei dati almeno venti! Fu una buona
azione. Quella della studentessa, intendo.
Quanto a me, salutai gli amici e
tornai definitivamente a Modena. Mi spiacque lasciar Trieste e il suo mare, e
anche da Piero a San Giusto fu duro il distacco, ma – cavoli! - ero in pieno
fermento. Dopo tanto studio, avevo voglia di mettermi alla prova, di lavorare
insomma. Mi concessi una vacanza in Calabria con le compagne di liceo, poi
aprii partita IVA, la stessa che ho ora, e mandai in giro stopposi curriculum
vitae e artefatte lettere di presentazione.
Avrei anche potuto soprassedere,
visto che traducevo romanzi rosa già dai tempi della tesi. Tra l’altro, la casa
editrice Zanfi di Modena, che all’epoca curava un sacco di pubblicazioni
incredibili, si era fatta dare dalla Scuola una lista coi laureati di
quell’anno, e mi aveva contattata già in settembre per le famose (o dovrei
dire: “famigerate”?) guide APA. Laddove le mie amiche si erano tutte orientate
sul tecnico o sull’informatico, io mi mantenevo sul letterario, anche se da
battaglia. I testi più frequenti, oltre ai gialli e ai rosa, erano le guide
turistiche, i manuali di bricolage e i testi di giardinaggio.
Adoravo i corposi libri di
arredamento della Zanfi. E mi piacevano pure quelli di ricette. Le risate più
matte, però, me le facevo coi romanzi rosa, perché le scene di sesso – così
venimmo istruite – andavano censurate. Dei preservativi, per esempio, non si
poteva parlare, perché l’Italia è un paese cattolico. Per cui i protagonisti che
nell’originale erano attenti e responsabili, veri fanatici del sesso sicuro, in
italiano si costringevano al “salto della tigre”, visto che nient’altro era
consentito. Quanto al sesso in sé, se la tanto propugnata dissolvenza non era
possibile, allora bisognava per forza edulcorare. L’orgasmo non si poteva
menzionare né tanto meno descrivere, se non con estrema vaghezza. La petite mort diventava allora una specie
di mancamento, nel quale non si capiva bene che cosa accadesse… o se accadesse
veramente qualcosa. L’eroe, poi, non era dotato di pene, perché non si poteva
dire. Per cui la fantasia annaspava in cerca di definizioni alternative che
andavano dal comico “vessillo della sua virilità” all’esilarante “simbolo dell’amore”.
Poi c’era “verga”, che però non suonava punto bene, così si ricorreva a “membro”,
potenzialmente greve, oppure alla quasi scolastica “asta” o all’assurdo “centro
di piacere”. Quand’ero stanca, avrei voluto mettere “batacchio” o “pendaglio” e
basta là, se non addirittura “cazzo” o “minchia” ma non potevo. Così
elucubravo, spremendomi le meningi per rendere il sesso… meno sesso possibile.
Tradussi 150 testi in circa dieci
anni. Ma poiché tradurre è bello ma anche solitario, accettavo altri lavori.
Con New Holland, che allora si chiamava Fiatgeotech e prima ancora FiatAgri,
incominciai a collaborare sin dal 1989, fresca di laurea. La sede centrale del
Magazzino Ricambi era a Modena. Conobbi allora il lunatico Fassina che sarebbe
poi passato all’Euphon e tante delle colleghe che frequento tuttora. Era
un’azienda in piena crescita e all’epoca non tutti i funzionari o i dirigenti
sapevano l’inglese, per cui mi impiegavano per corsi e trattative, nonché per
traduzioni tecniche, che non mi piacevano ma rendevano parecchio. Certo molto più
della paraletteratura. Col fatto che ero sveglia e socievole, entrai anche nel
giro delle fiere, dei lanci e degli incentive, ma in punta di piedi, come
hostess.
Il mio primo lavoro del genere fu
il Settantennio della Fiatgeotech, nella storica Villa Cesi prima di Nonantola,
appena restaurata per l’occasione. C’erano tappeti di mosaici vitrei e mobili
anni Cinquanta rosso fiamma, panche a forma di sole e tavoli di cristallo con
la base colorata, come gioielli. Per quei tempi, era un restyling fuori da ogni
schema. Mi venne imposta una divisa che a volte sogno ancora la notte. La gonna
blu non era neanche il diavolo mentre la casacca a riquadri ricordava la
coperta del cavallo Orazio. La camicetta bianca sarebbe stata anche portabile,
solo che la completava un fiocco che, essendo di cotone ordinario, non si
annodava elegantemente, à la francaise,
ma rimaneva turgido e gonfio al di sotto della gola, creando pruriti, starnuti
e generici malumori.
