Ma come ti vesti?
Più che alla moda, vesto in modo femminile, tradizionale. Per questo continuo a portare abiti anche vecchi. Sono sempre attuali perché in fondo non lo sono mai stati veramente. Mi piacciono le tinte vivaci, impazzisco per le fantasie a fiori, apprezzo la semplicità del cotone e ho un debole per il verde.
Vestirmi mi diverte, a volte mi rassicura e spesso mi aiuta a superare qualche impasse.
Non c'è momentaccio che un bel colore (addosso) non aiuti a stemperare.
E con l'abito giusto tutto diventa più affrontabile.
Quanto meno, per me, è (stato) così.
Scorcio del mio guardaroba
DressCrossing!
Torino, 30 agosto 2013
Due sera fa ho
fatto una scappata in lavanderia.
La settimana prima
avevo consegnato tre cappotti che mi ero scordata di far lavare a maggio, più
un abito di Twin-Set che adoro perché è bianco nel corpetto, nero a livello
della gonna a ruota, con un inserto color cappuccino che s’incrocia mollemente sotto
il seno formando un fiocco elegante.
Quanto meno, pare
a me.
Che il fiocco sia
elegante, cioè.
Di solito me lo
stirano come capita, tanto che mi tocca spianarlo con le dita perché le cocche
non mi ricadano sul davanti come le orecchie biondo miele di un cocker spaniel.
Questa volta però non c’era niente da spianare perché il fiocco, lui, non c’era
più!
Diavolo.
Stranamente me ne
sono accorta nell’attimo stesso in cui ho aperto il portoncino d’ingresso. Dico
“stranamente” perché è (molto) difficile che mi soffermi sugli abiti che
ritiro. Spesso li appendo col cellophane e tutto al brutto pallottoliere nero
del guardaroba oppure li ripongo nell’armadio grande, quello della nonna
Beatrice con l’anta centrale a specchio e i due elementi laterali alti e
stretti. Anche così, passano mesi prima che mi capiti di rimetterli, visto che
nella mia vita c’è tutt’al più carenza di uomini ma certo non di indumenti.
L’altra sera, però,
stringevo troppe cose tra le braccia. I cappotti, l’impermeabile nero con la
tasca destra rattoppata malamente, due abiti estivi e una gruccia con quattro
sciarpe stirate, anch’esse lavate in ritardo quando ho fatto il giro degli
armadi… a fine agosto (vergogna). E poi avevo le chiavi di casa col ciondolo a
forma di Tour Eiffel del Westin Paris, il blackberry, la borsetta lunga e
stretta di H&M, il “Grazia” tirato fuori dalla buchetta delle lettere… il
tutto in precario equilibrio sul manubrio della bici che stavo tra l’altro
infilando nell’ascensore.
Pur abitando in un
condominio di pseudo-lusso, non ho infatti il permesso di lasciare la
bicicletta nel cortile, che pure esiste ed è anche bello grande. Non esiste uno
spazio comune. O se esiste, è il segreto meglio custodito di via Domodossola
48. Torino sembra tanto evoluta ma, quando si tratta di biciclette, fa proprio pietà,
se è vero che le rare piste ciclabili sono irte di pericolosissimi paletti (via
Bertola) oppure finiscono nel nulla cosmico (Piazza Adriano) o in qualche
temibile ingorgo (corso Castelfidardo), e che le rastrelliere per le due ruote
sono più rare di una zebra albina in un boschetto di gingko biloba al tramonto.
Ma, tant’è, qui
vivo e lavoro, pertanto la bici me la devo portare su in casa e parcheggiarla
addirittura in soggiorno. E fortuna che l’ascensore è più lungo che largo,
perché la Rosina – la ciclo di Torino, sorella minore della Maggie di Modena,
rispetto alla quale è più giovane ma altrettanto brutta, solo color rosa maiale
– è piuttosto ingombrante, con le sue ruotone un po’ scassate e i cestini di
rete nera. L’ho scovata tre anni orsono in una rivendita dimessa vicino a Corso
Montegrappa e ricordo di averla pagata venticinque euro. Circa il cinquanta
percento meno dei due lucchetti da moto che adesso la corredano e senza i quali
non avrei più da tempo una bicicletta… visto che a Torino sparisce tutto (nel
2009 anche la mia Alfa grigio perla!)
