venerdì 13 settembre 2013

A Morning Friend

(Le amicizie fondamentali - quelle destinate a durare malgrado bisticci, incomprensioni ed equivoci - me le ha sempre portate il mattino.
 
Anche Landa [Grazioli] è una "morning friend".
 
Come il mattino, è fresca, pulita fuori e dentro, e così luminosamente tersa da apparirmi quasi azzurra nell'immagine mentale che conservo di lei.
 
Sempre mi fa ridere, a volte mi commuove, spesso mi avvince, invariabilmente mi fa incazzare (come quando parte in quarta, seguendo l'impulso): una VERA amica.

Anche questo è un racconto del 2010, apparso originariamente all'inizio di quest'anno nell'antologia degli ex Alumni della Scuola per Interpreti e Traduttori di Trieste http://issuu.com/sslmit30/docs/sslmit30.)
 
Landa, Lorenza & Ghiga ...
 riflesse nello specchio del soffitto
al Museo delle Figurine
di Modena!

[Foto scattata - come si evince :) -
da L'orenza D'estro, Signora degli Apostrofi,
in un corto, indimenticabile weekend a Modena
quando correva l'anno 2011!]
 
Il posto dei fiori
 
Era una lezione dell’Argenton.
 
Ci trovavamo nell’aula al pianterreno, quella dopo lo stanzino dei bidelli e la macchinetta del caffè. Probabilmente la identificava una lettera dell’alfabeto ma di quale lettera si trattasse non ricordo. Entrando, si scorgeva l’enorme cattedra di ciliegio, col ripiano di finto-vero cuoio la cui stagionatura era in parte dovuta al tempo e in parte a quel democratico miscuglio di polvere, sudiciume e segnacci di penna che uniforma la maggior parte delle scuole statali.

La parete subito dietro ospitava una lunga lavagna bordata di legno, su cui il docente di turno vergava nome e cognome - all’inizio - e quindi una quantità di informazioni che da inutili spaziavano a mediamente utili. Quelle davvero utili venivano date a voce, per una strana forma di perversione che ancora mi sfugge, e noi matricole (spesso meteore) ci affannavamo a prendere appunti su quadernoni a righe o a quadretti che per un certo tempo ho anche conservato… prima di iniziare quell’infinita serie di traslochi che avrebbe radicalmente cambiato la mia vita e le mie consuetudini.
 
Conservare mi piace sempre ma lo faccio secondo criteri più selettivi mentre prima l’importante era tenere, tenere tutto, gelosamente, quasi che il passato, in questo modo, non potesse fluttuare, scomparire, dissolversi ma solo rimanere, perdurare, riproporsi uguale, come cristallizzato nel tempo. In realtà le cose ci aiutano sì a ricordare meglio ma ci imprigionano anche col loro fascino, trasformandosi in elementari feticci, pertanto è salutare sottrarsi a questa tirannia, quanto meno è così che la penso adesso, ma è solo il punto di vista di una persona che annega tra scatole di memorabilia. Così che ho ancora i quaderni delle elementari, con le aste tremolanti gialle della prima e le frasette in bella calligrafia che mi dettava la maestra Belluzzi in seconda mentre confesso di aver recentemente gettato, senza rimorso, gli appunti di Elementi Clinici e pure quelli di Organizzazioni Internazionali.

Medici ne vedo e frequento sin troppi, ben più simpatici di Melato tra l’altro, e se devo andare all’ONU so come fare, pertanto ho lasciato che il sacco di plastica trasparente della spazzatura, di un bel giallino chiaro, si gonfiasse come un piccolo dirigibile bitorzoluto e atterrasse anche abbastanza morbidamente nel cassonetto antistante le Generali di viale Reiter a Modena. Sopra c’è un platano maestoso, anche d’inverno quand’è spoglio, per questo l’ho eletto mio cassonetto preferito. Poveraccio, adesso che mi è presa questa smania di sgombrare, è sempre pieno a martello ma ognuno ha i suoi problemi, suppongo, non posso preoccuparmi anche di questo.

Quanto meno, non voglio farlo… non più. Ma ai tempi, quand’ero una sgallettante studentessa del primo anno, mi preoccupavo veramente di tutto, ragion per cui sussultai quando, quel giorno di novembre, in piena lezione di inglese commerciale, con l’Argenton che snocciolava fior fior di frasi fatte che mai più avrei dimenticato, si aprì la porta dell’aula con un fragor di tuono e si stagliò sulla soglia una ragazza rilassata e sorridente che, incurante del ritardo, richiuse l’uscio e si portò in fondo alla classe, dov’erano rimasti gli unici posti liberi.
 