Rinunciando a ogni vanità, mi
obbligai a indossare l’orrida divisa per quello che sarebbe stato il mio battesimo
in logistica. In realtà, la logistica non la vidi nemmeno di striscio, quella
volta. Fassina mi fece salire al secondo piano della villa, in corrispondenza
della saletta stampa e tuonò: <<Guarda quella porta e che nessuno entri
salvo i giornalisti!>>. Per una che si era fatta il mazzo a Trieste e
sognava di scrivere un romanzo o comunque di arrivare a tradurre un giorno
qualche esponente della letteratura contemporanea, la consegna risultò tutto
fuorché allettante. Tuttavia, guardai intensamente la porta indicata per
qualcosa come quattordici ore, e non entrò veramente nessuno, manco la stampa
che, più furba di me, pensò bene di eclissarsi al piano inferiore nonché nel
giardino all’italiana.
Rincasai coi piedi a banana e
l’ego in cantina e, a mia madre che mi chiedeva come fosse stata l’esperienza, piagnucolai:
<<Non voglio andarci più!>>. E maltrattai il dannato fiocco che,
malgrado le ore in piedi, era ancora perfetto, come di marmo carrarino.
Eppure, l’indomani tornai. E
guardi due porte. E la volta successiva ne guardai dieci. E quella dopo ancora
mi fu assegnato il controllo del catering. Poi il coordinamento di altre
hostess. Poi lo spulcio delle rooming list o dei voli. Poi la supervisione
della sala e delle attrezzature tecniche. Poi la creazione dell’evento stesso.
Poi diventai quella che sono ora. Una organizer.
Per esempio, arriva un brief in
agenzia, con un dato budget, secondo cui duecento persone devono andare da A a
B in aereo, alloggiare in un quattro o cinque stelle, farvi un aperitivo di
benvenuto durante il check in, consumare una cena di gala in qualche location
esterna, naturalmente a effetto, assistere a un bello spettacolo comico e
rientrare quindi in albergo, per poi svegliarsi l’indomani, fare colazione,
partecipare a un lancio o a una conferenza, con tanto di coffee break e pranzo
di lavoro, e quindi ripartire. Il tutto condito da segnaletica, omaggistica
personalizzata, transfer ad hoc e assistenza in aeroporto e in loco. Come fare,
dove e quando andare, quanto spendere, che testimonial ingaggiare, quali
fornitori e tour leader scegliere… questo faccio io.
Quando ho iniziato, però, guardavo
le porte di Villa Cesi, che erano bianche e lineari, delle bellissime porte.
Una vera gavetta, pensavo. E ne
andavo anche abbastanza orgogliosa, perché vi ravvisavo uno sforzo. Un
investimento per il futuro. Una tensione positiva. Perché se c’era una cosa che
avevo imparato a Trieste era a soffrire per qualcosa. Anche se, col senno di
poi, mai nessuna prova al lavoro è stata dura e talora umiliante come la Scuola,
che pure rimane una delle cose migliori della mia vita.
In ogni caso, parlavo liberamente
del mio inserimento nel mondo del lavoro. Mi confrontavo, insomma, più che
altro per sentire come si regolavano gli altri.
Ecco perché affrontai l’argomento
anche al matrimonio di Pazzelli, che mi aveva sorprendentemente invitata. Dico
“sorprendentemente” perché non ci frequentavamo più tanto. Certo, col tempo, il
rapporto si era normalizzato un’altra volta, perché non c’è niente che in
gioventù non si aggiusti con un po’ di buona volontà. Tuttavia, l’invito giunse
inatteso e mi fece piacere.
Daniela proveniva dalle Marche ma
sposava un bolognese, pertanto il matrimonio e il successivo ricevimento si sarebbero
svolti nella campagna emiliana. Col fatto che lavoravo quella mattina, riuscii
ad aggregarmi solo per il pranzo, e faticai parecchio a trovare la villa che
gli sposi avevano scelto per i festeggiamenti. Mi ero fatta prestare la Renault
Cinque della mamma perché all’epoca non avevo l’auto. Indossavo un tailleur
corallo di Luisa via Roma, con una camicia di seta incrociata davanti e una
cintura di coccodrillo di cui andavo fierissima. Ai piedi calzavo dei mocassini
sempre di coccodrillo. Mi sentivo jolie.