Comunque, quella
sera, ero veramente stracarica quando mi sono introdotta - bici, lavanderia
ritirata e tutto - nell’ascensore azzurro col brutto pavimento di granito
grigio e ho schiacciato il tasto del secondo piano, scala B, dove abito dal novembre
del 2008. Il manubrio, piegato ad angolo acuto con sopra la montagnola di abiti
e oggetti, ha avuto un involontario scossone quando ho allungato il braccio
verso la pulsantiera… tanto che le sacche della lavanderia hanno incominciato a
franare verso il basso, creando quell’inesorabile effetto “garandella” tipico
della plastica trasparente. Per reazione ho agguantato il primo indumento della
pila, il Twin-Set tricolore e, mentre lo riportavo con vigore verso l’alto, mi
sono accorta che il fiocco centrale (oddio, oddio, oddio) non c’era più!
Ora, esistono
fatti assai più gravi e ne sono del tutto consapevole.
Ma visto che
l’attuale lavanderia è già frutto di un accorto screening dopo che il fornitore
precedente mi aveva rovinato l’abito-coi-fiori-non-ancora-appassiti che indossavo
l’ultima volta che ho cenato a casa di Tonino, sostenendo che a stingerlo ero
stata io (notare bene che l’abito era ancora nella busta, col numeretto pinzato
del negozio e la ricevuta del pagamento) e che comunque mi sarei dovuta lagnare
“subito, dopo non valeva più”, mi è venuto un colpo.
Di nuovo cornuta e
mazziata? Eh, no!
Così, ho aperto la
porta di casa, ho appoggiato la bici contro il divano, ho sollevato dal mucchio
selvaggio il vestito mutilato e sono ridiscesa a precipizio.
Salvo scoprire che
del fiocco – giù in lavanderia e nella memoria del titolare - non c’era traccia…
anche se senz’altro “sarebbe venuto fuori”.
L'abito di Twin-Set col fiocco!
In effetti così è
stato. Ieri l’ho recuperato con molte
scuse e finalmente ho avuto pace… prima di scoprire - porco gatto! - che
l’abito a trapezio di Carla G., portato a lavare contestualmente al recupero del
fiocco, reca un’ombra sospetta sulla banda finale bianca che solo difficilmente
verrà via.
Perché è un fatto
che passo da un disastro all’altro, e non solo coi vestiti!
I vestiti però
sono la mia debolezza. Un po’ perché li amo, un po’ perché spesso, inconsapevolmente,
mi sono stati più fedeli delle persone.
Una camicia da
notte ti conosce meglio dell’amica del cuore... se continui a portarla negli
anni, anche quando il pizzo si è ingrigito e la maglina si è lisa per i tanti
lavaggi, e il completo no-nonsense che metti al lavoro sa esserti più fedele di
un moroso dei Gemelli se prima di riporlo lo spazzoli perbene o magari lo
rinfreschi con una stiratina al vapore. Per non parlare di quel piccolo cardiganino
sintetico che, nelle mezze stagioni, quando le serate si fanno brusche, ti
scalda più di un abbraccio inaspettato o della classica petite
robe noire che, pur essendo un “saldino” comprato più per noia che per bisogno,
ti risolve le serate più problematiche, facendoti sentire carina con poco.
I capi di abbigliamento si fanno apprezzare
primariamente perché sono assidui e secondariamente perché sono contigui.
Inoltre, non fanno
commenti, non ti sgridano e, se anche ti stanno male addosso, non te lo dicono.
Magari te lo fanno capire, riflettendosi nello specchio con un assortimento di
grinze, rigonfi e aderenze da Museo delle Cere. Ma anche qui si guardano bene dal
palesare.
Un po’ come a fine
agosto, quando nell’ormai famoso e tardivo giro degli armadi mi sono provata (o
per meglio dire misurata, come dicono qui
a Torino) il tubino glicine di Sinequanon e ho scoperto che 1) sono ingrassata
2) sono invecchiata 3) non ho più la faccia per gli abiti sopra il ginocchio.
Una stroncatura.
Ma l’abito, carino,
non ha detto niente, lui. Il tessuto di gabardine si sforzava di cadermi bene lo
stesso e il taglio sapiente evidenziava lo stacco della coscia, quasi a dirmi:
“D’accordo, hai 48 anni e faresti meglio a cambiarti, però sei ancora una bella
penna.”
Per questo ho
provato una fitta una volta che mi sono tolta il vestito.
Perché ho capito
che dovevo scartarlo.
Poche azioni al
mondo mi procurano un disagio più vivo.
Sono una shopper
compulsiva. L’unico verbo che veramente si applica alla mia persona è “accumulare”.
Tutt’al più associabile con azioni tipo “tenere”, “conservare” , “preservare” e,
sì, anche “custodire”.
Gettare mi fa
male. Non solo gli abiti, ma tutto. Posso mettere, non dismettere.