In fondo c’ero anch’io perché, col fatto che sono molto alta e ho troppi capelli (Taylor mi definì shock-headed in un’occasione e la presi anche bene), sono sempre stata destinata alle ultime file sin dall’asilo delle Suore di Carità, e certe abitudini non si perdono solo perché lo vogliamo. Pertanto nell’ultima fila sollevai lo sguardo dall’immancabile quadernone degli appunti e incrociai quello di Landa Grazioli.
 
Dico nome e cognome perché lei si presentò subito ma ciò non significa che io compresi altrettanto in fretta. “Grazioli” era talmente nostrano che non mi diede da fare. “Landa” invece mi mandò nei fagioli perché non mi era mai capitato di conoscere nessuno che si chiamasse così. Chiesi di ripetere ma fu anche peggio perché prima capii “Panda” e poi “Randa” e per concludere “Manda”, e alla fine l’Argenton ci cazziò perché parlavamo, così abbassammo tutte e due la testa, fingendo di scrivere la più compita delle business letters.
 
Plymouth, 20 November 1989
 
Dear Sirs,
 
[indentation] thanks for your quotation of 15 November 1989.
 
[indentation] Since the items are still in stock, would you kindly….
 
La testa l’abbassammo per modo di dire in realtà perché, se io avevo un crespo cespuglio di ricci, Landa aveva una specie di nido che ciappi e pettinini lottavano per tenere insieme. Praticamente si era tirata su i capelli senza veramente pettinarli e li aveva bloccati più con la forza del pensiero che con altro. Il risultato era una crocchia improvvisata che, se descritta, fa schifo mentre, se vista, normalmente piace.
O forse piaceva a me perché Landa è bella. Anzi, meglio che bella. Charmante. Con occhi piccoli ma vivacissimi e languidamente incassati, un naso interessante e sottile, e quel sorriso che solo lei sa fare, bianco e pulito, come un ciottolo di fiume. Per uno strano miracolo divino, il corpo si adatta al viso, morbido e ossuto a un tempo, con spalle importanti, un decolleté intrigante e una vita che sta in due mani. E poi c’era il look originalissimo, orecchini spaiati e abiti freschi e colorati che sembravano sempre un po’ masticati ma che addosso a lei stavano benissimo. Alle scarpe teneva di meno, infatti scoprii tempo dopo che in via Gatteri le appendeva al muro, a lato dell’armadio, una bella punizione anche per uno zoccolo del dottor Scholl, direi!

Comunque, è sempre stata una delle persone più affascinanti che io abbia mai conosciuto e anche adesso, quando la guardo, mi sorprendo a pensare che dev’essere bello  nascere così, con quella bellezza autentica e profonda che non presuppone sforzo né artificio. Se non sono mai stata invidiosa è solo perché le ho voluto bene sin dal primo momento, altrimenti credo che avrei patito nella sua ombra perché c’era qualcosa di gioioso e stupendo in lei che di default attirava chiunque, azzerando il resto. E il resto erano le persone che la circondavano. Il fondale.

Landa attirò anche me quel giorno in aula, infatti ricordo tuttora il maglione blu, bianco e tabacco, di fattura artigianale, che indossava. Diventammo facilmente amiche, forse perché avevamo i capelli più assurdi della Scuola o perché eravamo quasi conterranee, lei mantovana e io modenese, quindi molto simili nei modi, nell’approccio e addirittura nella parlata. Con tutto che aveva un ottimo inglese e un altrettanto ottimo francese, e un livello culturale molto elevato, Landa non era secchia, rigorosamente ligia come me, che studiavo tutto, anche l’etichetta dell’acqua oligominerale della mensa. Tuttavia rendeva bene perché metteva passione in quello che faceva, e agli esami dava sempre il massimo, perché si esprimeva con vigoria e colorita proprietà, dando lustro a qualsiasi argomento, per trito od ordinario che fosse. Se anche avesse parlato della parte terminale di uno scopino del cesso, tutti l’avrebbero ascoltata compunti, annuendo con impegno e aspettando inattese e provvide rivelazioni su ciascuna delle singole setole.
 
Che è poi la definizione di fascino, credo. Obnubilare al punto da avere campo libero.

Per quanto ne so io, le riuscì sempre tranne quella volta.
La volta, invero fatale, in cui m’ispirò uno dei pochi, veri atti di coraggio della mia vita.

Mi riferisco all’esame di Predonzani, quando eravamo già al secondo anno.
 
