lunedì 12 dicembre 2016

Assaggio o passaggio?


Sperimentare è crescere, dicono. Uscire dagli schemi ha un effetto rinfrescante. Cambiare può essere fonte di stimoli ed ispirazione. Ma i nostri gusti hanno una memoria che innesca il confronto. Ed è a questo confronto che deve saper reggere ogni rinnovamento per funzionare.
Gli odori risvegliano ricordi lontani. Lo fanno anche i sapori. E la madeleine proustiana è diversa per ognuno di noi. Se ci aspettiamo di sentire un gusto e poi ne sentiamo un altro, ci sentiamo spiazzati. Quanto meno, per me è così.
Come mangiare una pesca che però sa di caco.
Magari non è male. Ma non è una pesca. Quindi, perché chiamarla così?
 


Vi dico che sto diventando più buona!
Ieri sera, con la Barbara, ho provato questo ristorantino che non conoscevo. Avete presente quei posti cui passate sempre davanti ma che per una ragione o per un’altra non vi hanno mai attirati dentro? Ecco, uno di quelli.

Ottimo l’antipasto, sfizioso il secondo. Momento dei dolci… ta-tan! Ce ne elencano cinque ma le nostre orecchie si sono già drizzate al primo: “cheesecake”. L’adoriamo entrambe (persino io che sono più “da salato”), pertanto ordiniamo quella.

Di lì a breve il cameriere ci serve due fette di torta molto gialla.
<<Ma è gialla>> mi fa notare la Barbara con una certa ovvietà.

<<Non sembra una cheesecake>> rincaro io visualizzando con rimpianto l’algido candore di una vera cheesecake con Philadelphia e tutto.
La Barbara è perplessa. <<Bah, sentiamola.>>

Annuendo, affondo la forchettina in tutto quel giallo.
<<Fa schifo>> dice la Barbara dopo il primo assaggio.

<<Sì>> ne convengo mentre cerco di deglutire il boccone del più assurdo “assorbi-saliva” che mai mi sia capitato negli ultimi tre anni. Per la cronaca, “assorbi-saliva” è la definizione che mia sorella Francesca Romana applica a tutti quei dolci tipo bensone e torta margherita che sembrano super-promettenti ma in realtà sono dolci e basta, e che fanno della tua bocca un deserto di arsura e del tuo animo un pozzo di nostalgia (per gli ottimi dessert pregressi).
<<Diavolo, avevo così voglia di un dolce buono….>> brontola la Barbara partendo con la seconda forchettata.

Io scosto il piatto. <<Ma lascialo lì, no?>>
<<È che subisco la malia del dolce>> si difende lei. <<Anche se questa roba non ha proprio nulla della cheesecake. Guarda il fondo.>> La sua voce si alza di un’ottava. <<Mica è di biscotti.>> Adesso il tono è proprio sprezzante.

<<Sembra pasta frolla>> ammetto io. <<Basta. Rinuncio.>>
Più tardi, alla cassa, dove trovo la titolare (credo), mi sento in dovere di dire: <<Ottimo tutto, tranne la cheesecake>>.

La tipa mi guarda e, senza battere ciglio, dichiara: <<Ma quella non è mica una cheesecake. È una torta di ricotta e pasta frolla>>.
<<Quindi perché la chiamate “cheesecake”?>> chiedo io.

<<Perché ha sbagliato il cameriere. Lo dico sempre, ai ragazzi, di non chiamarla “cheesecake”!>>
Reclamo evaso. La colpa è del cameriere… un po’ come in quei gialli dove l’assassino è invariabilmente il maggiordomo.

Capisco l’antifona (la giallona doveva essere opera della titolare), così taccio.
Paghiamo ed usciamo, con la Barbara che dice: <<Ti potevi anche risparmiare. Tanto, non si ottiene nulla a protestare>>.

Ha ragione lei, non si ottiene (quasi mai nulla) a protestare. Io però qualcosa l’ho ottenuto. Mi sono accorta infatti di essere diventata più buona.
Solo due anni fa avrei detto alla signora: <<Il cameriere avrà anche sbagliato a nominare la sua “assorbi-saliva” cheesecake, tuttavia è un fatto che la sua torta di ricotta fa rimpiangere la segatura!>>.