Soffro quando affronto
lo spoglio delle riviste. Devo prima sfogliarle e riguardarle tutte, e magari
ritagliare anche qualche immagine colorata – fiori o ricette o la pubblicità di
un bel flacone di profumo - prima di destinarle al bidoncino per la carta della
raccolta differenziata.
Sospiro se devo separarmi
da una ciotolina sbeccata. Anche perché quelle che uso abitualmente mi vengono
da qualche viaggio. Il lavafrutta color avorio con le macchie blu smaltate, per
esempio, non è più deliziosamente perfetto come quando l’ho comprato al
mercatino di Saint Remy de Provence quella mattina d’ottobre mentre viaggiavo
col cliente più noioso del mondo (bulloneria, Gesù). Però, è così tenero quando
vi sciacquo l’uva nera e poi la sgrano che proprio non riesco a buttarlo via. E
la piccola raviera gialla col decoro nero a puntini si è data una bella
incrinata la volta in cui mi è scivolata nel lavello… ma fa talmente Marrakech
col riso al vapore dentro che non posso nemmeno pensare di destinarla al
pattume.
E decisamente mi
agito nell’affrontare il cassetto delle mutande, con le terribili scelte che esso
pone. “Butto il reggiseno che mi ha regalato la Checca prima di Milano 2 La
Vendetta oppure lo tengo in un angolino, per ricordo, visto che non ci sto più
dentro e che tanto non lo metterei?”. “Elimino la culottina Malizia di tulle
verde bottiglia con le margheritine ricamate che mi ha regalato l’Adele troppi
compleanni fa o le faccio fare un altro giro anche se l’elastico non tiene come
prima?”. “Caccio via il body della Perla con la spallina slabbrata o lo
conservo per quando faccio ginnastica con la wii e non mi/lo vede nessuno?”
Sono dilemmi sostanziali…
e laceranti, perché questi capi, magari stinti o vecchi o lisi o fuori moda, mi
hanno comunque servita egregiamente, e mi sono affezionata.
Va però da sé che
lo strazio per eccellenza si manifesta quando entrano in gioco loro, i vestiti.
E di vestiti, letteralmente, si tratta perché da circa una decina d’anni porto
solo quelli.
I jeans sono così
duri che mi grattano le anche, i pantaloni in generale mi pizzicano la pancia, i
tailleur mi ricordano di quand’ero una hostess sottopagata o un’infelice moglie
anni Novanta, e le gonne, che pure esistono nel mio guardaroba e incontrano
sostanzialmente il mio gusto, non mi danno la soddisfazione di un bell’abito
fluente che scivola lungo il corpo senza costringermi.
Costringermi a niente.
Col risultato che
ho quasi solo vestiti.
Però, di tutte le
fogge e i colori, per non parlare delle fantasie. Righe, fiori, quadretti, pois,
geometrismi, motivi animalier… sono tutti miei, se le tonalità sono giuste. E
non importa che il modello sia firmato. Le griffe m’importavano - anche molto -
quand’ero giovane e meravigliosamente sciocca, e gli anni del divorzio, la devastante
miseria che ne è seguita mi hanno guarita totalmente dall’amore per le (grandi)
firme. Adesso che a firmare sono solo io, i vestiti che amo di più escono da qualche
banchetto di Piazza Benefica oppure da quel posto delizioso che è il cotonificio
Leumann di Collegno. Non che lo sia più, un cotonificio. Di quell’era da
Rivoluzione Industriale è rimasto giusto il complesso di villini in stile
Liberty con la bella stazionetta. Ma è qui che Diffusione Tessile, un outlet di
abbigliamento femminile d’alta gamma, ha il suo punto vendita torinese.
Il mio incontro con
questo marchio data dalla primavera del 2011. Ero andata in Romagna per ispezionare
una struttura alberghiera che conoscevo soltanto per sentito dire. Al ritorno,
mentre transitavo su un’orribile statale in direzione dell’autostrada, ho notato
una serie di coloratissime vetrine in località San Giovanni in Marignano. Non
conoscevo il marchio giallo acceso con l’attaccapanni nero al centro ma ne sono
rimasta comunque incuriosita, così ho fatto una deviazioncina strategica e sono
andata a buttare l’occhio. Non avevo molto tempo a disposizione, dato che mi
aspettavano a Modena in serata, ma non è che questo mi abbia mai impedito di
fare qualcosa nella vita. A riprova, in ventisei minuti secchi ho comprato
sette abiti e due cappelli per un importo complessivo di 297,00 euro. E tutti bellissimi, colorati, eleganti,
originali… insomma, un vero affare!