Predonzani era un ometto basso, stizzoso e rubizzo, con occhiali di osso alla Febo Conti e giacche confezionate a Praga (a giudicare dal taglio), che a un certo punto aveva sostituto il professor Saraval alla cattedra del corso biennale di lingua italiana. Non aveva carisma, anche se ricordo tuttora le sue lezioni. Per forza, parlava di scrittori che amo, e le ricordo per questo, per “interposto merito”. Come tema per la tesina che ci diede da sviluppare nell’anno, scelsi Pavese che anche lui adorava, e si stabilì una connessione. Durò quanto la Bella Estate: pochissimo. Ancor meno di un Falò.
Dagli altri Predonzani era tutt’al più tollerato perché era acido e banale, non aggiungeva niente a nessuno. Il suo unico pregio, quello che tutti gli riconoscevano, era di aver ridotto il programma d’esame di una buona metà, avendo egli asserito davanti all’intera scolaresca di non essere minimamente interessato agli argomenti sviluppati dal suo predecessore. Si parlava di un intero anno di corpose lezioni. L’annuncio, naturalmente, aveva generato una hola e sovrano buonumore perché di colpo l’esame era diventato affrontabile, quasi umano. E siccome di umano c’era pochissimo alla Scuola Interpreti di Trieste, Predonzani aveva conosciuto un rapido, fugacissimo momento di popolarità.

Lo chiamo per cognome perché non ricordo il nome di battesimo. Col senno di poi non so nemmeno se ne avesse (meritato) uno.
 
Comunque, giunse il giorno dello scritto, il classico tema. I titoli erano tremendi, scelsi il più decente e lo sviluppai faticosamente perché comunque non mi piaceva. Avevo sperato tanto in uno spunto letterario, invece niente.

Consegnai scontenta, e mi tormentai per giorni finché Predonzani in persona non mi assicurò che avevo preso trenta. Sul momento restai di stucco perché, per quanto fossi brava a scrivere, certo non avevo fatto un tema mirabolante. Poi, mi rallegrai perché non ho mai avuto regali nella mia carriera scolastica, mi sono sempre guadagnata tutto studiando come una bestia, pertanto un colpo di fortuna poteva anche starci e sicuramente non ci avrei sputato sopra.

Studiai molto per l’orale, come sempre, e mi presentai con grande anticipo, perché mi aiutava a concentrarmi. Si presentò presto anche Landa, segnandosi sulla lista subito prima di me. L’esame si teneva al piano di sopra, nella piccola aula che si apriva al di là del vetusto laboratorio linguistico. La commissione era formata da Predonzani, Federica Scarpa e David Katan. La Scarpa, che soleva sfoggiare incongrue calze a rete sotto la gonna scozzese, era un’asciutta assistente, molto “no fuss”, cui successivamente spettò il compito di sostituire la Cortese, prof d’italiano del secondo biennio, impegnata a portare avanti una tardiva gravidanza. L’anglo-iraniano Katan, il cui corso ora mi sfugge, era very attraente, con languidi occhi infossati e un naso talmente aquilino da ricordare uno spinnaker spiegato. Era più bello che simpatico e quel giorno non si smentì.
 
L’esame ebbe inizio, e Landa entrò per prima, raggiante e sicura di sé. Passarono pochi minuti, poi si udì lo strascichio di una sedia che veniva allontanata bruscamente. Seguì uno strillo e subito dopo la porta si spalancò. Ricordo di aver sobbalzato, senza capire.  Come gli altri, ero in fila lungo il corridoio, in attesa di entrare, per cui o stavo ripassando – ma non credo - oppure camminavo avanti e indietro per calmarmi oppure pregavo, come facevo sempre prima di un esame. Pregavo di più una volta. Qualsiasi cosa stessi facendo, smisi perché Landa piombò fuori dall’aula, piangendo e strepitando come un capretto sgozzato.
 
Mi si attaccò al braccio, e gridò: <<Ghiga, Ghiga, glielo devi dire!>>.
 
<<Dire, che cosa?>> replicai sconvolta.
 
Ma Landa piangeva troppo, non si capiva un accidenti.
 
<<Dire, che cosa?>> ripetei, mentre cercavo di calmarla. <<Che cos’è successo?>>

La Dora Baltea in piena mi avrebbe rovesciato addosso meno acqua.
 
Cambiai tattica, diventai secca. <<Landa, diavolo, mi spieghi?>>
 
<<A-a-aveva promesso che non ci avrebbe chiesto il programma di Saraval. Invece adesso lo pretende!>>

<<Che cosa?>> Sgranai gli occhi. <<Ma è vero, lo aveva promesso!>> Ero indignata. Preoccupata, anche, perché quella parte non l’avevo studiata nemmeno io. Perché avrei dovuto?
<<Mi ha c-c-cacciata>> singhiozzò Landa. <<Mi ha cacciata e ha detto che mentivo! E la Scarpa mi ha riso in faccia e altrettanto ha fatto quel pirla di Katan. Glielo devi dire, Ghiga! Glielo devi dire!>>

Non so che cosa mi attraversò in quel momento. So soltanto che provai un impeto di rabbia feroce. Ero molto protettiva nei confronti di Landa perché le volevo bene, e avevo ancora un’età in cui pensavo di poter sfoderare la spada, partire all’attacco, duellare… e, sì, vincere.

