giovedì 31 ottobre 2013

Ultima

 
(Lorenza [Destro] è sempre informatissima. Come faccia non so ma è costantemente sul pezzo. "C'è questo piccolo concorso letterario" mi ha scritto l'altro giorno (o era un mese fa? Probabile). "Tema il cibo, il buon vivere e il vino". O qualcosa del genere. La mail l'ho letta in fretta. "Vedo che in questo periodo hai la tastiera fumante, perché non scrivi un raccontino?". Oberata com'ero dalle solite mille stupidissime cose, credo di averle risposto in maniera interlocutoria. Sì, magari, chissà, se ho tempo... Poi, però, qualcosa mi è scattato perché di fatto ho aperto il link che mi aveva mandato Lorenza. Andavo di fretta, come al solito, e ho letto solo l'essenziale (e nemmeno, poi).
 
4000 battute spazi inclusi.
 
Niente.
 
Del resto, avrei dovuto immaginarlo. Il racconto selezionato sarebbe stato pubblicato sul retro di... un'etichetta?
 
Sì, qualcosa del genere.
 
Ora, l'idea non era esattamente elettrizzante. Ma lo era la scusa di rispolverare qualche altro meraviglioso ricordo.
 
Il presente mi piace, è così dolce con me in certi momenti, quasi paziente.
 
Il passato però ha tutta un'altra carica. Fosse solo perché è passato.
 
Così, ho usato una pausa pranzo per scrivere, anzi trascrivere, un frammento di ricordo.
 
In realtà, ho impiegato mezz'ora. Ma tutto l'altro tempo è servito per andare a misura.
 
Lima di qua, taglia di là, riduci gli aggettivi, accorcia un sostantivo, sopprimi una frase, castiga un'involuzione che pure ti piaceva.
 
Ho veramente finito un sabato ch'ero a Sanremo con Laura. Lei coi suoi problemi (veri), io coi miei (sciocchi) sospiri per l'eletto di turno... che naturalmente non mi ricambia.
 
"Che fai, lavori?" mi ha chiesto.
 
"No, scrivo" ho risposto. "Mi diverto."
 
Ed è vero. Scrivo per rivivere o vivere cose che sul momento sembravano del tutto normali.
 
21 settembre scorso a Sanremo
Una foto scattata da Laura
in una sera mite in cui abbiamo anche ballato
 
Comunque, ho sistemato ancora alcune cosette, mi sono iscritta al concorso e ho inviato il racconto.
 
Un elogio del mio cibo preferito e dell'unico vino che può accompagnarlo.
 
Clic.
 
Raccontino partito... e visto che avevo un secondo, ho guardato meglio il sito e letto qualcosa della società che lo patrocinava.
 
Salvo scoprire che era una casa... vinicola.
 
E che io avevo citato all'esattezza un vino che, se anche non era in diretta concorrenza, beh, certo non si adattava allo spirito dell'iniziativa. E poi mi ero dilungata sul cibo più che sul resto, per cui ero praticamente andata fuori tema. Perché non mi ero documentata.
 
Insomma, ho capito in un secondo che sarei arrivata ultima.
 
Che cogliona!
 
Poi però ho pensato che quel raccontino sarebbe potuto soltanto venire così.
 
I ricordi non si adattano a nessun parametro. Sono ricordi anche quando li strumentalizziamo per esigenze che non siano quelle del cuore.
 
E comunque il Vigna del Cristo rimane il lambrusco più buono del mondo, e la Federica [Cavicchioli], prima del piacere del buon vino che produce la sua famiglia, mi ha regalato una cosa più importante: un'amicizia tardiva tra persone che in realtà si sono rasentate in passato. Lei entrava al mio stesso liceo quando io ne uscivo, essendo più vecchia di 5 anni. Mai ci siamo frequentate, se non di recente, nell'ultimo anno, scoprendo che l'affinità non nasce dalle esperienze o dalle conoscenze comuni, ma è uno spirito che aleggia e che a volte si svela senza intenzione.
 
Così. Candido.)
 
LA FURBIZIA DEL TORTELLINO
Ci sono assenze che,  a volte, segnano più delle presenze.
I tortellini, per esempio.
La mamma, che pure è una cuoca sapiente, non li ha mai preparati. Fatto curioso per un ménage emiliano, generalmente cosparso di tagliatelle a matasse, maltagliati e quadrettini fatti con gli avanzi di pasta e ancora cartesiani riquadri da ripiegare ad ombelico intorno a un trito di lombo, prosciutto, mortadella, Parmigiano e, sì, noce moscata.
Non che si patisse voglia di minestre, specie in quelle domeniche di novembre quando la nebbia – allora fitta come organza e altrettanto elegante – saliva ad avvolgere il terrazzo del soggiorno. No, la “pentola” non mancava mai, col brodo d’un bel giallo torbido che faceva compagnia al lesso. Perché era quello il classico desinare. Il bollito. Da abbinare alla salsina di peperoni verdi e rossi d’uovo, oppure all’arroventato cren. Arroventato perché il rafano è piccante, quasi acre, con un odore pungente e circostanziato che risveglia impensati ricordi quando si spande in bocca come inchiostro nell’acqua. Per questo si sposa col lesso che notoriamente sa di poco (se non di niente), ma è caldo, giocondo e così buono che - con un pizzico di sale - per me batte anche il filetto.
In quel mare fumante nuotavano due soli tipi di pasta a casa Ferrari. Le mitiche “palline”, sferiche perfezioni di uova, midollo e Parmigiano la cui ricetta ci derivava dal lato Gandolfi-Cabassi della famiglia ad allietare ricorrenze quali il Natale, oppure la “pasta imperiale”, spugnosi cubetti di semola che persino l’Artusi si dilettava a sfornare. La nonna Beatrice ne aveva un debole perché la riportava alle sue nozze col nonno Mario. A noi bambine, per contro, non piaceva granché.
Ma da piccoli si hanno gusti diversi e il brodo stesso non ci faceva impazzire, neanche quando albergava i passatelli oppure la più modesta stracciatella d’uovo con le sue soffici isolette tondeggianti. No, io e mia sorella adoravamo la pastasciutta con la pummarola. Oppure il riso “al telefono”, con la mozzarella che filava, creando elastici ponti di formaggio tra la forchetta e le labbra. E c’erano le opulenti lasagne di pasta verde oppure i tortelloni di magro che tuttavia erano riservati al venerdì, quando la carne cedeva il passo all’odiato nasello con la pelle.
I tortellini, però, latitavano. Mamma appunto non li sapeva fare né voleva imparare, e comprarli non era comune, visto che – tanto – si mangiava altro.
Dovetti sposarmi, anche con esiti discutibili, perché questi grandi assenti entrassero prepotentemente nella mia vita.  Mia suocera che, avendo il nome di una tassa, certo non poteva brillare per simpatia (infatti non lo faceva), preparava un’ottima sfoglia, e i suoi tortellini, oltre a essere minuscoli, erano ruvidamente saporitissimi.
Ricordo la prima volta in cui li assaggiai. La pasta sottile ma sostenuta. Il gusto piccante del formaggio stagionato e poi quello rotondo, quasi barocco, della mortadella. La lenta carezza del brodo sulla lingua.
 