Dico “vero
affare” perché è l’espressione di cui solitamente mi servo con mia madre per
giustificare un acquisto inutile.
Acquisti utili non
ne faccio perché non mi piacciono, per cui finisco quasi sempre per comprare cose
che non mi servono… se non a rendermi felice.
Giustificarmi,
però, devo perché ho 10 di tutto, e lo stesso non ne ho mai abbastanza.
Non so da che cosa
dipenda, se da una smodatezza congenita o piuttosto dagli anni
dell’adolescenza, quando gli abiti erano pochi, praticamente contati. A quei
tempi – parlo degli anni Settanta/Ottanta - la qualità aveva ancora la sua
importanza, pertanto si comprava bene ma con oculatezza, e secondo ritmi cadenzati,
quasi rarefatti. Certo, se capitava l’occasione importante, allora fioccava la
mise più idonea. Mamma per esempio mi vestiva invariabilmente da Max Mara per
le cerimonie. Ma non è che matrimoni e battesimi fossero all’ordine del giorno
e, per quanto riguarda le ricorrenze che mi coinvolgevano in prima persona…
beh, nemmeno pregando in ginocchio, mi sarei potuta far comunicare o cresimare più
di una volta. Possedevo un paio di cose favolose, alcune carine, altre più
andanti, qualche indumento smesso da mia sorella e riciclato ad hoc per me, un
bel cappotto o giaccone imbottito… e finito lì.
Non era un
guardaroba ricco, però era convenzionale, conforme ai tempi e al budget di una famiglia
benestante ma conservatrice che doveva tirare su due figlie, non particolarmente
capricciose ma comunque adolescenti e vogliose di capi sempre nuovi da
sfoggiare. Mia sorella Francesca Romana, essendo più grande e comunque dotata
di fattezze femminee, poteva contare su una rosa più ampia di invidiabili
capetti. Tipo il prendisole bianco e rosa di AdaniSport col corpetto a punto
smock che mamma le aveva regalato per la crociera del diploma oppure la giacca
a quadrotti nei toni del rosa e del verde che si sposava così bene con la gonna
a pieghe di Biba. Ma io sembravo un gambo di sedano. Tutti mi scambiavano per
un ragazzino scoliotico, ed ero vestita di conseguenza, con maglioncini e
pantaloni pratici che il mio busto ortopedico, un demoniaco corsetto di
plastica rosa e alluminio detto “alla marsigliese”, provvedeva a bucare con automatica
precisione.
A subire i danni
più grossi erano canottiere e camicette. Col fatto che – quando mi mettevo a
sedere – appoggiavo la schiena alla sedia, il tessuto si tendeva contro il
perno centrale del busto. Per un po’ resisteva alla continua frizione e non succedeva
niente. Ma a lungo andare, tra lavaggi e ripetuti sfregamenti, ecco che si
assottigliava fino a bucarsi e, a quel punto, s’innescava l’elaborato rammendo
che, chiaramente, non teneva mai.
Odiavo i rammendi,
perché mi ricordavano il busto e il busto mi ricordava la scoliosi da cui ero
affetta e la scoliosi mi ricordava che, delle mie amiche, ero il più cesso.
Quella senza
ragazzo, insomma.
Mi vestivo per
nascondere il busto. Nel farlo, cercavo di migliorarmi. Solo che le cose da
mettere erano sempre quelle e, comunque non sarebbe certo stata una camicetta,
tra l’altro rammendata dalla nonna, a fare di me una silfide.
Crescendo, presi
l’abitudine di sottrarre le cose a mia sorella. Solo che poi questa se ne
accorgeva e – apriti cielo! – non solo lo diceva alla mamma (che mi sgridava)
ma mi faceva nera, atteggiandosi a vittima quando in fondo la vittima ero io,
dal mio punto vista, ovvero la
sorella-che-sembrava-un-fratello-e-che-per-giunta-portava-anche-il-busto!
Ma, tant’è, il
furto recava la mia firma e tra l’altro ero anche idiota, visto che mi
macchiavo serialmente e bucavo tutto col busto. Per cui non solo usavo le cose
della Checca ma sovente gliele rovinavo anche! A ben pensarci, ero veramente perniciosa,
quasi malefica. All’epoca però mi sembrava di avere tutte le ragioni del mondo.
Quando si è infelici, è così che si pensa.