Entrai nell’aula brandendo soltanto il mio povero libretto universitario. Predonzani sorrise, io rimasi seria e lo fissai di rimando, rivolgendogli un cenno. Dedicai un “salve” agli altri due, e “salve” è un saluto che riservo alle persone che non m’interessano, perché non sa di niente, come l’olio Sasso.
 
La prima parte dell’esame andò bene perché ero forte in storia e anche in letteratura, poi Predonzani rispolverò effettivamente il programma di Dino Saraval, e io mi bloccai. Avrei potuto improvvisare: avevo una cultura insolita e diversificata che mi aiutava nei momenti più impensati, e se solo vi avessi attinto con un pizzico di creatività, me la sarei cavata. Sì, avrei potuto improvvisare e sentivo anche che mi sarebbe convenuto, perché Predonzani sapeva essere bizzoso. Ma mi scattò qualcosa e uscì sotto forma di protesta.

<<Ma lei aveva detto che…!>>

Non mi lasciò nemmeno finire, disse che m’inventavo le cose, proprio come la compagna che mi aveva preceduta. Che lui non aveva detto nulla, né tantomeno promesso. Che tutto il programma era fondamentale, specie quello del suo predecessore, e andava studiato con la massima cura. Che noi eravamo lavative e che io in particolare avevo addirittura preso diciotto allo scritto, pertanto meglio che tacessi.
Mi venne un colpo.
<<Diciotto?>> belai come la pecora Dolly dopo la clonazione. E ripartii, di nuovo leone per un minuto. <<Ma lei mi aveva detto che avevo preso trenta!>>
 
<<Trenta, un corno!>> Adesso il naso di Predonzani ricordava un San Marzano appena raccolto. <<Ha preso diciotto. Ed è già tanto, considerato che mi ha messo un condizionale dopo un “se”!>>

Ora, tutto è possibile nella vita, anche che io mi sia bevuta il cervello, mettendo un condizionale dopo un “se”, ma diciamo che gli errori di sintassi non sono esattamente il mio pane, pertanto restai immobile sulla sedia, come trafitta da uno spillo gigante, mentre la brevissima e già precaria connessione che avevo stabilito con quell’ometto unto in faccia s’interrompeva di colpo per non ricrearsi mai più.

E comunque, se anche ero caduta sul condizionale, perché dirmi prima che avevo preso trenta e non tre come avrei meritato, allora? Di preciso, quando era stata pronunciata la menzogna?

Perché una menzogna almeno c’era stata.
Non ricordo bene che cosa dissi, forse che sarei dovuta ritornare perché non ero pronta. Fatto sta che venni cacciata con ignominia, in un clima tuttavia festoso per l’intera commissione d’esame, e lasciai l’aula, non so ancora come.

La Golden Girl di Modena, la miglior studentessa dell’intero liceo linguistico Mercurio, quella che aveva vinto quattro borse di studio consecutive della Cassa di Risparmio di Modena negli anni Ottanta, l’unica iscritta a Trieste del mio anno ad aver superato quindici esami nella sessione di giugno il primo anno, era stata cacciata dall’esame di italiano che, tra tutte le materie, sarebbe dovuto essere in assoluto il suo cavallo di battaglia. Non solo, aveva addirittura preso diciotto allo scritto, un voto di cui praticamente non conosceva nemmeno l’esistenza fino a quell’esecrabile momento!

Neanche se mi avessero scrollata, pizzicata o finanche presa a calci mi sarei potuta capacitare che una cosa del genere stesse succedendo, e succedendo a me.

Non piansi, non potevo: ero una statua di traumatizzato sale, e come tale ero muta, gelida, paralizzata.
 
Fuori venni salutata come un’eroina, e Landa mi baciò e abbracciò, e io provai allora un’emozione che credo fosse orgoglio, perché glielo avevo detto eccome, a Predonzani. Glielo aveva detto che si era rimangiato la parola, avevo difeso la mia amica e la sua posizione, ed ero stata persino cacciata!

Di quell’ultimo aspetto non ero punto contenta e nemmeno sapevo come avrei fatto a spiegarlo a mia madre. Tanto per incominciare, dubitavo che avrebbe capito, non perché non fosse comprensiva ma perché sapeva quanto m’impegnassi e non avrebbe semplicemente creduto alle sue orecchie. Mi ero beccata due insufficienze in francese alle medie, in prima credo, e un solingo quattro in fisica al liceo (in quell’occasione ero svenuta e la bidella Elvira si era presa uno spago terribile). Erano i miei risultati peggiori, e non si erano più ripetuti.