Restai folgorata.
Purtroppo, alla lunga, mi folgorò anche lei, la suocera, e quando il matrimonio finì (because three is a crowd), giusto un rimpianto mi rimase.
Loro.
I tortellini.
Ma tosto rimediai con quelli della Piazza. Non erano migliori. Ma migliore era la libertà. Da allora ne compro a chili, avendoli trasformati nel mio piatto del cuore, quasi cult. Quel comfort food alla modenese che, meglio della Nutella, mi consola quando il lavoro mi ammazza, il capo mi cazzia, l’amore mi elude, l’amica mi delude oppure mi succedono tutte queste cose insieme.
Tristezza, contrarietà o sciagura… niente resiste dinanzi all’intrinseca furbizia di un buon turtlein. E pazienza se il brodo è “matto”. L’importante è che lo accompagni un lambruschino. Meglio se Vigna del Cristo, temperatura frigo! Meglio ancora se viene a cena qualcuno a ricordarmi, tra una chiacchiera e l’altra, che la vita non è bella per le sue rare, stravaganti straordinarietà ma per le sue quotidiane micro-letizie.

mercoledì 25 settembre 2013

Perle o schegge?

 
(I pensieri, per fortuna, non sempre sono profondi, ed è bello scrivere anche di sciocchezze
 
Pure questo è un racconto del 2010, apparso originariamente all'inizio di quest'anno nell'antologia degli ex Alumni della Scuola per Interpreti e Traduttori di Trieste http://issuu.com/sslmit30/docs/sslmit30.)

Schegge 
 
Traduzione versus Intepretazione, alias Piemonti contro Bortolotti
<<… sì, in effetti è abbastanza idillico!>> commenta Bortolotti.
 
<<Ignorante!>> bercia Piemonti. <<Si dice “idilliaco”.>> Il tono è duro, non ammette repliche.
 
C’è chi ride, chi fa finta di niente, chi butta acqua sul fuoco.
 
Bortolotti ci rimane male, sale in biblioteca e controlla la voce sul Battaglia.
 
<<”Idillico” e “idilliaco” sono sinonimi, stronzo!>> dice a Piemonti non appena lo rivede. <<Sono andato a controllare.>>
 
<<Ma certo>> risponde Piemonti, serafico. <<Solo un interprete ignorante come te poteva andare a controllare.>>
 
Scambio tra Ghiga e Valeria ai tempi di via della Tesa
 
<<Come hai osato aprire il mio regalo di San Valentino?>> mi lamento.
 
<<Dai, non fare così. Mi sentivo tanto sola.>> Valeria fa la faccia desolata. <<E poi ho mangiato solo un cioccolatino, via. Te ne rimangono altri ventinove…>>
 
(Esempio di come rigirare la frittata e restituire l’accusa di furto e indiscrezione con quella di egoismo e implicita avidità.)
 
Ghiga e Bamba in via Hermet
 
<<No, no, Bamba, come hai potuto?!!??>> Di rientro dall’università, vedo che sta mangiucchiando il sotto del mio adorato costume da bagno della Perla, quello verde pisello con la fascia, e sono inconsolabile. <<Non ti potevi mangiare la solita espadrilla del cavolo?>>
 
Poi taccio perché nell’angolo vedo un pezzo (uno soltanto) di suola di corda.
 
Appunto.           
 
David, ultima fiamma hermetiana di XXX
<<E non solo è carino>> conclude XXX gesticolando, <<ma è anche figlio di un ambasciatore! E tiene la Divina Commedia su un leggio in cucina!>>
 
L’annuncio trabocca di entusiasmo e punti esclamativi.
 
Ghiga e Lella arricciano il naso. <<Sembra un po’ una posa, no?>> commenta la seconda.
 
<<In effetti>> ammette XXX che, pur avendo un debole per i maschietti, tutto è fuorché scema, <<non avrei detto che sapesse nemmeno leggere. Comunque, sta venendo qui, ve lo presento.>>
In quella suona il campanello.
 
DRINNN!!!!!
 
XXX corre ad aprire. Io e Lella dietro. Bamba sbuca da camera mia, con le orecchie ore mezzogiorno.
 
David si affaccia in via Hermet e inquadra Bamba. <<Non morde, vero?>> chiede con coraggio leonino.
 
<<No>> assicuro io. <<E’ il cane più buono del mondo, non morde né abbaia mai, vieni.>>
 
David entra.
 
Bamba emette un ringhio furioso, e gli si forma addirittura la cresta sul dorso, come quando avvista il più odioso dei cani.
 
Lella mi guarda. <<Che cos’erano?>> borbotta. <<Le ultime parole famose?>>
 
Io afferro Bamba per il collare proprio mentre si slancia sul dantesco David. <<Ehi, mica si possono prevedere antipatie e simpatie, no?>> ribatto sulla difensiva.
 
David si è intanto rintanato in un angolo del soggiorno, e credo proprio che la cotta di XXX sia definitivamente passata.
 
Landa e Ghiga
<<E’ un ragazzo fantastico>> conferma Landa. <<Carino e con un ottimo carattere.>>
<<In effetti non posso darti torto>> ammetto io.
<<Praticamente è perfetto. Se non fosse per…>>
 
Drizzo le orecchie. <<Che cosa?>>
 
<<Be’, non è bello parlarne.>> Fa la faccia lunga, da pellicano, come quando muore dalla voglia di dirmi qualcosa ma necessita di un piccolo incoraggiamento.
 
<<No?>> Immagino qualcosa di losco e peccaminoso.
 
<<Però, se proprio insisti…>>
 
<<Naturale che insisto! Non sto più nella camicetta.>>
 
<<I piedi>> sussurra allora Landa, tremante. E chiude gli occhi.
<<Perché? Che hanno?>> Che siano troppo lunghi?
<<Puzzano!>>
<<Beh, un pochino è fisiologico, dopo una lunga giornata…>>
<<Altro che pochino. Ti si crepa la faccia! E già di mattina!>>
Allargo le braccia. <<Allora non c’è “carino” che tenga!>>
Landa è sconfitta. <<No.>>
Ghiga e un’amica, trovatesi per studiare Esercitazioni Pratiche d’Inglese
MIAOARRUAHIAAHIA!!!!!!!!!!!!!!
<<Diavolo, che casino, ma li senti quei gatti là fuori?>> Indico la finestra sul cortile. <<Di nuovo in amore, bisogna buttare dell’acqua!>>
 
<<Ma che gatti e gatti. Quella è la XXX che si fa ripassare dal nuovo fidanzato.>>
Stupore, incredulità e dubbio. <<Dici?>>
 
Il suono non è umano.
MIAOARRUAHIAAHIA!!!!!!!!!!!!!!
<<No, scema, è lei che lo “dice” a te…>>
 
