giovedì 31 ottobre 2013

Ultima

 
(Lorenza [Destro] è sempre informatissima. Come faccia non so ma è costantemente sul pezzo. "C'è questo piccolo concorso letterario" mi ha scritto l'altro giorno (o era un mese fa? Probabile). "Tema il cibo, il buon vivere e il vino". O qualcosa del genere. La mail l'ho letta in fretta. "Vedo che in questo periodo hai la tastiera fumante, perché non scrivi un raccontino?". Oberata com'ero dalle solite mille stupidissime cose, credo di averle risposto in maniera interlocutoria. Sì, magari, chissà, se ho tempo... Poi, però, qualcosa mi è scattato perché di fatto ho aperto il link che mi aveva mandato Lorenza. Andavo di fretta, come al solito, e ho letto solo l'essenziale (e nemmeno, poi).
 
4000 battute spazi inclusi.
 
Niente.
 
Del resto, avrei dovuto immaginarlo. Il racconto selezionato sarebbe stato pubblicato sul retro di... un'etichetta?
 
Sì, qualcosa del genere.
 
Ora, l'idea non era esattamente elettrizzante. Ma lo era la scusa di rispolverare qualche altro meraviglioso ricordo.
 
Il presente mi piace, è così dolce con me in certi momenti, quasi paziente.
 
Il passato però ha tutta un'altra carica. Fosse solo perché è passato.
 
Così, ho usato una pausa pranzo per scrivere, anzi trascrivere, un frammento di ricordo.
 
In realtà, ho impiegato mezz'ora. Ma tutto l'altro tempo è servito per andare a misura.
 
Lima di qua, taglia di là, riduci gli aggettivi, accorcia un sostantivo, sopprimi una frase, castiga un'involuzione che pure ti piaceva.
 
Ho veramente finito un sabato ch'ero a Sanremo con Laura. Lei coi suoi problemi (veri), io coi miei (sciocchi) sospiri per l'eletto di turno... che naturalmente non mi ricambia.
 
"Che fai, lavori?" mi ha chiesto.
 
"No, scrivo" ho risposto. "Mi diverto."
 
Ed è vero. Scrivo per rivivere o vivere cose che sul momento sembravano del tutto normali.
 
21 settembre scorso a Sanremo
Una foto scattata da Laura
in una sera mite in cui abbiamo anche ballato
 
Comunque, ho sistemato ancora alcune cosette, mi sono iscritta al concorso e ho inviato il racconto.
 
Un elogio del mio cibo preferito e dell'unico vino che può accompagnarlo.
 
Clic.
 
Raccontino partito... e visto che avevo un secondo, ho guardato meglio il sito e letto qualcosa della società che lo patrocinava.
 
Salvo scoprire che era una casa... vinicola.
 
E che io avevo citato all'esattezza un vino che, se anche non era in diretta concorrenza, beh, certo non si adattava allo spirito dell'iniziativa. E poi mi ero dilungata sul cibo più che sul resto, per cui ero praticamente andata fuori tema. Perché non mi ero documentata.
 
Insomma, ho capito in un secondo che sarei arrivata ultima.
 
Che cogliona!
 
Poi però ho pensato che quel raccontino sarebbe potuto soltanto venire così.
 
I ricordi non si adattano a nessun parametro. Sono ricordi anche quando li strumentalizziamo per esigenze che non siano quelle del cuore.
 
E comunque il Vigna del Cristo rimane il lambrusco più buono del mondo, e la Federica [Cavicchioli], prima del piacere del buon vino che produce la sua famiglia, mi ha regalato una cosa più importante: un'amicizia tardiva tra persone che in realtà si sono rasentate in passato. Lei entrava al mio stesso liceo quando io ne uscivo, essendo più vecchia di 5 anni. Mai ci siamo frequentate, se non di recente, nell'ultimo anno, scoprendo che l'affinità non nasce dalle esperienze o dalle conoscenze comuni, ma è uno spirito che aleggia e che a volte si svela senza intenzione.
 
Così. Candido.)
 