Davanti alla villa, parcheggiai
un po’ storta, perché i posti migliori erano stati occupati. Dentro trovai
Passerella e Caterina Visani con Giorgio Bortolotti, un interprete in gamba. Non
ci vedevamo da parecchio e fui contenta quando ci sedemmo tutti insieme intorno
a un tavolo rotondo. Daniela era molto carina in bianco, e sembrava raggiante.
Rimasi soltanto un po’ corta quando gli amici dello sposo la costrinsero a
salire su un buffo carretto e la trainarono senza scopo per il giardino. Non
era cosa da Daniela ma immaginai che per amore si dovessero fare molte cose.
A tavola si parlò di tutto e di
niente. Caterina mi chiese che cosa facessi. Parlai di guide e romanzi, e
qualcuno commentò senza bisogno: <<Eh, già, tu hai fatto
traduzione>>. Non volli cogliere lo sprezzo, pertanto passai a raccontare
dei miei primi lavoretti in New Holland, sperando di strappare qualche sorriso
o commento solidale. In realtà i presenti inorridirono all’idea che la
sottoscritta potesse anche solo pensare di fare la hostess. <<Ma quanto
ti danno?>> mi chiese Caterina, brutale. Pensai che fosse interessata, e ammisi
sincera: <<Centomila lire al giorno>>. <<Puah!>> saltò su Giorgio Bortolotti, piegando la bocca
all’ingiù, <<io per centomila lire al giorno non mi alzo nemmeno>>.
E tutti risero, e mi parve che il corallo del mio tailleur fosse diventato rosa
cipria. In quella partì un annuncio con una voce ridente che ordinava al
microfono di spostare una brutta auto tra i piedi. Caterina disse subito che
doveva essere la mia, anche se ignorava con che macchina fossi arrivata o
altro. Sapendo di aver parcheggiato male, io mi sentii la coda di paglia e
uscii a guardare ma naturalmente l’annuncio non riguardava la povera Renault Cinque
della mamma, che tra l’altro trovavo carina, non brutta.
Rientrai nella villa ma, per quel
che mi riguardava, la festa era finita.
Sicuramente Giorgio, Caterina e
la stessa Daniela avranno fatto mirabolanti carriere a Bruxelles o a Ginevra se
non a Washington DC o a New York. Io ho preso una strada diversa, letteraria
all’inizio e quindi operativa. Non mi sono mai vergognata di aver tradotto
romanzi rosa, che oggi ricordo con rimpianto, venendo essi a simboleggiare un’epoca
cara e perduta, né ho mai rinnegato i miei trascorsi più umili, tra cui figura
in pole position la volta in cui un’agenzia di Bologna mi mandò in fiera come
standista trilingue mentre il cliente voleva una barista poliglotta. Col fatto
che la sostituzione non era più possibile e che l’agenzia in questione
apparteneva a una cara amica che altrimenti si sarebbe ritrovata in un mare di
guai, mi rassegnai a stappare champagne e a tagliare tocchi di grana per un
intero Cersaie! Per quello avevo studiato così tanto, no?
Resta il fatto che, pur adorando
la traduzione, ho sempre approcciato altre attività. E a questo devo la mia
fortuna. Tradurre mi viene come respirare, non devo nemmeno pensarci, sono anni
che non guardo più un dizionario e solo raramente controllo qualcosa su
Internet. Tuttavia, l’ambito letterario, anche di qualità (quando finalmente ci
sono arrivata), non vanta remunerazioni ragguardevoli, e col prestigio è
difficile campare. Specie per chi ama trattarsi bene come me. Posso rinunciare
alle vacanze al mare. Ma non a un libro ogni due giorni. So dire di no al
televisore (e per anni l’ho fatto). Ma non toglietemi l’impianto di
irrigazione. Riesco a negarmi le paste o il gelato la domenica. Ma non voglio
nemmeno pensare di rinunciare al parrucchiere.
Pertanto, nel 2000, quando persi
tutto col divorzio, fu la logistica a salvarmi. Smisi di tradurre perché mi
servivano maggiori introiti, e mi buttai a capofitto negli eventi. Non tornai
più indietro. Sono approdata così in Coca-Cola per la mia prima Olimpiade,
Torino 2006, e successivamente nello stesso modo ho organizzato l’ospitalità
locale sempre per KO a Vancouver 2010. Adesso lavoro in Ventana nel MICE e mi
occupo prettamente di programmazione, quindi gare e incentive.