Tuttavia, glielo aveva detto, a Predonzani!

Ma ciò non toglieva che io, la regina dell’establishment, delle regole e del bon ton in pillole, buongiorno-buonasera-prego-grazie, non-tagliare-il-pane-col-coltello, mai-fumare-per-strada, vietato-truccarsi-in-pubblico, non-bigiare, guai-a-salire-sul-bus-senza-biglietto, mi fossi scontrata con una (piccolissima) autorità che a quel tempo aveva peraltro (grande) potere sulla mia vita, uscendone totalmente scornata.
La cosa peggiore, in realtà, fu che i candidati successivi, glissando sul doppio incidente (Landa? Ghiga? Chi le ha viste?), se la cavarono con una pioggia di trenta x trenta, anzi di novanta! Nessuno fiatò, nessuno protestò, nessuno contestò, nessuno rinfacciò, nessuno osò anche solo affrontare l’argomento… e Predonzani, che doveva aver capito di non poter rischiare una terza Orlanda Furiosa (uso il femminile perché alla Scuola eravamo prevalentemente donne), tutto chiese a quelle furbette (Dio, come le invidiai!) fuorché il programma di Saraval.
Ero a pezzi quando tornai a casa. Mamma capì che cosa mi fosse capitato ma solo perché le feci il disegno. Mio padre mi spedì un biglietto su cui aveva mestamente vergato con la sua bella calligrafia da pirata: “Dopo la sconfitta, c’è la vittoria. Winston Churchill”. E se lo diceva Churchill…

Quanto a me, studiai il programma di Saraval, ripassai alacremente quello di Predonzani e mi ripresentai alla sessione successiva. Landa passò con 28 o 30, non ricordo più. Io con 24, perché presi 30 all’orale e Predonzani fece la media matematica col misterioso 18 dello scritto, pertanto 18+30:2=24.
 
Ci restai malissimo, naturalmente, ma incassai. Avevo avuto le palle, cercai di farmi bastare quelle.

Agli occhi di chi mi frequenta, sono o sono stata coraggiosa in altre occasioni. Ma io mi conosco, so che cosa mi costa e che cosa non mi costa. Pertanto, se definisco il confronto con Predonzani uno dei pochi atti di autentico coraggio della mia vita, ebbene non esagero né mento. Le cause perse in partenza non fanno per me, consumano energie che preferisco destinare altrove. Io affronto battaglie che ritengo di poter vincere, altrimenti nemmeno mi scomodo. Scelgo rivali affrontabili, obiettivi conseguibili, non sono la donna bionica, sono una persona che deve poter sopravvivere, come tutti. E non sono stupida: non vado a cacciarmi nei guai se posso evitarlo.

Parlare in pubblico, protestare, anche con energia, fare l’istrione o mettermi generalmente in mostra sono azioni semplici, mi vengono bene e non m’imbarazzano. Non soffro nel prendere la parola per prima o nel riprenderla dopo un lungo silenzio, né mi pesa argomentare. Pazienza se vengo contraddetta o messa in minoranza. Fa parte del gioco. Non ho paura di avere torto, ho paura di non farmi valere, di non impormi abbastanza, di fare brutta figura, di prodigarmi inutilmente.

Che è poi quanto è accaduto quel giorno con Predonzani. Ho parlato e sono stata messa a tacere, anche molto facilmente. Ho detto la verità e sono stata punita, tra l’altro in maniera clamorosa. E senz’altro ho fatto brutta figura, malgrado l’impegno. Era una battaglia che sentivo di non poter vincere e, stranamente, l’ho affrontata lo stesso, soffrendo terribilmente. Se lo stesso destino fosse stato riservato ad altri, avrei assimilato meglio, credo. Ma l’unica a vedersi decurtare il voto sono stata io, e sebbene nell’ordine delle cose che io abbia preso 24 o 30 all’esame di Predonzani non abbia importanza alcuna (il voto conta solo tra ragazzi), laurearsi con 108 invece che con 110 - perché la mia media, già abbassata quel giugno da un penoso 21 in traduzione verso l’italiano, era stata ulteriormente limata e portata a un poco brillante (per i miei standard) 27 complessivo da un inefficace beau geste -  rappresenta tuttora un sacrificio che ancor oggi mi sorprendo e mi rallegro di aver saputo fare. Sebbene alla Scuola non sia mai stata la media a contare. Non perdere l’anno, ecco la priorità del primo biennio. Uscire, ecco la priorità del secondo biennio.

Resta il fatto che Landa ha sempre tirato fuori la mia parte migliore.