Ghiga e Alessandra Chiesa davanti all’Aula Magna
 
<<Figo, quello.>>
 
<<Sì. Fa traduzione. E’ un feticista.>>
 
<<In che senso?>>
<<Adora le donne coi piedi piccoli.>>
 
Mi guardo le mie fette numero quaranta. <<Allora dovevo conoscerlo quando avevo sette anni.>>
Ghiga e una compagna di corso, appena piantata da XXX
<<Dai, di nuovo>> dico io. Siamo sedute in biblioteca. <<Io dico una parola in inglese e tu me la traduci in italiano.>>
 
<<Okay.>>
<<Wicker.>>
<<Vimini.>>
<<Velvet>>
<<Velluto.>>
<<Willow.>>
<<Salice.>>
<<Wisteria.>>
<<Glicine.>>
In quella entra XXX con la sua nuova fiamma, e si siede dietro di noi.
<<Worm>> riprendo io.
<<XXX!>>
<<…>>
Ghiga ai fornelli in via Hermet e Marco Savella
 
<<Che odorino!>> esclama Marco, buona forchetta. <<Che cosa stai preparando?>>
 
<<Niente.>> Rimesto furiosamente. <<E’ un piatto fantasia.>>
 
Il nasone di Marco si allunga sulla padella. <<Che ci hai messo?>>
 
Faccio l’elenco. <<Patate, wurstel a fettine, cipolla e salamino. E’ il nostro pranzetto. Ti fermi anche tu?>>
 
<<Perché no?>>
 
Marco si unisce a me, Lella e Pazzelli.
 
<<Buono questo piatto!>> fa.
 
In effetti si lascia mangiare.<<Poppelburgher!>> sentenzia subito dopo. <<Lo chiameremo così!>>
 
E Poppelburgher fu il nome con cui passò alla storia quell’incredibile intruglio che, a onor del vero e di Savella, uno dei pochi autentici interpreti che io abbia mai incontrato nella vita, fu più volte ripetuto.
 
Elementi clinici, Melato e la studentessa XXX
 
Melato conclude la lezione dicendo: <<…e comunque è buona norma, per una corretta igiene intima femminile, usare un detergente possibilmente acido e…>>.
 
La studentessa XXX alza furiosamente il braccio. E’ la pitocca del corso, in scamiciato grigio chiaro e dolcevita bianca.
 
<<Dica>> borbotta il docente, un po’ infastidito dall’interruzione.
 
<<E’ per questo che consigliano di lavare la cosina con l’aceto?>>
 
Io penso al denso e saporoso aceto balsamico della mia Modena e mi nascondo dietro l’astuccio per non esplodere all’idea del “pegolone” che si sarebbe formato.
 
Lorenza neanche mi guarda, tanta paura ha di soccombere all’ilarità che peraltro avvolge l’intera aula B, scossa da un boato.
 
Nel rispondere, Melato è ancor più prognato del solito: <<Personalmente non lo raccomando ma immagino che, diluito, ehm, possa anche servire>>.
 
Ma non lo si usava sui capelli, contro i pidocchi?
 
Nessuno di noi osa più pensare (se mai) alla cosina della studentessa XXX (poi ribattezzata “Acetaia”).
 
(Vani) Sforzi poetici -  Dal diario di Ghiga, settembre 1987
Ti amo, disse lui a lei.
Ti amo, disse lei a lui.

Poi, non trovando null’altro da dirsi, si lasciarono.

***

Dove il senso?
 
Se l’orizzonte ha un colpo di pistola in fronte?
***
 Ti amavo
perché eri nuovo
come una foglia di menta
che spunta,
con quel suo verde semplicemente brillante,
quasi giallo nel sole,
da un muretto a secco,
se vuole.
Ti amavo
perché sapevo farlo,
perché di colpo era la sola cosa che sapessi fare
bene.
Ghiga e Marcella, con altre compagne di corso, davanti all’Aula B prima di Crevatin
<<E a te piacerebbe avere figli?>> mi chiede una.
<<Sì.>> All’epoca stavo platonicamente con Luciano ma col pensiero mi proiettavo in avanti. <<Sarei troppo contenta di avere una bambina mora come il padre.>>
All’epoca mi tingevo di biondo, e pensavo a me in quei termini, quindi “non-mora”. Marcella, che mi aveva tanto in simpatia, sussurra caritatevolmente a una vicina: <<E come la mamma>>.
Io sento. <<E come la mamma>> completo a voce alta, neutralizzando la cattiveria.
Marcella entra in aula con passo pesante.
Crevatin e Ghiga, durante una lezione di linguistica
<<…e comunque esistono azioni che si possono spiegare SOLAMENTE con l’ausilio di disegni. Prova ne sia che i nodi vengono resi, passo dopo passo, con apposite illustrazioni. Domande?>>
Io alzo la mano. <<Senz’altro i disegni semplificano lo scopo>> dichiaro. <<Ma con un po’ di applicazione non c’è niente che non si possa spiegare a parole.>>
<<Me lo provi!>> strepita Crevatin strabuzzando gli occhi. <<Avanti. Lo dimostri!>>
Mi viene male. Non pensavo la prendesse così. Era solo per dire che, con un po’ di pazienza, è possibile spiegare a parole qualsiasi cosa, anche come fare un nodo.
<<Mi insegni per esempio ad allacciarmi le scarpe!>> continua Crevatin, fiutando il sangue. <<Forza!>>
Non mi tiro indietro. Anche perché, a quel punto (mannaggia la mia dannata boccaccia), non potrei. <<Dunque, calzi la scarpa di destra, prenda un’estremità del laccio, la ripieghi su se stessa formando una specie di anello e la tenga in posizione. Poi, ci passi intorno l’altro laccio  e…>> Di colpo visualizzo l’azione e mi incarto. <<Anzi, no>> ricomincio, <<ripieghi entrambi i lacci, poi li incroci…>>
<<Ecco, lo vede? Aveva torto marcio>> tuona lui, soddisfatto. <<Non si può. Quanto meno, non si capisce niente. Proprio come dicevo io!>>
Io taccio, umiliata. Non volevo dire che le parole erano meglio. Solo che costituivano un’alternativa magari macchinosa ma possibile.
Nessuno interviene.
Un’ora più tardi, a fine lezione, Costantino di Ferrara mi ferma e dice: <<Avevi ragione tu. Non ti ha lasciata parlare>>.
Gli sono grata, e sorrido.
Ghiga e Simon, coinquilino temporaneo di via Hermet
Pazzelli aveva subaffittato la camera per un periodo e Simon era il nostro nuovo coinquilino. Insegnava inglese, aveva una faccia lunga e stretta come una spagnoletta e non sciacquava i piatti dopo averli insaponati.
Una notte, bussa alla mia porta. Era molto tardi, credo le tre del mattino.
<<What’s up?>> gli chiedo, riconoscendolo sulla soglia.
Senza dire niente, lui entra e si siede a gambe incrociate sul tappeto di lana cotta che anni dopo avrebbe divorato Bamba.
<<What’s up?>> torno a chiedergli, stravolta, aggrappandomi al copriletto bianco con la balza che mi ha cucito la mamma.
<<I feel suicidal>> esordisce lui.
E io sleepy, avrei voluto ribattere.
Invece gli dico: <<Come on. Take it easy>>. E altre stronzate varie.
Lui resta lì ancora per qualche istante. Evidentemente si era aspettato altro tipo di consolazione.
Ma io tengo il copriletto come uno scudo stellare, e deve capirlo anche Simon.
Si alza, esce, richiude la  porta e, finché resta in via Hermet, mai più mi rivolge la parola.
Claudia Manidi a Ghiga e Manuela
<<… il mio ragazzo (Belaz, NdR). Lo sto aiutando a sistemare la casa nuova a Bologna. Infatti sono appena andata dall’altra parte della città per comprare la sottocarta e…>>
<<La sotto che?>> domanda Manuela sgranando gli occhi. E guarda me.
Ma anche io non so che cosa sia. Aspetto la risposta della Manidi.
<<Lo dice la parola, no?>>
A noi non lo dice, così insistiamo.
Claudia spiega pazientemente. <<E’ una carta che si applica alla parete per eliminare le asperità dell’intonaco.>>
<<Mi stai dicendo che, prima di tappezzare, incollate un’altra carta?>> Manuela è incredula.
Lo sono anche io. <<Ma è uno spreco di tempo!>> intervengo. <<Specie per un alloggio in affitto…>>
<<La sottocarta ci vuole! Pareggia tutto, dice Sandro. Gliela porto apposta questo fine settimana.>> La Manidi non si fa smontare. <<Verrà un lavoro bellissimo!>>
 Io e Manu non replichiamo. Ma né io né lei avremmo più dimenticato la famosa “sottocarta” di Sandrino Belaz.
Elisabetta Francica Nava a Ghiga prima di Elementi di Economia
<<Comunque, per me>> incomincia la Elisabetta, <<una camera ordinata non è data dal letto fatto.>>
<<No?>> chiedo con blanda curiosità.
<<No.>> E’ sicurissima di questo. <<E nemmeno dagli abiti piegati o dalla scrivania rassettata.>>
<<Da che cosa allora?>> A quel punto voglio saperlo per davvero.
<<Dalle scarpe>> risponde prontissima la Francica Nava.
<<Le scarpe?>> ripeto io, basita.
<<Certo. Se le punte sono rivolte in avanti, con la medesima angolazione, allora la stanza è in ordine. Se invece sono disposte senza criterio, allora la stanza è in disordine.>>
<<Ah.>> Sbatto le ciglia mentre sento di dovermi accendere una sigaretta.
Ghiga e due compagne di corso prima di una cena a cui sono entrambe invitate
<<Che cosa portiamo?>> chiedo io.
<<Ho preso del vino.>>
<<Brava. Quanto ti devo?>>
<<Mille lire.>>
<<Ecco.>> Gliele allungo.
<<Tieni anche le mie>> salta su un’altra amica, pure lei invitata.
<<Per te sono cinquecento>> risponde chi ha acquistato il vino.
<<Com’è che Ghiga spende il doppio?>>
<<Tu sei più bassa. Bevi di meno, no?>>
La logica è talmente schiacciante che nessuno dice niente.