E solo due anni fa avrei fatto una croce sopra quel posto (invece ci tornerò perché tante altre cose mi sono piaciute).
E solo due anni fa vi avrei detto il nome del locale!

Invece no.
Sono o non sono più buona? Eddai….!!!

venerdì 19 agosto 2016

Parole di un lontanissimo luglio

 
 
Agosto è per me un mese di quadrature.


Non vado in vacanza. Odio l’afa, odio la ressa, odio gli appuntamenti obbligati che associo alla mia vita precedente. Così me ne sto a Modena, tranquilla.

Chiudo il primo semestre lavorativo e mi preparo al secondo, che è in realtà più corto, un quadrimestre che mi porta – esaurita ma quasi sempre viva - al Natale. Consuntivo eventi, scrivo report, archivio mesi di corrispondenza, riorganizzo il guardaroba, spolvero (malvolentieri) la libreria, qualche volta dipingo e generalmente faccio un gran casino dappertutto, illudendomi però di riordinare.

Così ieri, quando ho riaperto la scatola color Manila che tengo a destra della barbotine con gli iris, certo non pensavo di rivivere un istante di lucida follia d’antan. Solo di stanare un po’ di polvere. Ma forse l’ho anche fatto… perché sono uscite queste parole di un lontanissimo luglio.

Come direbbe qualcuno, “scritte appena ieri”.

Il foulard

E per tutte le volte che ho taciuto,

esitando tra le pieghe del foulard a fiori

che tanto detestavi,

avrei dovuto dirti

che non era come pensavi,

che non lo sarebbe stato mai.

Non per qualcosa

che non avevo fatto io

ma per tutto ciò

che non eri né potevi

essere

tu.

Invece non l’ho mai detto,

non ho parlato,

e tu hai scambiato il mio silenzio

per quieta contentezza,

finché

un giorno,

a mia volta,

non ho scambiato io

te.

Col niente

(meraviglioso)

di un nuovo inizio.

sabato 16 luglio 2016

Eravamo 4 amiche...


... sulla terrazza
 
Una delle rare volte in cui Pippo uscì con tutte e 4
(Clelia non si vede perché ci sta fotografando)
 
Di recente mi sono sentita rimproverare che scrivo più sui morti che sui vivi. Ma i morti non sono diversi dai vivi, per me. Essi continuano a esistere come se niente fosse successo. Perché l'amicizia, come l'amore, valica l'assurdità di ogni confine, spaziale e temporale. I morti sono morti solo se cessiamo di parlare di essi.
 
Inoltre, non si sceglie generalmente di morire. Capita.
 
Già è una iella. Perché dovremmo quindi ostracizzare coloro che se ne debbono andare, dimenticandoli?
 
Sappiate che non lo farò.
 
AMICHE D'IMPORTAZIONE
 
Se dovessi raccontare come ti ho conosciuta, non saprei. Senz’altro ci avrà presentate Clelia, perché eri amica sua.
 
Sapevo del tuo lavoro, che ti piaceva, che eccellevi a farlo.
 
Sapevo che eri a posto, che eri sarda e che avevi tanti fratelli e sorelle.
 
All’epoca mi parvero buoni presupposti e semplicemente mi accodai alle altre, Clelia per prima, nell’esserti amica.
 
Ogni tanto si usciva (ma poco, perché a Torino state tutti in casa) e molto più spesso si cenava in terrazza da te.
 
Casa tua mi piaceva perché stava sui tetti, come un nido tra i gelsomini, ed era bianca come non sono mai (state) le mie case.
 
S’entrava dal pianerottolo e ti salutava un George Clooney cartonato… quando George Clooney era ancora figo e si potevano fare dei gran bei party.
 
Poi a destra si apriva il bagnetto che era beige e bianco, delicato. Davanti la camera, rigorosa come io non so essere, e a sinistra voilà la zona giorno.
 
Mi piaceva il pizzo che avevi steso sul divano perché lo impreziosiva senza renderlo lezioso.
 