Anche se a volte il suo rigore, che pure ammiro, è stato magari eccessivo.

Il secondo anno frequentavo un ragazzo che si chiamava Valter e che è stato uno dei grandi amori della mia vita. In realtà, Valter era un uomo, aveva trentun anni, undici più di me, era biondo e molto triestino, gaudente e gentiluomo, bello ed elegantissimo, soprattutto allegro e d’intelligenza vivace. Non ho mai più incontrato nessuno come lui.

Se mangio il pesce, che all’epoca detestavo, lo devo a Valter che incominciò con una timida vongola fino a condurmi all’arrogante e saporoso riccio. Anche il vino, se lo apprezzo, lo devo a lui, fermo e insistente quando si trattava di farmi assaggiare le deliziose etichette del Friuli. Valter mi fece il regalo più favoloso che io abbia mai ricevuto, lo storico cane Freddo detto Bamba. E sempre Valter mi avvicinò al profumo che porto tuttora, Calyx. A dire il vero, uso solo quello. Non l’ho mai cambiato per la semplice ragione che non me ne piacciono altri.

Perché sia finito un amore così grande per un uomo così fondamentale, non saprei dirlo. Un giorno mi accorsi, semplicemente e dolorosamente, di essere andata oltre, e dovetti lasciarlo perché sentivo di non contraccambiarlo più.

Fui fulminea, come meritava. Fu fulmineo anche lui: si sposò sei mesi dopo con una ragazza molto chiacchierata e bella, bionda (“vera”, come sarebbe stata lesta a puntualizzare la Rivatelli) tanto quanto lui.

Provai un forte shock, inutile negarlo, e mia madre, cui non è mai mancata la lingua, decretò all’istante che “avevo preso la guazza”, indelicata espressione modenese che sta a indicare quando un fidanzato mollato si consola subito, facendoti fare la figura dell’idiota.

Bene, immagino anche di aver preso la guazza. Meglio idiota che infelice, come avrei scoperto anni dopo con un altro uomo, il mio maestro di vita… in negativo.

Alla fine del secondo anno di Trieste, tuttavia, il mio amore per Valter era in full swing, e come gli altri compagni di corso già mi esercitavo in improbabili e macchinose consecutive in biblioteca. Il tutto consisteva nel leggere l’articolo di qualche vecchia Gazzetta e prendere rapidi appunti che, a fine lettura, ti avrebbero rimandato al testo in fase di traduzione attiva o passiva.

Naturalmente, l’abilità stava nell’appuntarsi le cose quanto più velocemente possibile, ragion per cui era d’obbligo per ogni interprete in erba – perché chi si iscrive alla Scuola è convinto di voler fare l’interprete, mai il traduttore – inventare simboli astrusi che riassumevano concetti complessi o ricorrere a tecniche pseudo stenografiche per ricostruire l’ipotetico speech. Per “fabbrica” facevo un piccolo ricciolo (di fumo) mentre per “foresta” disegnavo tre aste. “Evoluzione”, “evolversi”, “evoluto” si riassumevano in una voluta mentre “sviluppo”, “svilupparsi” e “sviluppato” si ricollegavano a un fiorellino, perché il fiore è per me principio di tutto, è vita, è amore, è crescere bene.

Gli argomenti legati alla sessualità, li rendevo con un grazioso califfo… su questi mi ero specializzata, tanto che nei bigliettini a Landa o alla Lorenza Destro, che stavano al gioco, li trasformavo in buffi cartoon, con tanto di occhi, bocca e naso. Un fumetto racchiudeva il messaggio di turno, abbinato alla stagione o alla circostanza. Per esempio, c’era il famoso “Califfo di Primavera”, con le foglioline e tutto. Per non parlare del “Califfo Volante”, con le alucce sagomate e le nuvolette. A distanza di anni, non so davvero perché quegli uccelli con la faccia ci facessero ridere così tanto. Erano sciocchi e puerili, suppongo. Volgari, no… anche se la Sartore, cui un giorno mandai un biglietto califfato visto che sedeva in prima fila e speravo in una reazione divertente, inorridì sulla sedia quando lo aprì e vide il soggetto raffigurato. Non mi parlò per una settimana. O era un mese? In realtà, la Sartore mi parlava pochissimo, per cui potrebbe essersi trattato anche di un anno o due. A me non stava antipatica, anzi. Ma non legavamo.

Personalmente, di antipatie, ne ho sempre avute poche perché vivo in un mondo mio e in quel mondo ci entrano solo quelli che mi vogliono bene. Gli altri… facciano un po’ come credono. So per contro di aver irritato molte persone a suo tempo ma il più delle volte non me ne accorgevo neanche, ero troppo piena di me. Se questo può consolare i miei detrattori, tanto la Scuola prima quanto la vita successivamente mi hanno pettinata a dovere, pertanto l’orgoglio di un tempo si è tinto di prudenza, diventando semplice dignità, quando ancora riesco a conservarla.