lunedì 23 settembre 2013

Era settembre

Le cose sono come nuvole, cambiano velocemente. Accade così che un mese veda la tua assoluta felicità e quello successivo la tua infinita disperazione. Il settembre che seguì l'agosto della Provenza fu teatro di quell'alternanza. Ma è passato così tanto tempo. Nel ricordo persino il dolore ha una sua specifica, commovente tenerezza. E comunque è sempre mio, qualcosa che ho provato e che per questo rivendico.
 
Col senno di poi, l'amore di cui parlo nella parte finale di questo racconto e che tanta parte ha avuto nel determinare l'andamento della mia esistenza mi diede più emozioni in negativo che in positivo. Col risultato che adesso, se vi ripenso, non sento quello strappo, preciso, al cuore ma un senso di blanda, quasi divertita, incredulità.
 
Per anni, dopo che fui lasciata, facevo precedere i  miei pensieri da questa frase: "Quand'ero ancora viva [sottinteso, prima dell'8 settembre], facevo così". Cui corrispondeva il contrario "Quand'ero già morta [sottinteso, dopo l'8 settembre], facevo invece così...". Troppo ferita ero per capire che vita e morte non te le dà un uomo.
 
La nostra felicità non è negli altri. E' dentro di noi. Possiamo condividerla, non farla dipendere.
 
Quell'otto settembre è stato un giorno funesto per me.
 
Oggi è soltanto un giorno di settembre.
 
Quest'anno faceva caldo. Il sabato prima avevo comprato un trombone al mercato della Benefica, così l'ho fatto in umido col petto di pollo, poi ho aspettato che si freddasse per congelarlo in monoporzioni da consumare in quelle [rare] serate in cui non ho voglia di cucinare.
 
Niente possiede la stessa ironia della normalità.)
 
 
Questa è la prima fotografia della felicità.
La forma particolare
è dovuta al fatto che è stata adattata
a una cornice ovale.
Inoltre, mentre facevo lo scan,
ho inavvertitamente spostato l'immagine,
combinando
il solito casino
 
La fotografia della felicità

Nemmeno sapevo di averla, la foto della felicità.

Di fatto, non l’avevo mai vista. Poi, un giorno ch’ero a Modena dalla mamma, sono entrata nella mia vecchia camera da ragazza, ancora tappezzata di parati azzurro polvere, e ho visto che nella cornicetta di caoutchouc nero che mi aveva regalato la Caterina Visani per la laurea (praticamente secoli fa), non c’era più l’immagine di me e la nonna, coi visi accostati, i suoi capelli fini e bianchissimi contro i miei neri a onde larghe. Era il giorno del mio matrimonio e, separate soltanto dal fiore bianco che portavo all’orecchio, ridevamo, senza sapere che ci sarebbe stato ben poco da ridere.

Infatti, divorziai.

Con quella foto, erano stati archiviati anche due gruppi storici. Io, mia sorella Francesca, e le nipoti, Cecilia e Beatrice, in posa sul terrazzo di Marina di Carrara, con le spalle lucide di olio abbronzante, e le donne della famiglia Ferrari/Rebecchi, quindi le stesse citate poc’anzi più mia madre, nell’ampia taverna di Limidi, un Natale, col grande camino sullo sfondo, a ricordo del tempo in cui la mia vita era solo nebbia, e manco me ne rendevo conto.
 
 Gruppo storico a Marina di Carrara...
 
Gruppo storico a Limidi...
Al loro posto occhieggiava una curiosa fotografia 10x13 anni Sessanta. Una di quelle col bordino bianco seghettato che non si vedono più. Colpita, ho sollevato la cornice e sono andata dalla mamma in cucina. <<E questa da dove spunta?>> ho chiesto. <<Me l’ha data Beppe>> ha risposto lei. Ma certo. Ci sarei dovuta arrivare. Chi se non Beppe, caro e puntuale cronista del nostro passato, poteva aver scattato una foto che da sola descriveva il momento più tenero e vero della mia infanzia, se non addirittura della mia intera esistenza?

