giovedì 12 settembre 2013

Nata sotto il segno dei pesci (incluse le triglie)

 
(Un'altra storia modenese, un po' datata ma cara. Sono orgogliosa della mia autonomia ma devo ammettere che è molto più comodo dipendere, quanto meno mentalmente. Si fanno meno sforzi, si soffrono pene inferiori, tutto è più attutito. Anche la gioia? Sì, pure quella. Ma nell'ottundimento generale è un aspetto che passa inosservato. Sono stata una bambina "dal cuore esultante", una ragazza disciplinata ma libera, una sposa oppressa e quindi, nuovamente, una donna in corso di ri-affrancamento. All'inizio la libertà ha avuto uno strano sapore, nemmeno troppo gradevole. Poi è diventata fresca, quasi leggera, come succo di melograno con una puntina di lime, e mi ha conquistata. Tornare indietro? Una volta avrei risposto di no.

Adesso metto semplicemente dei limiti.

Tornerei al 1989 perché imposterei diversamente le mie scelte professionali, mi godrei maggiormente la vita e gli amici, sarei più avventurosa, anche in amore, ed eviterei di sposarmi per solitudine, sbagliando. Oppure tornerei al 2000, perché avrei già trovato il coraggio di separarmi, e il resto sarebbe venuto da solo.
 
Quando ripenso a qualcosa che mi ha molta ferita, mi consolo pensando: "Questo non mi può più succedere perché è già successo". Le Rose Bianche di Traluci o i miei album di foto, per esempio, non possono più scomparire dalla mia vita perché l'hanno già fatto. La truffa di via Cesare Costa non può più capitare perché è già capitata. L'amore per cui ho perduto tutto tranne quest'ostinato amore per la vita non può più finire perché quel settembre è già passato. Io non posso più commettere lo sbaglio di quel matrimonio perché l'ho già commesso e risolto.)
 
 
"Una gran buona triglia" è stato pubblicato per la prima volta nello zibaldone modenese di Beppe Zagaglia, Gli anni '80 e '90 fino al 2000, Edizioni Il Fiorino, 2006, ed è idealmente abbinato a "Ottima Fiandra", che inserisco di seguito. Li chiamo con affetto i miei Racconti del Divorzio.)
 
Una gran buona triglia
 
Torino, 28 febbraio 2005
 
Era stata un’estate da schifo.
 
Mi era andato male tutto. Non il lavoro, quello no. Traduzioni, eventi e convegni mi fioccavano addosso come fresca neve di fine febbraio, leggera e friabile, la migliore per sciare. Ma non è naturale arrivare a quarant’anni (o quasi) avendo come unica gioia e passione il lavoro. Che, per carità, costituisce un buon ottanta percento delle nostre operaie esistenze e va pertanto apprezzato, anche perché non è minimamente pensabile occupare quell’ottanta percento con una professione che non soddisfi, non alletti, non catturi, non emozioni, zero assoluto, morte cerebrale, pianto e stridor di denti.
 
Lavorare si deve e lavorare è bello. Io, poi, sono fortunata in questo. Faccio esattamente ciò che volevo e sognavo, ciò che per cui ho passato quarantotto esami universitari in quattro anni, fumando come tredici turchi (uno non sarebbe bastato), sorbendo oceani neanche troppo pacifici di caffè e salassando i miei che, bontà loro, mantenevano me e le mie ambizioni su a Trieste.
 
Perché abbia scelto lingue, in realtà, non so nemmeno io. Alle elementari eccellevo in italiano e in disegno. Alle medie in italiano ancora e, generalmente, in tutte le materie umanistiche. In disegno già non rendevo più tanto, perché la prof che avevo, la Fregni, ci imponeva terrificanti soggetti quali il circo e il carnevale, che mi hanno sempre fatto tanta tristezza. Io disegno bene se posso scegliere che cosa disegnare e come realizzarlo. Altrimenti, faccio pietà. Alle medie, in educazione artistica, facevo per l’appunto pietà. E l’unico premio che presi fu - mio malgrado - per un dolente Pierrot a china (anche quello imposto, figurarsi se potevo dipingere un Pierrot di mia iniziativa e per giunta con la china!) che, chissà per quale ragione, era piaciuto a un’oscura giuria di Modena e provincia. Da qualche parte conservo ancora l’obbrobrioso trofeo, col severo profilo romano in finto bronzo su base in vera plastica, a ricordo dell’obbrobrioso Pierrot, che ho invece gettato con gioia quasi maligna.
 
Comunque, con le lingue, non ci azzeccavo tanto. Certo, alla fine andavo bene anche lì ma non quanto altrove. E la terribile Casarini, ch’era la prof di francese, restò sorpresa quanto decisi, dopo le medie, di frequentare il liceo linguistico. Tutti mi vedevano al classico, neanche il San Carlo ma proprio il Muratori, alle prese con greco, latino e altre anticaglie.