Ma allora… allora era un vortice di energia ed esuberanza. Volevo fare tutto! Studiare, tradurre, interpretare, mandare stupidi califfi volanti e – perché no? – cimentarmi con nuove esperienze.

A quelle m’iniziò Valter che di mestiere faceva il rappresentante per una grossa cartiera, la Burgo. In passato aveva collaborato con un’azienda grafica di Trieste che mi pare si chiamasse Artecarta (cito a memoria, potrei sbagliare). Tale azienda produceva o comunque smerciava la famosissima “carta da corsa”, che era poi la carta grigina e leggermente patinata su un lato che gli interpreti veri e presunti tagliavano in formato A5 (roughly) e quindi utilizzavano a spessi blocchi, fermati da larghe pinze nere, per gli appunti della consecutiva.

Siccome ero sempre squattrinata, un po’ perché la paghetta che ricevevo da casa era limitata, un po’ perché già allora avevo le mani bucate, anzi avevo buchi al posto delle mani, m’interrogavo su come arrotondare, e Valter mi diede l’idea di creare un piccolo business con la carta per l’appunto da corsa. Praticamente, lui l’avrebbe comprata da Artecarta e io l’avrei portata a scuola e rivenduta ai compagni secondo gli ordinativi.  Mi sembrò un’ottima idea, e piacque anche a Daniela Pazzelli con cui all’epoca dividevo l’appartamento di  via Hermet, successore di via della Tesa. Daniela faceva interpretazione ed era più grande di noi di quei 3 o 4 anni. Mora e molto carina, con un visetto mobilissimo a forma di cuore, vestiva alla moda e si faceva notare per la parlantina sciolta, l’estrema disinvoltura e i rapidi innamoramenti e disamoramenti.

Col fatto che usava la carta in questione ed era abile nel trattare col prossimo, Daniela si offrì di partecipare all’iniziativa. Valter, però, che non aveva trentun anni per niente, preferì evitare. Le società, diceva, andavano bene per gli altri, a lui personalmente davano l’orticaria. Non volendo rischiare nulla del genere, dissi a Pazzelli che non ero interessata. Daniela la prese male e, non appena consegnai la prima partita di carta (credo si trattasse di 5 o 6 blocchi in totale), corse da Landa, perché sapeva che eravamo molto amiche, e le riferì che io, strega e magari anche puttana, lucravo sui compagni di corso.

Apriti cielo! Landa mi rivoltò come un calzino sintetico, accusandomi aspramente di sfruttare gli amici. Le feci notare che il rincaro era molto contenuto, che solo sulla durata si sarebbe tradotto in un effettivo guadagno e che comunque avrei usato il ricavato non per comprarmi un Trilogy (magari) ma per pagare – che so? – una frazione della bolletta del gas. Lei disse che era comunque orribile, che se avevo bisogno di soldi avrei potuto chiederli a lei.

Mi vergognai come il classico cane e automaticamente misi in discussione tutto quello che avevo fatto perché, se Landa che era l’integrità fatta persona, aveva gridato allo scandalo, allora, sì, mi ero macchiata di una colpa infamante. Cospargendomi il capo di cenere, riandai da tutti i miei “acquirenti” e restituii a ciascuno di loro qualcosa come duecento lire. Savella, che era un ottimo quasi-interprete, mi disse che il prezzo era già buonissimo così, non voleva altro. A una persona avevo regalato il blocco perché mi stava simpatica, così che l’operazione avvenne complessivamente sotto costo, e ci rimisi di mio. Pazzelli restò soddisfatta perché mi aveva umiliata, Valter rise e disse che dovevamo crescere, a me rimasero sul gobbone blocchi su blocchi che, disgustata, ammucchiai dietro la cuccia di Bamba (sperando ci pisciasse sopra), e il cerchio si chiuse.

In realtà, se ci penso adesso, mi vergognai di qualcosa che nella vita si chiama commercio. Forse non avrei dovuto esercitarlo in ambito scolastico, d’accordo. Ma sta di fatto che dall’ingrosso al dettaglio il prezzo normalmente si accresce per via del servizio che viene fornito. In negozio le cose hanno un prezzo che in magazzino non hanno. Ma io ero andata a prendere la carta alla fonte, l’avevo trasportata, l’avevo divisa, mi ero occupata di prendere gli ordini, avevo anticipato i soldi di tasca mia ed effettuato personalmente le consegne. Avevo fornito un servizio, anche se molto piccolo e primitivo.