Gli elementi cult c’erano tutti. Intanto, il luogo, ovvero Correggio, dimora dei giorni senza tempo e senza dolore, se non quello effimero e totalmente fisico, legato a qualche caduta sulla ghiaia del giardino o sul cemento del marciapiedi, oppure ai taglienti e spietati pedali di Trinciapollo, la mia bici azzurro pavone che in realtà faceva di marca – neanche a farlo apposta - “Barracuda”.

A ribattezzarla Trinciapollo era stata mia madre che, insieme alla Gabriella, passava i suoi pomeriggi d’estate a disinfettarmi le caviglie insanguinate, anzi “tranciate”, e ad asciugare quegli tsunami di lacrime ch’ero maestra a versare. La Gabri, che da nubile faceva Mariani e da sposata Della Valle, non era un’amica d’infanzia della mamma con cui pure aveva frequentato le Orsoline negli stessi anni, essendo coetanee. No, l’amicizia si era sviluppata anni dopo quando, entrambe fresche di nozze, si erano ritrovate vicine di casa e di pianerottolo nel condominio Carrobbio del Geom. Laerte Rossi, quello rosa pallido con le tapparelle turchesi, a ridosso del cinema estivo, che tutti chiamano erroneamente Stella, per via delle sue punte. Per me la Gabriella era ed è la mamma bis, così come la signora Maria Clara, sua madre, era la nonna tris, in un periodo benedetto e ormai lontanissimo in cui abbondavo di tutto, quindi anche di nonne, consanguinee o d’elezione che fossero.

Nella foto, si vedono nell’ordine la Lucia con in braccio la figlia Cecilia, mamma con mia sorella e, per finire, la Gabriella con me. Tutte con la loro bambina, in un degradé di altezze e colori. A svettare, un po’ per il tipo di sedia, un po’ per il portamento alla Jackie Kennedy è la bionda Lucia, in sobrio prendisole blu reale con spalline larghe adorne di grossi bottoni di madreperla. La Cecilia, con la fascia rossa che le trattiene la chioma fluente, indossa un abitino a fiori e temibili calzettoni di filo bianco che mi fanno sudare al solo pensiero, visto che senz’altro era agosto. Dopotutto, era in quel mese che si soggiornava in campagna.

Accanto, un po’ sbilanciata verso la Gabriella, ecco mamma sullo scranno della sala da pranzo, di cui s’intravvede la seduta di corda ruvida lavorata a quadretti. A differenza della Lucia, che porta i capelli poco sopra le spalle, sciolti con la scriminatura laterale, mia madre ostenta la classica cofana anni Sessanta, un gonfio e intricato trionfo di forcine e pettinini. Il suo abito è rosso-rosa, opera della Colombini, con una fantasia bianca o comunque chiara che nella foto poco s’indovina. Ma le spalline sono chiuse da fiocchetti di stoffa, e lo scollo all’americana le dona perché le braccia sono lunghe, belle. Mia sorella Francesca, in gonna di tela a righine bianche e blu e maglietta blu notte, se la ride perché, da vera mammona, è incollata come sempre alle sottane di nostra madre, o forse perché io, alla sua sinistra, sono reduce dal solito ruzzolone e, a giudicare dal mento tremolante, devo aver pianto parecchio. Non correva buon sangue tra me e la Checca. C’era troppa differenza d’età, ci scocciavamo a vicenda. Inoltre, mia sorella era la bella di famiglia mentre a me prendevano tutti per un maschio, cosa che mi procurava violenti malumori.

Anche perché all’epoca mamma ci vestiva uguali, come gemelle mal riuscite. Col risultato che lo stesso abitino indossato da mia sorella faceva tutt’altro effetto su di me. Nella foto, la maglietta blu della Checca, per il fatto solo di essere indossata senza l’orribile pettorina con bretelle che per contro avevo io, risulta molto più carina e accattivante. Le solite differenze che, anche a distanza di anni, mi fanno imbufalire, a riprova del fatto che negli anni si cambia… ma non così tanto.

Comunque, è proprio con me che si chiude l’involontario merletto di donne e bambine, mani e ginocchia. Sono in braccio a una sorridente Gabriella in Ken Scott verde e senape, giro di perle e cofana castano chiaro mentre con espressione incerta e un po’ dolente stringo quella che sembra essere una fetta di pane e formaggino Mio, che adoro ancora, come gli omogeneizzati di pollo del resto, il mio comfort food corrente dopo i tortellini della Piazza.

A differenza delle altre bambine, ho la gonna in disordine perché, naturalmente, nemmeno allora ero composta. A me e la Gabri è tra l’altro toccata la sdraio di metallo coi cordini di plastica gialla, bassa da far pietà ma in effetti ottima per giocarci (era divertente allentare i fili… a patto di non romperli, però, perché altrimenti le si buscava).

Nella foto, me ne rendo conto, tutti sorridono tranne me. Ma non è che questo scalfisca l’idea di semplice felicità che me ne deriva. Eravamo insieme, eravamo unite, eravamo colorate, con dietro gli alberi del bosco e i gerani della Bruna, e davanti sicuramente Beppe che ci guardava dall’obiettivo. Un equilibrio perfetto.

Nella mia vita andava tutto come doveva andare. I desideri erano ancora molto precisi perché s’associavano al cibo (andavo pazza per il cocomero e per le uova alla pizzaiola) o al fatto di giocare in giardino, strappare fiori, raccogliere nocciole, cavalcare Trinciapollo o il cane Dick, e mendicare ritagli di stoffa e plastica fantasia dalla vicina fabbrica del villaggio artigiano.

Correggio era il centro del mio piacere perché veniva a riunire, anche se solo per un mese – agosto - tutte le cose e le persone che regolavano il mio benessere, e il nostro sestetto cristallizza in un istante quell’indimenticata dimensione.

Dalla quale, a dirla tutta, manca un’altra figura cara e ricorrente della mia infanzia, ovvero la Michela Cibelli, romagnola trapiantata a Modena e orsoliniana di ferro insieme a mia madre, la Gabriella e la Lucia. Con la differenza che la Michela, anche negli anni Sessanta, era più evoluta se è vero che, innamoratasi nel corso di una vacanza jugoslava di un gran bel pezzo di figliolo tedesco, Hinerck, al suo rientro in Italia, con le amiche che le dicevano: <<Sarà un fuoco di paglia, dimentica>>, ripartì lesta alla volta della Germania riportando, oltre al tedesco - che poi sposò quell’inverno, sfoggiando un favoloso bolero di visone bianco e un’acconciatura platino alla Marilyn - una rivincita bestiale. Dall’improbabile ma fortunata unione nacquero tre figli, i bellissimi Dadi che, da piccoli transitavano nelle nostre case come unni d’antica memoria, seminando disordine, macchie e somma costernazione, quest’ultima particolare retaggio di quel precisetti che è mio babbo.