Ma io, di anticaglie, non ne volevo. E i miei, ancorché delusi dalla mia scarsa propensione ad aulici studi, m’iscrissero all’allora trendy Liceo Linguistico Mercurio, dove tutto si pagava, anche la carta igienica e il grembiule azzurro pavone della bidella, la collerica Elvira dagli occhi di brace. Furono anni bellissimi e studiare fu ancora più semplice. Imparai l’inglese, imparai il tedesco, affinai il francese, persino una spruzzata di latino e spagnolo ebbi, e tutto conservo con geloso rimpianto, nozioni, sentimenti, immagini, persino l’odore delle prime Merit fumate nel baretto esterno alla scuola. A distanza di anni, credo forse di poter dire che scelsi lingue perché, ecco, era la sola materia in cui fossi carente.
 
Non mi piace essere carente. Ma lo sono. Devo esserlo perché, altrimenti, non avrei zero in amore, come invece ho. E non è una cosa degli ultimi anni. Oh, no. Sono costituzionalmente e geneticamente negata sin da quando, avendo tolto il busto per la scoliosi ed essendomi fatta crescere i capelli oltre al centimetro moquettato ammesso da mamma, ho potuto accedere alla categoria femminile come titolare e non riserva. Anche così, non ho avuto questo successo. O amo troppo o amo troppo poco. E gli uomini, loro, ricambiano. Mi amano troppo quando io li amo poco e viceversa. Va tuttavia detto che, ultimamente, mi sto specializzando in un terzo scenario. Non amo più nessuno, non ci riesco dopo tante delusioni. Tutt’al più provo una blanda attrazione, quando il soggetto di turno non è calvo (ho bisogno dei capelli) e sa usare il congiuntivo (imprescindibile). In compenso, pretendo passione che non sono disposta a dare e comprensione di cui non sono più capace.

Insomma, un disastro. E l’estate, poi, aveva segnato il mio minimo storico. Già cucco poco, perché sono alta e so essere arrogante con chi non mi conosce. Non do confidenza e, quando qualcuno mi guarda, subito mi acciglio, più che altro per la timidezza e l’imbarazzo, così che l’effetto globale non è punto invogliante. E non solo cucco poco, cucco anche male. A luglio avevo conosciuto un tipo che sembrava anche caruccio. Ma quando si è trattato di fissare un incontro romantico, mi sono sentita rispondere che doveva fare il bucato. Come dire, l’avevo proprio colpito! Eh, sì, c’è chi ha l’uomo dei sogni e chi l’”Omino bianco”. Quando si è fortunate!
 
A stretto giro... di bucato, è poi venuto il tipo figo, col sorriso giusto e il look ancor più giusto. Peccato che tutto il resto fosse sbagliato. Così sbagliato da farmi piangere per quel mese o due.

Quindi, mi ero beccata l’ennesimo picche in amore. E non è che nel campo delle amicizie le cose mi stessero andando gran che meglio. Le amiche storiche latitavano, e giustamente. Già è un’impresa badare alla propria vita, coi suoi splendori (pochi) e le sue miserie (interi canestri), figurarsi se puoi pensare a quella altrui. Le sposate facevano le sposate, le mamme si concentravano sull’esigente prole, le semi-accasate sperimentavano nuovi, promettenti amori e le single... Oh, be’, di single – di ritorno o meno – eravamo rimaste soltanto in due, io e la Chicca. E la Chicca, che pure rimane la mia amica per eccellenza, quella che avrà sempre un posto speciale nel mio difficile cuore, è una che farebbe spinning anche a colazione e per la quale il concetto di divertimento è una “camminata veloce” a Puianello, possibilmente in salita. Io, per contro, vado in bici per non camminare e i miei tragitti hanno sempre finalità ben precise. Casa-posta-mercato-shopping-cartoleria-casa. Il moto fine a se stesso mi elude, e lui elude me, voglio sperare.
 
Col risultato che lo scaffale “amiche modenesi”, un tempo stracolmo di coloratissimi capi di tutte le fogge, era alquanto sguarnito. Frequento altre persone, perlopiù per lavoro. Colleghe di altre città, care persone che gli anni mi hanno portato ad apprezzare immensamente. E poi c’era la Barbara, la mia più recente amica, che lavora sotto la Ghirlandina. In realtà, ci conosciamo da anni, e all’inizio non ci frequentavamo tanto, perché lei ha un bambino e poco tempo. Ma da quando ha rilevato un negozio di oggettistica in centro storico, abbiamo preso a vederci tutti i giorni. O quanto meno così facevamo prima del mio trasferimento a Torino. Era bello prendere l’aperitivo insieme e poi pranzare ognuna dove doveva. O andare all’estivo la sera, incappando in qualche orrido e perciò esilarante film tipo “The Secret Window”.
 