E’ un lavoro tecnico e durissimo
che, nell’operativo soprattutto, ti porta dalle stelle alle stalle. Puoi
ritrovarti un secondo a chiacchierare con Luca Cordero e il successivo a impilare
sedie con qualche fornitore in grave ritardo sull’allestimento di una sala. In
un’occasione, sono finita a impiattare il risotto al radicchio nella tenda del
catering perché la cuoca addetta aveva avuto un’emergenza ed era dovuta
scappare a casa. Ed io ero in abito da sera, con una schiumarola in mano e una
bella macchia di unto che già si allargava sul corpetto drappeggiato. Un’altra
volta, mi sono dovuta armare di ago e filo per restringere i tubini di dieci
hostess che l’agenzia aveva mandato con la taglia sbagliata. E mai dimenticherò
la sera in cui la cliente ha insistito per fare personalmente l’assegnazione
camere, salvo poi sbagliarla in toto e costringere me e le ragazze del database
a lavorare un’intera notte per rimettere ordine tra i 1000 ospiti che sarebbero
arrivati l’indomani a Berlino.
Tutto molto prosaico, lo ammetto,
ma mi piace.
E’ il mio lavoro.
Quello che stavo facendo il 5
maggio scorso quando, di colpo, mi sono sentita assalire da una vertigine
fortissima. Ho chiesto aiuto ma la mia collega Luisa, che mi aveva vista
normalissima un attimo prima, a parlare di pomodori ripieni al forno, non ha
capito subito che cosa mi stesse succedendo. <<Sto male!>> ho
urlato, col mio caratteristico buonumore, battendo comicamente il pugno sulla
cattedra, <<aiutami!>>. Lei è balzata in piedi e si è sbrigata a
sorreggermi perché non riuscivo più a stare eretta. Mi sentivo precipitare
verso destra mentre tutto il mio corpo era scosso da una nausea pazzesca. Stavo
malissimo e avevo molta paura. Ho pensato che potesse essere una labirintite e
sapevo per sentito dire che i sintomi erano atroci.
Luisa ha gridato e sono accorse
Giovanna e la signora Loretta, che mi hanno fatta sdraiare. <<Chiama il
Gradenigo>> sono riuscita a dire, perché è lì che lavora Giorgio, il
moroso di Clelia, un primario bravissimo. E siccome Luisa non riusciva a
raccapezzarsi col mio telefono, ho trovato io il numero e le ho allungato il
cellulare. Dopo una mezz’ora, è arrivata un’ambulanza che mi ha portata via in
preda ai conati.
Al pronto soccorso mi hanno
rivoltata come un calzino. Tac, ecografia, ECG: tutto negativo. Ma la sera
avevo la febbre e certi sintomi non si prestavano comunque a una facile
lettura. Mi hanno tenuta dentro. Col fatto che non volevo spaventare i miei a
Modena, non ho detto nulla.
Quella notte sulla barella,
mentre giacevo immobile, terrorizzata all’idea che potessero tornarmi le
vertigini, ho sentito una ragazza molto giovane piangere perché i medici
volevano trattenere anche lei. Aveva partorito da poco e lamentava un’infezione
al fegato. Voleva firmare per tornare a casa e ripresentarsi il mattino successivo.
Gli ospedali le facevano paura, e i genitori sembravano troppo deboli per fermarla.
Non so dove mi sia venuta la forza di sedermi, ma l’ho fatto e, rottame
com’ero, le ho detto: <<Non rischiare, resta qui. Ci sono anche
io>>. La ragazza è rimasta e abbiamo parlato un po’. Ho fatto anche
amicizia con una signora che aveva avuto una colica e che diceva che era come
avere il paletto dei vampiri di Twilight conficcato nelle viscere. <<Ma
quel paletto andrebbe nel cuore>> ho risposto assurdamente, e lei ha
riso, e ho riso anch’io, nella luce livida del corridoio.
Il mattino seguente sono stata
sottoposta a risonanza, ed è emerso allora che la labirintite non c’entrava.
Avevo avuto un’ischemia. Un’ischemia cerebellare. Praticamente, un grumo di
sangue si era staccato dagli arti inferiori per fluttuarmi fino in testa.
Niente di terribile, a occhio.
Ma basta sostituire “ischemia”
con “ictus” e tutto cambia.
L’ictus si associa alla vecchiaia
nell’immaginario collettivo, ed evoca immagini funeste di pazienti malmessi,
spesso non autosufficienti, che parlano e si muovono a fatica… quando ancora riescono
a farlo.
Nella fattispecie, io sono stata
molto fortunata perché a essere danneggiato non è stato il cervello bensì il
cervelletto che controlla l’equilibrio e poc’altro, e si riprende in fretta. In
effetti, passati i primi due giorni, non ho più avuto vertigini, anche se a
volte mi sentivo pendere come una (piccola) torre di Pisa oppure mi prendeva
un’intensa cefalea.