La Mickey non c’era quel giorno e quindi non figura nella foto ma ci sarebbe stata benissimo perché fa parte anche lei del mio piccolo, privato gineceo infantile, lo stesso cui devo le cose migliori del mio essere, se è vero che da tutte queste donne così diverse e meravigliose ho preso qualcosa di unicamente buono. La mamma in joint venture con Dio mi ha dato la vita e le idee e il cervello. Anche il caratterino che però la Gabriella mi ha insegnato a domare, se m’impegno, perché con lei - utile e preziosa come la camomilla che, oltre a fiorire, cura, profuma e lenisce,  e tutto insieme - è il cuore a venire prima di tutto, e ben che ha ragione. Dalla Mickey, simpaticissima e ferocemente ironica, ardimentosa e piena in iniziativa, ho preso il gusto per la battuta e magari la capacità di credere nei sogni (vedi Hinerck) mentre dalla Lucia, più elegante di un bambù giapponese che lieve ondeggia nella sera, l’amore per lo stile, la bellezza della forma, l’importanza della discrezione.

Così, sono stata contenta quando la mamma mi ha regalato una copia di quest’ennesima foto di Beppe. Me la sono portata a Torino, naturalmente, e ho fatto sosta da ZaraHome in cerca della cornice più adatta. Ne ho trovata una ovale col bordo dorato e un fregio gentile che corre tutt’intorno, come un tralcio d’edera sfuggito alla potatura. Ho adattato il formato, e in corrispondenza del mio viso e di quello della Lucia ecco che la curva della cornice leggermente ci oscura, ma stiamo bene lo stesso, e l’ovale ci cinge con rassicurante saldezza, quella di cui tutti abbiamo bisogno, sempre.

In realtà, possiedo una seconda foto della felicità, e anche di quella sono stata inconsapevole per anni. Poi, Daniela Lazzarato, collega e amica di Torino, me la mostrò per caso poco tempo fa. Eravamo ritratte io e lei a Cap Esterel, in Provenza, nel giugno del 2000. Si era concluso un grosso incentive di successo, festeggiavamo. Io avevo appena conosciuto Massimo, l’uomo che mi avrebbe ricordato com’era vivere e poi morire, e il mio futuro si profilava gravido di atroci dilemmi (ero infelicemente sposata) e di dolcissime possibilità (niente è come l’amore).

Daniela vestiva di bianco, ed era bionda e truccatissima. Truccata lo è ancora ma i capelli sono più corti, adesso, e castani, una tonalità morbida che le preferisco. Io, per contro, ho le lenti a contatto azzurre, vezzo di allora, i capelli sciolti sulle spalle, ricci e con qualche ciocca bionda qua e là, come s’usava in quegli anni, e indosso la brutta camicetta sintetica della defunta divisa CWT. Anche così sembro carina, in quella foto, con gli occhi che parlano di una stuporosa contentezza che, anche a distanza di anni, mi lascia senza fiato, perché non sono più abituata a vederla.

Non su di me.

Sì, ero felice quel giorno. Felice come non lo sono più stata ma come – forse – sarò domani o l’altro anno, chissà.

Ma quella foto, nel ricordarmi l’alfa, mi riporta anche all’omega perché Massimo andò e venne, come lo spot di una ricarica telefonica. Il mio divorzio fu duro e cattivo, e tutto si portò: denaro, cose, ricordi e naturalmente l’illusione di un futuro come l’avrei voluto io. Massimo, lui, non aspettò: sposò una donna senza passato, più semplice e ricca, cui diede due figli. Quanto a me, pagai con la miseria e la solitudine una libertà che pure meritavo. Non me ne pento. Non si può morire se non si vive, e prima non vivevo, facevo solo finta. Non che Massimo fosse eccezionale: non lo era. Ma l’innamoramento non ha bisogno di geni o di eroi per dispiegarsi. E il mio caso lo dimostra, tant’è che adesso mi struggo non per l’uomo perduto, che sarebbe stato infelice con me così come lo sarei stata io con lui, bensì per come l’amore mi faceva sentire, per quelle emozioni che mi eludono da oltre dieci anni.

E qui solo Filippo Facci può veramente capirmi, forse, perché ne ha scritto una volta… in quella curiosa rubrica che teneva su Grazia. Conservo quell’articolo con lo stesso riguardo che riserverei a un disegno di Boldini. Non leggo quasi mai niente che mi rappresenti. Ma il paragrafo finale di quel piccolo scritto in prima persona mi ha quasi uccisa per l’assoluta nostalgia, l’atroce rimpianto, l’infinita assenza delle cose che so di poter provare e che pure non provo più.

Così, quando rivedo quell’immagine di me e Daniela, abbracciate come sorelle nel ristorantino all’aperto di Pierre & Vacances, non visualizzo la squisita contentezza di quel momento in cui tutto pareva lecito e realizzabile, anche l’amore nuovamente a trentacinque anni, bensì lo strazio che ne derivò per tutti e soprattutto per me.

Ma questa è un’altra storia, una foto senza cornice che oggi, finalmente, non conta più.

L’amore che non è stato non vale un racconto.

Lo vale soltanto l’amore che è o che sarà. Di questo spero scrivere un giorno. E poi non so.

 
La seconda fotografia della felicità
 

mercoledì 18 settembre 2013

L'agosto prima di quel settembre

[Viaggio molto per lavoro,  poco nel privato. In passato mi mancavano i soldi, ora mi mancano il tempo e talora la compagnia. Inoltre, essendo spesso via per ragioni professionali, attribuisco grande importanza a periodi tranquilli anche vissuti stanzialmente, per esempio in quella Modena che il fatto di vivere a Torino colora ormai di una sorta di sobrio esotismo. Ragion per cui non sono nemmeno particolarmente interessata a viaggiare. Datemi un pezzo di mare, anche nostrano, e due telline, e io mi sento già in vacanza.
 
Ciò premesso, ho visto luoghi pazzeschi, fatto confronti un tantino ingiusti, imparato cose non sempre importanti, comprato oggetti futili che oggi riguardo con piacere e comunque goduto di momenti stupidamente deliziosi mentre ero "sparsa" per il mondo.
 
Potrei dirvi che il mio posto del cuore si trova in quell'angolo di città vecchia a Gerusalemme (2010) dove ho chiesto la grazia (concessa) per Tonino, o sul muretto a secco su cui mi sono seduta a contemplare  la rosa bellezza di Petra (2013) ... e sarebbe  altresì vero confessare che ho provato emozioni fortissime in quelle algide giornate di gennaio a Oslo quando per mano a Nicolaus esploravo la casa natale di Ibsen (2011) e poi a Reykjavík quando, trattenendo il fiato, solcavo in macchina le strade ghiacciate in direzione della Blue Lagoon (2012). Né ho mai dimenticato la microbica Ullapool (1997) con le enormi navi da crociera o le acque grigiastre dell'Elbe viste da casa Waschk a Oewelgoenne (1987)
 
Ma è in Provenza, così vicina, così lontana, che è successo tutto.
 
Ed è in Provenza che - ogni volta - il mio cuore batte e ribatte come latte dentro una bottiglia di vetro.
 
Per questo vi ritorno.
 
Per ricordare che, se sono stata così felice, allora posso esserlo ancora. E ancora. E ancora.
 
Questo carnet di viaggio è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista "Grazia", nel 2002, nell'ambito di un concorso letterario sui Diari di Viaggio. Mi classificai seconda. I diari originali, due piccoli taccuini neri acquarellati, piacevano a mia madre, così glieli regalai.
 