Ma quell’agosto, Barbara era nel Borneo e il suo negozio chiuso.
 
Magra e abbacchiata, mi aggiravo per il centro deserto, che tanto mi piace quando il sole lo sbianca e lo apre come un candido fiore d’ibisco. Naturalmente pilotavo la cigolante Maggie, la mia bicicletta nuova. Nuova per modo dire, visto che deve avere quei cinquantasette anni. Per me è nuova perché è andata a sostituire “Scassone II”, rubatomi nel febbraio scorso mentre facevo – anche di malavoglia - quattro fotocopie in via San Pietro. Col fatto che io non penso a rubare, mi pare impossibile che possano pensarci gli altri. Così, naturalmente, avevo lasciato Scassone II aperto. E, zacchete, qualcuno me l’aveva soffiato così, crudelmente, privandomi di un validissimo anche se malconcio mezzo. E fortuna che avevo svuotato il cesto (di solito non lo faccio, se entro per un minuto da qualche parte), che conteneva quel giorno un tailleur appena comprato.
 
Già perdere la bici era stato un colpo ma il tailleur di Germano Zama... ecco, non l’avrei sopportato. Così, ero andata a piedi da Benassi, il biciclettaio, e avevo acquistato per 40 Euro la Maggie, così chiamata perché più scudrigna della Thatcher, aggiungendovi un cesto di vimini biondo di cui mio padre, timidissimo, si vergogna alquanto perché è enorme, come quello di un fornaio d’antica memoria. Ma, tant’è, con quel cesto io pedalo dappertutto e ne vado pure fiera. Ci sta dentro tantissima roba, due bottiglie di acqua, anche un lambruschino, tutta la sporta della verdura e la mia borsetta, che non è mai piccola. Per non parlare dei formaggi e di qualche mazzetto di fiori – speranze, garofanina, rose gialle o zinnie - che invariabilmente allieta la più prosaica spesa alimentare.
 
Quel giorno il cesto era quasi vuoto, segno che buttava male. Sono una consumatrice entusiasta. Se non compro, vuol dire che non ho fame, che non ho voglia di cucinare, che non ho voglia di rinnovare. Che non ho voglia.
 
Non avevo voglia. Faceva caldo, mi sentivo spossata. Più che altro ero scontenta. Il che è strano perché sono facilmente felice. Tuttavia, ci sono periodi così e anche a me, ogni tanto, va giù la catena. Come in quel momento. Le cose importanti mi sfuggivano, trovavo, e se non avessi avuto il conforto della mia famiglia, che mai mi viene meno, e dei sandali rossi che sfoggiavo in quel frangente, comprati da Dugoni, che era stato buon amico del babbo, sarei stata proprio sola. Così meditando, ho appoggiato la Maggie al muro di casa per frugare nella borsa – le bordel – ed estrarre le scroscianti chiavi che regolano l’apertura dei luoghi a me importanti, tra cui il garage. Le avevo quasi trovate quando si è aperta la bottega alla mia destra.
 
Che proprio una bottega non è. Ma lo era stata. Ai tempi della nonna Argenide e del nonno Alfonso, quando Ruggero vi trafficava con le bici e quant’altro, in un curioso affiancamento di pedali e corriere, le nostre, Fratelli Ferrari. Poi, non so quali passaggi ci siano stati ma da anni il vecchio locale, con la sua porta grigia e quei due finestrini muniti di grate che fanno tanto Silvio Pellico (o quanto meno “Le sue prigioni”), funge da studio di Giuliano Della Casa, il pittore.
 
Chi non abbia mai visto le sue opere non può nemmeno immaginare un acquarello più accurato di un’incisione o più scolpito di un fregio. La perfezione di una rosa carnosa su carta a mano, la verde trasparenza di una foglia lanceolata o la tenera innocenza di un pettirosso tondeggiante che da un ramo ti guarda, se tu non lo fai. Il mio primo Della Casa, me lo regalò la mamma nel Natale del 1995. C’era un coniglio, un amore. Riuscii anche a salvarlo, infatti ce l’ho ancora. Gli altri acquarelli, mi sono stati regalati dal pittore stesso, che è una persona urbana e pacifica, quasi surreale, col suo sorriso lento e modenese.
 
A volte parliamo. Poche cose. Le sue mostre. Le mie traduzioni. Il freddo. Il caldo. Gli auguri a Natale. La stanchezza della giornata. Beppe, amico comune.
 
Abbiamo parlato anche in quel giorno d’agosto. Mi ha chiesto: <<Come va?>>. E io, che normalmente rispondo “Bene” per tagliar corto, perché la gente così vuole sentirsi rispondere, che stai bene, sono stata - con mia viva sorpresa - sincera. <<Insomma>> ho ribattuto. E ho fatto una faccia, come per fargli capire che stavo proprio da cani. Allora lui mi ha detto: <<Aspetta, ho una cosa>>. Ed è rientrato nello studio.
 