LA FURBIZIA DEL TORTELLINO
Ci sono assenze che,  a volte, segnano più delle presenze.
I tortellini, per esempio.
La mamma, che pure è una cuoca sapiente, non li ha mai preparati. Fatto curioso per un ménage emiliano, generalmente cosparso di tagliatelle a matasse, maltagliati e quadrettini fatti con gli avanzi di pasta e ancora cartesiani riquadri da ripiegare ad ombelico intorno a un trito di lombo, prosciutto, mortadella, Parmigiano e, sì, noce moscata.
Non che si patisse voglia di minestre, specie in quelle domeniche di novembre quando la nebbia – allora fitta come organza e altrettanto elegante – saliva ad avvolgere il terrazzo del soggiorno. No, la “pentola” non mancava mai, col brodo d’un bel giallo torbido che faceva compagnia al lesso. Perché era quello il classico desinare. Il bollito. Da abbinare alla salsina di peperoni verdi e rossi d’uovo, oppure all’arroventato cren. Arroventato perché il rafano è piccante, quasi acre, con un odore pungente e circostanziato che risveglia impensati ricordi quando si spande in bocca come inchiostro nell’acqua. Per questo si sposa col lesso che notoriamente sa di poco (se non di niente), ma è caldo, giocondo e così buono che - con un pizzico di sale - per me batte anche il filetto.
In quel mare fumante nuotavano due soli tipi di pasta a casa Ferrari. Le mitiche “palline”, sferiche perfezioni di uova, midollo e Parmigiano la cui ricetta ci derivava dal lato Gandolfi-Cabassi della famiglia ad allietare ricorrenze quali il Natale, oppure la “pasta imperiale”, spugnosi cubetti di semola che persino l’Artusi si dilettava a sfornare. La nonna Beatrice ne aveva un debole perché la riportava alle sue nozze col nonno Mario. A noi bambine, per contro, non piaceva granché.
Ma da piccoli si hanno gusti diversi e il brodo stesso non ci faceva impazzire, neanche quando albergava i passatelli oppure la più modesta stracciatella d’uovo con le sue soffici isolette tondeggianti. No, io e mia sorella adoravamo la pastasciutta con la pummarola. Oppure il riso “al telefono”, con la mozzarella che filava, creando elastici ponti di formaggio tra la forchetta e le labbra. E c’erano le opulenti lasagne di pasta verde oppure i tortelloni di magro che tuttavia erano riservati al venerdì, quando la carne cedeva il passo all’odiato nasello con la pelle.
I tortellini, però, latitavano. Mamma appunto non li sapeva fare né voleva imparare, e comprarli non era comune, visto che – tanto – si mangiava altro.
Dovetti sposarmi, anche con esiti discutibili, perché questi grandi assenti entrassero prepotentemente nella mia vita.  Mia suocera che, avendo il nome di una tassa, certo non poteva brillare per simpatia (infatti non lo faceva), preparava un’ottima sfoglia, e i suoi tortellini, oltre a essere minuscoli, erano ruvidamente saporitissimi.
Ricordo la prima volta in cui li assaggiai. La pasta sottile ma sostenuta. Il gusto piccante del formaggio stagionato e poi quello rotondo, quasi barocco, della mortadella. La lenta carezza del brodo sulla lingua.
 
Restai folgorata.
Purtroppo, alla lunga, mi folgorò anche lei, la suocera, e quando il matrimonio finì (because three is a crowd), giusto un rimpianto mi rimase.
Loro.
I tortellini.
Ma tosto rimediai con quelli della Piazza. Non erano migliori. Ma migliore era la libertà. Da allora ne compro a chili, avendoli trasformati nel mio piatto del cuore, quasi cult. Quel comfort food alla modenese che, meglio della Nutella, mi consola quando il lavoro mi ammazza, il capo mi cazzia, l’amore mi elude, l’amica mi delude oppure mi succedono tutte queste cose insieme.
Tristezza, contrarietà o sciagura… niente resiste dinanzi all’intrinseca furbizia di un buon turtlein. E pazienza se il brodo è “matto”. L’importante è che lo accompagni un lambruschino. Meglio se Vigna del Cristo, temperatura frigo! Meglio ancora se viene a cena qualcuno a ricordarmi, tra una chiacchiera e l’altra, che la vita non è bella per le sue rare, stravaganti straordinarietà ma per le sue quotidiane micro-letizie.