Il testo contiene due sostanziali finzioni letterarie che non mancano mai di divertirmi. Ormai potrei svelarle ma un segreto, anche se innocuo, ha una sua preziosità, e tengo a conservarla.
 
C'è un particolare, inoltre, che mi fa tenerezza. Esistevano ancora i franchi!]
 
 
I diari, chiusi con una cordella,
così come li mandai a
"Grazia"
 
Prima o poi in Provenza
 
Torino, 5 agosto 2001
Saremmo dovute andare subito da Roseline. Io, a Clelia, l'avevo detto sin dall'inizio. Ma lei ha nicchiato. "Ci sono tanti posti lungo il percorso", ha ribattuto. "Mica vorrai perderli per finire a Fontaine de Vaucluse". Per carità, no. La  mia idea era piuttosto di stabilire una base - e che base! - da cui esplorare quella specie di coloratissima bouillabaisse che è la Provenza. Ma partire è più importante che discutere, così mi adeguo. Clelia ha un principio di raffreddore. Fa fuori dozzine di Kleenex e io mi preoccupo. Ma tant'è... A letto si va e al mattino...
 
Torino, 6 agosto 2001
... da vere viaggiatrici alla vigilia di una nuova, emozionante avventura, ci si sveglia alle 11.30!  Con il bagaglio da preparare, la strada da studiare, il naso di Clelia che ricorda una perina di San Giovanni tant'è rubizzo... Insomma, un disastro, tutto da fare. E la cosa brutta è che viaggeremo a bordo di una Smart, quindi poche storie: guardaroba al minimo. sul momento mi dispero: sono vanitosa. Poi, reagisco, ottimizzo. Tenuta da giorno: jeans scampanati con magliette assortite (piegate a rotolino nel trolley della Tourister: magico). Tenuta da sera: calzoni bianchi garzati con coulisse e canotte "avanti". A scanso di equivoci, infilo anche 2 abitini sottoveste. Non si sa mai. Stipo trucchi e altro  in un paio di trousse e... via, sono pronta. Notare che le scarpe all purpose sono le fidate Camper e che quelle by night sono un paio di sobrissime infradito nere birmane! Oh, beh, di meglio proprio non posso fare.
 
 
I miei vestitini!!!
 
 
Comunque alle 15.30 di un assolato 6 agosto torinese carichiamo la Smart e partiamo. Clelia detesta l'autostrada - non che io l'adori - così raggiungiamo Cuneo e di lì la Val Varaita. E' un paesaggio giocondo quello che ci muove incontro, e chiacchieriamo serene, Clelia del nuovo lavoro che sta cercando a Milano, io delle cento, mille cose da impostare dopo una sofferta ma necessaria separazione. La strada s'inerpica decisamente verso Colle dell'Agnello e poi si abbassa di colpo... Intorno alle 18.00 ci avventuriamo in quel di Guillestre, poco al di là del confine, dove facciamo il primo Bancomat in valuta e il pieno. siamo un po' stanche, così decidiamo di pernottare in quella sorta di borgo pseudotirolese invaso dai gerani. Guillestre, manco a dirlo, non ci piace, pertanto presumiamo che non piaccia sa nessuno. In realtà dovremo girare 4 alberghi (o erano gerontocomi?) prima di aggiudicarci una quadrupla spacciata per doppia con i lampadari di pizzo stile sala da pranzo e le toiletries con su scritto "A Touch of Charm". Il WC è separato dal bagno, cosa che rende la pipì una faccenda terribilmente triste. Ci rinfreschiamo in fretta e furia, con un incolpevole controfiletto annegato nella panna e un orribile vinaccio acidulo che il patron ci consiglia di gustare in tutta calma (il tutto per FF 335). Ci provi lui...
 
Guillestre, 7 agosto 2001
 Al risveglio, il lampadario di pizzo del nostro alloggetto Tiroler ci sprona al check out più veloce della storia. Saltiamo ovviamente la colazione (la sala da pranzo rosa confetto non si affronta) e dietro pagamento di FF 410 riprendiamo velocemente la strada. Tanto charme, si sa, confonde... Confortate dai consigli della Lonely Planet, ci dirigiamo verso Digne in cerca di amenità e lavanda. Il viaggio si rivela piacevole, ma il raffreddore di Clelia conosce un'improvvisa recrudescenza e siamo costrette a cercare subito alloggio. Ce lo offre il modesto ma accogliente "Aiglon" (aiglon.hostellerie@free.fr) a Digne centro, dove per FF 355 ci conquistiamo una doppia d'angolo basic, ma dotata di 2 belle finestre, petit déjeuneur incluso. Clelia crolla sul letto, io pure visto che fa di nuovo caldo, e ogni esplorazione viene rimandata dopo le 17.00 quando, rinfrancate dal pisolino, ci fiondiamo all'Office du Tourisme per familiarizzare con la cosiddetta Route de la lavande. Scopriamo allora, con somma costernazione, che il Corso de la Lavande si è svolto il weekend precedente e che la lavanda - hélas - è stata tutta tagliata. Diavolo. Depresse, visitiamo comunque i dintorni, fissando i globi scuri e tosati della lavanda. Ci consoliamo con un pastis a Mézel e imbocchiamo quindi la Route Napoléon, in direzione di Castellane. Non abbiamo una meta, ci interessa la strada in sé, larga, sinuosa e giustamente famosa. Nei pressi di Barrême ceniamo all'aperto. E' una serata fresca, il vino si lascia bere, l'agnello aux fines herbes di Clelia odora di Ciociaria e la mia suprême di pollo in salsa al basilico è deliziosa. Ma è la crème brûlée a farci letteralmente impazzire. Facciamo il bis e, così riconciliate con la vita, torniamo all'"Aiglon". Il tempo di ammirare i fuochi d'artificio dalla finestra del bagno e ci sbrandiamo.

 

Digne, 8 agosto 2001
L'indomani il raffreddore di Clelia sembra quasi scomparso. L'entusiasmo ritorna e, dopo la delusione di Digne, decidiamo di spostarci verso il Mont Ventoux e di fare una capatina a Sault, altro centro di coltivazione della lavanda. D'accordo con Clelia, contatto finalmente Roseline Giorgis, artista e proprietaria della "Maison aux Fruits", una tenera chambres d'hôtes di Fontaine de Vaucluse, dove i miei soggiornano regolarmente di anno in anno coi loro amici più cari. Roseline, manco a dirlo, è diventata un'amica e la usa casa un rifugio fresco e gradito. La fortuna è dalla nostra, tant'è che ci aggiudichiamo una camera per due notti, 8 e 9 agosto. Wow! Galvanizzate, facciamo fagotto e raggiungiamo Sault. Intanto, piove. Ma che importa? Qui la lavanda sbuca ancora viola e rotonda alla terra rossa, mescolandosi all'origano selvatico nel profumare l'aria. Sostiamo a Sault per l'acquisto dei più cari sacchettini di lavanda che si possano trovare (FF 75 ma Clelia è tutta presa dal ricamino a mezzo punto che li fregia al centro), poi ci precipitiamo a Fontaine dove Roseline ci accoglie con calore. Perrier e pistacchi sulla sua bella terrazza in fiore e, più tardi, chiacchiere complici mentre lei stira le lenzuola per ogni ospite del giorno seguente. Le parlo del mio rapporto finito e Roseline sospira. "Ci sono passata anch'io", confida. "E ricominciare non è facile." Poi sorride. "D'altra parte", aggiunge con una scrollata di capo rapidissima e molto francese, "donne come noi non possono vivere senza passione". Io annuisco, folgorata da quelle semplici parole che mi fanno sentire per un attimo come l'eroina di uno dei tanti romanzi rosa che traduco.
 