Mentre avevo in antipatia il sistema di carrucole e fili a cui erano appesi i quadri. Io sono una donna da chiodi e martello ma tu volevi le pareti perfette, e i tuoi dipinti– ricordo una luna tra i rami, declinata in vari colori – pendevano… ma letteralmente.
 
Poi c’era un lungo tavolo rettangolare, severo, solo che non cenavamo mai lì.
 
No, stavamo in terrazza, noi, col divanetto a righe bianche e verdi da una parte e il tavolinetto stretto dall’altra, e davanti i fiori che a volte erano rigogliosi e a volte un po’ fané. Non ho mai capito se tu fossi un pollice verde irrisolto o la negazione totale. Le piante crescevano con te ma avevano sempre una qualche disavventura. O l’irrigatore scioperava o il clima remava contro o la piantagione non era avvenuta nella maniera corretta. C’era sempre qualcosa, eppure la terrazza aveva il suo involucro verde e in quell’involucro – al suo centro - spuntavamo noi.
 
Le ragazze. Che non erano e non sono ragazze da quel bel po’ ma tant’è…
 
In realtà c’era anche un “boy”. Pippo. Ora, Pippo usciva volentieri con noi… purché non fossimo più di tre. Se eravamo quattro, ecco, già non andava più bene. Si sentiva accerchiato, diceva, quando attaccavamo tutte a parlare di uomini (scadenti), diete (mai terminate), disturbi (femminili) e shopping (il mio, l’unica ad avere le mani bucate). Però - fino a tre - ci sopportava e addirittura si divertiva. Lo scherzo tra di noi era che Pippo adorava Clelia, però avrebbe sposato Anna Maria a patto di venire a letto con me. E tu, che ogni volta assistevi a siffatto siparietto, scoppiavi a ridere e noi con te.
 
Perché sì, Pippo o non Pippo, ci facevamo compagnia, ognuna col suo passato che spesso ridiventava presente. Clelia che incredibilmente aveva smesso di fumare. Anna Maria che tra un preventivo e l’altro ti foderava il famoso divanetto a righe. Tu che guardavi il grattacielo crescere e lo trovavi anche bello. E poi venivo io, anche rottamata da ultimo ma col mio immancabile abitino a fiori che chiaramente non piaceva mai a nessuna di voi se non a me.
 
Non siamo mai state veramente assortite ma nella tavolozza di Sorolla c’era posto per tutti i colori, e così è sempre stato per noi e per le nostre cenette.
 
Dove naturalmente non c’era mai niente da mangiare, a sentir te.

 Il frigo era vuoto, la cuoca era manchevole e la cucina in sé non valeva niente.
 
Salvo dopo scoprire che il frigo ospitava un branzino intero (!), che la cuoca sapeva cucinarlo eccome e che il forno, ancorché immeritevole, sapeva fare il suo dovere.
 
E nemmeno mancava mai quel buon vinello bianco che mescevi generosamente.
 
Ma tu eri fatta così.
 
 Eri modesta.
Ora, io conosco tante persone e quelle che frequento con piacere sono tutte molto intelligenti.
 
Sono anche complesse, talora difficili. Se dovessi descriverle, direi che sono speciali, un po’ nevrotiche, spesso contradditorie, se non eccessive.
 
Hanno passione, fantasia e talento, e ne hanno consapevolezza, cosa che le rende più o meno presuntuose.
 
Ma tu, più intelligente di tutti (noi), eri autenticamente modesta.
 
Un ossimoro che mi piaceva avere per amica.
 
L’altro giorno mi hai nominato la bottarga. Sai, piace molto anche a me.
 
Non la mangeremo tanto presto insieme (quanto meno non mi è dato di saperlo) ma volevo dirti che in settimana, di ritorno a Modena, vedrò di farne buona scorta e di organizzare una bella cena in giardino. Ci sarà la bottarga, ci sarà un buon vinello bianco, e nel mio cuore ci sarai anche tu, cara amica d’importazione.
 
I gelsomini saranno sfioriti e la vista senza tetti sarà diversa.
 
Ma non serve la realtà quando c’è la memoria.
 
Non trovi anche tu, Sina?
 

    Io e Clelia, un'amicizia che dura da anni