Lì per lì non ho nemmeno capito. Ero imbarazzata per aver detto la verità. Non è elegante essere infelici e mi dispiaceva averlo palesato. Per un po’ ho tentennato, poi ho ricoverato la Maggie, così almeno facevo qualcosa. Quando sono riemersa nell’afa agostana, Giuliano era lì e teneva un quadro in mano.
 
<<Tieni>> mi ha detto. E d’istinto io ho afferrato la bianca cornice. Poi, ho abbassato lo sguardo e credo di aver fatto “oh”, perché ci stava. C’era un pesce sotto il vetro. Una triglia del più magnifico rosso-rosa-aranciato si possa immaginare, con un bell’occhietto giallo vivace. <<Ti porterà fortuna>> ha aggiunto Della Casa, e io devo aver farfugliato qualcosa in fretta e furia perché, di colpo, mi era venuta una gran voglia di piangere, e non era proprio il caso di frignare in via Sant’Agostino, davanti a un inconsapevole vicino che sperava anzi di risollevarmi il morale. Ma va da sé che la gentilezza mi disarma.
 
Così, ho preso su e sono salita al quinto piano, nella mia casa tra i tetti. Solo quando mi sono trovata nel tinello, ho riguardato la triglia con l’attenzione che meritava. Le squame perfette, il contorno squisito, l’incredibile luminescenza di quel colore che cangiava, come fa un pesce nell’acqua. Poi, d’istinto, ho preso un chiodo (a casa mia quelli di acciaio, scuri e robusti, non mancano mai perché ho quadri financo in bagno, dov’è giusto che pure il WC debba poter esultare) e l’ho piantato nello studio rosso, sotto la mensola di noce, dove ci sono altri Della Casa e un’accozzaglia di Cavani, Piccinini, Traluci, il mio diploma di laurea e qualche oscuro quadro che lo stesso mi piace.
 
Triglia ha trascorso quivi gli ultimi mesi dell’anno, e si è rivelata una gran buona triglia. Ogni tanto la guardavo mentre traducevo e, se aveva pochi argomenti, certo non glielo rimproveravo. Ne avevo pochi anch’io. Poi, non so. Barbara è tornata dal Borneo e gli aperitivi sono ripresi. Ho fatto un salto all’università e ho trovato un corso veramente interessante. Una laurea, ce l’ho già, ma avrei tanta voglia di riprendere a studiare, e con centotrentadue crediti non sembrerebbe nemmeno così impossibile. Come ulteriore nota positiva, da ottobre corrispondo con un delizioso cardiochirurgo ginevrino che ho conosciuto a Lione. Una corrispondenza d’altri tempi che mi riempie quotidianamente di gioia perché le parole, per me, contano, specie se scritte. Non sarà amore ma mi fa sognare, cosa che il vero amore non è quasi mai riuscito a fare. Infine, la svolta. Coca-Cola Italia mi ha voluta con sé per curare la logistica del programma di ospitalità olimpico.
 
In dicembre mi sono trasferita a Torino e ho trovato un graziosissimo alloggio, tanto per cambiare sui tetti (ci sono persone che hanno un destino e io sono una di esse). Il mio ufficio è al Lingotto e mi fa piacere che sopra la mia testa, nello Scrigno di Renzo Piano, ci siano sette Matisse e sei Canaletto. Amici, ne ho tanti qui - Clelia, Anna Maria, Pietro, Edo e Maria Sole tra tutti - e non importa se sono single, sposati, fidanzati, divorziati, risposati o riciclati: hanno ancora voglia di uscire in gruppo, di stare in compagnia. Perché non è che la vita finisca solo perché si sta in coppia o perché, al contrario, si è soli. Il mondo intorno continua a esistere e a pretenderci.
 
Lo scaffale è di nuovo pieno, e a momenti devo lottare per ritagliarmi una serata casalinga. Il lavoro è duro, a volte mi stressa, a volte mi infuria ma sempre mi appassiona, anche quando semino anemoni e raccolgo... brugole. Torino è gentile con me, mi mostra tutte le sue cose più belle e mi culla col Po, incantevole nel suo invariato ed elegante fluire.

Triglia, naturalmente, mi ha seguita perché in Coca-Cola hanno assolutamente voluto anche lei. Che è frattanto diventata Magica Triglia. Magica non perché lo sia. Ma perché mi piace crederlo.
 
A volte le lucido il vetro perché possa sempre vedermi con chiarezza e continui a seguirmi, nelle stanze luminose della mente e in quelle più buie dell’anima.

Le cose donate col cuore hanno un valore aggiunto: erogano felicità nell’istante stesso in cui vengono regalate.
 
E' questa la loro magia.
 

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