 
Il negozietto blu lavanda
di Sault
 
 
A colpirmi è la semplicità, l'assoluta verità che esprimono. Passione, come farne senza? Eppure, per anni, ho creduto che serenità e benessere fossero sufficienti. Ma non lo sono... per fortuna. Comunque, mentre Roseline finisce di stirare, io e Clelia prendiamo possesso della folle camera che prospetta sulla terrazza. Il letto è giallo Provenza, con grandi cuscini matelassés. Un grandioso trompe-l'oeil agreste sostituisce la testiera mentre sulla destra, guardando dalla porta, conchiglie e biglie di vetro adornano la specchiera del lavabo, il piccolo armadio e le due ante di vetro smerigliato che celano la nicchia dell'idromassaggio. Ai piedi del letto, un'immensa vetrata vecchiotta, velata da tende veneziane e tralci di ficus, lascia filtrare la morbida luce dell'esterno. Come dice mamma, puro chic-kitsch georgisiano... Perché è proprio Roseline ad aver decorato ogni camera della "Maison aux Fruits" (giorgis@giorgis.com) Lo stabile è di per sé un capolavoro, con quella facciata stinta adorna di frutti in rilievo e le yucche che spuntano dai davanzali. Clelia, rapita, contempla anche l'ultimo pettine rosato prima di tuffarsi nella delirante vasca con idromassaggio che guarda... fuori! Quando ha finito, la provo io, poi m'infilo un abitino (finalmente!) e porto Clelia nella silenziosa Pernes. Al ristorante albergo "Margelle" (lamargelle@wanadoo.fr) gustiamo uno squisito foie gras in salsa bruna e una discreta grigliata per FF 490. Il giardino, con la bella pergola, è un amore. E pazienza se il cameriere orbo, per un'ora ci ignora, avendoci confuse con la verzura della fontanella...
 
Fontaine de Vaucluse, 9 agosto 2001
Il risveglio è lento e delizioso. La salute ci saluta tra i drappeggi della tenda, chiamandoci sulla terrazza che Roseline ha già approntato per la colazione. Tra ibischi rosa e improbabili bonsai di fichi, consumiamo una luta colazione a base di formaggi, marmellate casalinghe e macedonia, dopodiché facciamo una scappata nell'affollatissima Gordes. Il tempo di ammirare una borsa di paglia (a cui ahimè devo rinunciare in quanto più grande della Smart) e un paio di trapunte provenzali a fiorami, e ripariamo in riva alla Sorgue, il fiume che misteriosamente nasce a Fontaine (misteriosamente perché nessuno, nemmeno Cousteau, è mai riuscito a toccare il fondo della profondissima sorgente che ispirò a Petrarca le sue "chiare, fresche e dolci acque"): In un rigurgito di pazzia, andiamo in canoa fino all'Isle sur Sorgue. Arriviamo felici  ma stanche, così facciamo incetta di di formaggi e Sauternes e, col placet di Roseline, ceniamo in terrazza al lume di candela. Una serata tranquilla anche per Thelma e Louise.
 
Fontaine de Vaucluse, 10 agosto 2001
Ci svegliamo tardi e impigrite. Lasciare la "Maison aux Fruits" dispiace a entrambe ma salutiamo Roseline, saldando il ragionevolissimo conto (900 FF per 2 notti, colazione incluse) e riprendendo la strada. Ci dirigiamo verso sud, in Carmague, con l'intenzione di visitare Saintes Maries e la Salin de Giraud. Un vento stizzoso sferza la Smart fino alla costa. Lungo la strada ci fermiamo più volte a cercare alloggio ma invano. Ferragosto è vicino e questa zona di mare battutissima. A Saintes Maries, sorta di Riccione gitana, ci rivolgiamo come ultima risorsa all'Office du Tourisme. L'impiegato ci procura una camera in località Albaron. Il prezzo è modico e ci aspettiamo il peggio. Infatti, l'"Agachon" è quanto di più brutto ci sia capitato in questa vacanza. La stanzuccia trablocca di tessuti scadenti e moquette color can-che-fugge. But beggars can't be choosers, così buttiamo giù il bagaglio e fuggiamo alla Salin de Giraud. Il sale regala all'acqua surreali riflessi violacei, stormi di aironi e fenicotteri (bianchi perché solo quando si cibano di gamberetti, ora fuori stagione, assumono la caratteristica colorazione rosa) sgambettano tra le canne... Per ora, ripieghiamo sul ristorantino vietnamita di Saint Gilles.
 
L'Albaron, 11 agosto 2001
Il vento non dà tregua, così l'indomani saltiamo la spiaggia e facciamo una scappata nella deliziosa Aigües Mortes. Mangiamo le moules da "Coco" e, mentre paghiamo il conto (FF 130), sentiamo uno stuzzicante odorino di aglio dal tavolo vicino. Incuriosita, chiedo all'affannata proprietaria di che piatto si tratti. Ma lei è talmente presa da non afferrare. Io ripeto la domanda, sintetizzandola con "Cette odeur dans l'air...?" Al che lei sorride vagamente e, continuando a non capire, sentenzia: "Ah, oui, le basilique!". E via che se ne va, mentre io e Clelia scoppiamo a ridere. Il "basilique", chiaramente, diventerà il nostro mantra. Girelliamo fino al primo pomeriggio, poi ci concediamo un giro a cavallo. La Camargue è bella col sole che degrada all'orizzonte tra ciuffi di canne e grovigli di more... Per cena, scegliamo Arles, con la sua incongrua Arena. Il ristorante risulta caruccio, FF 506, ma l'aioli provenzale è un sogno, per non parlare della Marmite du Pecheur.
 
Tra Albaron e Torino, 12 agosto 2001
Ce la caviamo con poco all'"Agachon", FF 660 2 notti, ma "che brot post", come si dice a Modena. Tanto squallore addolcisce l'immancabile rientro, tutto in autostrada per ragioni di velocità.
Torino è più calda della Marmite du Pecheur, tuttavia non mi lamento. Questo viaggio dell'anima, che presto sarà cibo buono e prezioso per l'inverno,  mi ha fatto un gran bene. Perché la vita ha un modo tutto suo di ricordarti che è bella. Soprattutto, ricomincia di colpo e senza una ragione particolare. Può accadere dovunque e in qualsiasi momento. A me è successo tra i cari, vecchi muri della "Maison aux Fruits". Clelia, Roseline, grazie...
 
 
L'ultima pagina
del secondo carnet di viaggio.