Oggi, se Landa mi tornasse a sgridare, le farei notare che da Artecarta avevo spuntato un prezzo – grazie a Valter - che gli studenti della Scuola non avrebbero ottenuto mai. Certo, avevo tentato di guadagnare qualcosina. Ma allora dovrei vergognarmi anche adesso, quando markuppo?

Col cavolo. Lavoro qualcosa come dodici ore al giorno minimo, offrendo un servizio curatissimo e una passione che, nonostante il tempo, rimane invariata. Mi documento, studio, elaboro e ancora traduco con creatività e brio, fornisco idee che ad altri non vengono, recluto persone che molti neppure conoscono e generalmente creo programmi e incentive di altissimo profilo. Tutto questo si paga, e sinceramente non ci vedo più niente di immorale.

Ma Landa ha questo effetto su di me. E’ talmente impetuosa e pura da farmi sentire sempre finta, mediocre e inadeguata, perciò desiderosa di migliorare, anche quando magari non sono poi così male.

Poi c’è un’altra cosa. Per quanto ci provi, non riesco mica a dirle di no.
 
Come in settembre, quando ho dormito da lei a Livorno (da anni abita lì) prima dell’incentive della Piaggio a Varramista. Sono arrivata tardissimo, con un treno così lento da andare a pedali. Mi è venuto a prendere il primogenito di Landa, Dionisio, che adesso è un gigante ma che io ricordo piccolo e maleodorante di pannolino, tanto da meritarsi il nomignolo di “Puzzo”, coniato dai genitori in persona. Mentre lasciavamo la stazione, ho telefonato a Landa che mi ha detto:  <<Tu non sai! Ti ho preparato un piatto sopraffino! Rimarrai incantata!>>. Dionisio, da parte sua, ha confermato. <<Io ho già cenato, scusa se non ti ho aspettata. Ma, vedrai, è veramente buonissimo”. Io, santa bocca emiliana, mi sono naturalmente rallegrata perché avevo una fame birbante.

Fatto sta che, al mio arrivo, ho avvertito in effetti un odorino squisito. Landa mi ha baciata e abbracciata, abbiamo stappato un vinello e via, di corsa a tavola. Il mio appetito è schizzato alle stelle. Poi è arrivato un pentolone, il coperchio si è sollevato ed ecco apparire… arg, la coda di bue!

<<Coda di bue!>> ho sentito Landa declamare, tronfia come un tacchino prima del Ringraziamento. <<Una delicatezza! Sentirai che sapore!>>

Io, che non mangio orecchie né zampetti né interiora né occhi né creste o bargigli o cotiche o trippa o rognoni, ho quasi avuto un malore, perché naturalmente nella lista dei NON DESIDERATA figurava anche lei, la dannata coda.

<<Lascia che ti serva!>> ha continuato Landa cinguettante.

E quando il cucchiaio da portata si è calato sul mio piatto, ho capito che il mio destino si era nuovamente compiuto. Stavo per mangiare una coda.

<<Ehm, pochino>> ho gracchiato. <<Sai, il viaggio mi ha stonata.>> Il che, detto da una che potrebbe leggere chiusa dentro al cruscotto di una Mini senza vomitare, fa veramente ridere.<<Questo ti rimetterà in sesto!>> è stato il pratico commento di Landa.

Deglutendo, ho brandito la forchetta e infilzato un minuscolo cilindretto di carne…

… che è risultato anche discreto, se non fosse che al centro presenta un cordoncino duro e compatto che ti ricorda che il cilindretto in questione è una dannata coda di bue e che tu vorresti mangiare altro, e che cazzo!

Alla fine gliel’ho detto, a Landa, che ero stata lì per svenire ma lo stesso avevo affrontato il piatto, e lei ha riso e ho riso anche io, perché è bello avere dei limiti ed è bello poterli superare.

In un vecchio biglietto che mi mandò anni fa, Landa salutò scrivendo: “mio antico affetto, mia roccia, mia quercia.” E parlava di me… che ancora inciampo quando metto i tacchi e che posso tutt’al più sorreggere un ombrello pieghevole, se è molto leggero!

Una volta, mi disse al telefono che non avevo idea della forza che le davo.

Eppure, è la sua forza ad aver ispirato a me cose grandi e importanti, cose che sono tuttora dentro di me.

Landa ha un nome che le calza malgrado tutto. Una landa è generalmente arida e poco fertile. Ma resta terra. E Landa è senz’altro terra… di castagno, però. Quella buona che piace a tutti i fiori del mondo.

Perché c’è più vita in lei che in una spiaggia di Riccione a Ferragosto.

(E l’unica a non saperlo ultimamente è proprio Landa.)

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