Resta il fatto, con cui sto
ancora cercando di venire a patti, che ho avuto un ictus a quarantacinque anni.
Giovanile, per così dire. Il che fa scappare da ridere, se prima non ci fosse
da piangere, naturalmente.
<<Tornerai come
prima>> mi ha assicurato Giorgio. E ci credo… se lo dice lui. Già ora, a
distanza di circa venti giorni, sono in ottima forma, uso abitualmente il
computer, esco, mangio col consueto appetito, compro cose, mi concedo persino
qualche lettino e sono ancor più stupida, ottimista e vanesia di prima.
Ma è comunque dura vedere quello
che mi è successo come un’opportunità, anche se mi rendo conto che lo è stata.
Ero stanca e stressata, avevo esagerato. Anzi, esageravo da anni. Eppure, non è
stato il gran lavoro a farmi venire il classico “colpetto”. Al pari del 25-30%
della popolazione, ho il forame ovale pervio. Normalmente si chiude quando sei
bambino. A volte non lo fa. In quei casi si ricorre a un piccolo intervento cui
verrò presto sottoposta anch’io.
La notizia si è sparsa in fretta,
il nostro è un ambiente molto piccolo prima di essere grande. Ci sono persone
che mi avrebbero ficcato volentieri le dita negli occhi e che comunque mi hanno
telefonato. Ce ne sono altre che, conoscendo il mio riserbo, hanno preferito
aspettare un mio cenno. A volte la curiosità mi ha fatto piacere ma più spesso
mi ha ferita, perché almeno quando stiamo male dovremmo avere diritto a un po’
di discrezione, invece nemmeno allora.
Tutto questo, naturalmente, non
ha importanza, salvo il fatto che sono viva e sto bene.
Una mia cara amica, Anna Maria,
si è trasferita a vivere da me nei primi giorni, per non lasciarmi sola, visto
che a Torino abito e lavoro soltanto mentre ho tutti a Modena. Nei weekend è
venuta mia sorella, che mi ha fatto tanta compagnia, e una volta ha fatto una
scappata anche Patton, che solo raramente può lasciare il babbo ormai. Clelia e
sua mamma m’invitano a pranzo ogni volta che possono, e il loro cane Rocco mi
riempie di leccate e buchi nelle calze. Il mio ragazzo, che è torinese ma
lavora a Correggio, mi tratta ogni volta come una statuina di biscuit, quanto
meno all’inizio… salvo scordarsi e baciarmi con la solita irruenza, e questo mi
fa ridere, perché non c’è niente come la normalità a rassicurarmi adesso, a
ricordarmi che, ancora una volta, sono quello che ero.
Se potrà riaccadere? Beh, è la
mia ossessione corrente, nonché una delle domande che ho fatto al medico della
Stroke Unit, una volta che dal Granedigo mi hanno trasferita alle Molinette.
<<E’ un’evenienza rarissima>> ha risposto. <<Come per il
resto della popolazione mondiale. Pensi in termini del 2 o del 3%>>.
Detta così, non suona neanche
male, lo ammetto. Ma io sono già rientrata in una percentuale bassissima e
improbabile, e ogni tanto mi viene un crepo.
Più spesso benedico le mie ore e
cerco di dare valore al tempo. Così cucio bordi di pizzo o leggo libri
struggenti di scrittrici indiane emergenti o trapianto le zinnie che ho
seminato in aprile o scrivo ricordi che nemmeno sapevo di avere e che pure
adesso premono per uscire, stanchi di essere premuti in una scatola ricoperta
di carta a quadretti bianchi e verde, senza luce né amore. Da qualche giorno ho
ricominciato a lavorare da casa, anche se il mio ritorno effettivo non sarà
prima di luglio. Ho avuto il permesso di guidare ma pensavo di aspettare ancora
un po’. La verità è che non mi sento ancora sicura, più che altro per gli
altri. Così, temporeggio. Preferisco cucinare e spostare mobili. Se non
camminare fin da Panetto e regalarmi qualche rosa, magari una Meynard bianca
col fiore doppio.
Insomma, non ho avuto la vita che
credevo di volere.
Ho avuto la vita che mi sono
presa o che mi è toccata.
E, posso dire?
Mi sta piacendo.
Non è stata facile, non è stata
lineare, a volte non è stata nemmeno giusta.
Io, però, l’ho trovata bella.
Spero di trovarla così ancora per
molti anni.
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