Verso i quindici
anni, smisi di portare il busto e diventai quel pelo più carina, brufoli
permettendo. Il mio guardaroba si arricchì di qualche abitino di Fiorucci
comprato nell’allora negozio di Marengo di Piazza Mazzini… ma niente a
confronto dello sconfinato vestiario che vantavano le mie nuove amiche del
liceo linguistico privato “Mercurio” a cui mi ero iscritta. La più indigente era
figlia di un industriale, e il suo concetto di tenuta sportiva incominciava con
Les Copains e terminava con Burberry, passando per Lacoste e ritornando via
Ralph Lauren. Poi venivano le compagne più chic che compravano solo da Montorsi
Via Emilia, e mai a saldi, e avevano addirittura due o tre buchi nelle orecchie!
La Chiara, non a caso soprannominata Rockfeller, esibiva nei giorni feriali più
gioie della vetrina di Caroceli a Natale mentre la Claudia aveva già da ragazza
scarpe da “grande”. Le mie preferite erano quelle di velluto color ciclamino perché
avevano il cinturino alla caviglia e addirittura la punta, un’innovazione assoluta per me!
Il confronto non
mi ha mai spaventata né intimorita, per cui mi arrangiavo. O depredavo per
l’appunto quella poveraccia di mia sorella oppure facevo incursioni
nell’armadio della mamma… di cui potevo però riciclare molto poco, vuoi per i gusti
differenti (mia madre è oltremodo classica ed è praticamente tricromatica),
vuoi per la taglia (certe forme, io non le possiedo nemmeno ora). A volte
fregavo le sciarpe al babbo se era inverno, e quando proprio mi mancava
qualcosa, tipo un accessorio, beh, allora me lo creavo di sana pianta!
Tipo la volta in
cui mi fabbricai una fusciacca bianca con mezzo metro di plastica acquistata
alla Pirelli di Corso Canalchiaro e una manciata di fermacampioni color ottone.
O come quando mi lavorai a uncinetto – un’impresa titanica – quel terribile maglioncino
nero e bluette su cui (non paga!) ricamai la scritta I Love
New York con le paillettes. Quelle horreur.
Certo non passai alla
storia come stilista e sicuramente non brillai mai per eleganza. Tuttavia, ero
originale e, per quanto mi conciassi, almeno avevo il mio stile.
Una cosa buona, il
busto, poi, me l’aveva lasciata: il portamento. Camminavo come Soraya Esfandiary
Bakhtiari, e
pazienza se rassomigliavo a Victor prima di diventare Victoria.
Il desiderio di “maggiorare”
il mio guardaroba esplose in quarta liceo e si scatenò nei mesi in cui, appena
diciottenne, feci una stagione in Valtur in quel di Nicotera, Calabria. Correva
l’anno 1983 ed ero stata presa come hostess per via delle lingue. La boutique
del villaggio traboccava di copricostumi bellissimi, e c’erano ciabattine di
gomma con sopra una gardenia bianca o una dalia fucsia, una sciccheria
ultramoderna per allora! Guadagnavo soltanto 500 mila lire al mese che duravano
secondi nelle mie mani bucate. La povera mamma doveva, brontolando, foraggiarmi
da casa perché naturalmente non ci stavo dentro, visto che spendevo tutto in
sigarette (fumavo dalla seconda liceo, anche tanto) e abbigliamento.
Perché, sì, la mia
vanità era al culmine.
Logico: ero
(finalmente) diventata carina. Il busto non c’era più, i brufoli nemmeno, gli
occhiali evitavo di metterli e, dulcis in fundo, mi ero schiarita
i capelli, tanto da sembrare una biondissima valchiria.
Finalmente bionda!
Ero felice. Così mi
vestivo. Anzi, meglio: mi travestivo. Il pareo bianco e azzurro col costume
intonato e l’ibisco nei capelli che non era mai dello stesso colore. L’abito dorato
da sirena che mi aveva confezionato l’affascinante scenografo gay di Roma per
lo spettacolo del dopocena. Il lenzuolo rubato al letto per la serata araba e i
gioielli fatti con anelli d’ottone di una tenda vecchia. Il grembiule a righe
bianche e rosse ricavato da uno strofinaccio rotto per la festa contadina. Per
non parlare del costume da cabaret confezionato con uno scampolo di fodera nera
e sapientemente abbinato alle scarpe anni Cinquanta col tacco a spillo e la
punta assassina, regalo amatissimo della signora Mariani, mamma della mia madre
bis, la Gabriella Della Valle.
Festa paesana - Valtur
Il costume da sirena (povero Ulisse)
Festa araba - Valtur (un lenzuolo di meno)
Fu un’estate
stupenda, l’estate dei 100 baci. Perché, tra un travestimento e l’altro, baciai
tutti quelli che potei. Per gratitudine più che per attrazione. Ero così sollevata all’idea di non
essere più un verme della Terra che, ogniqualvolta un ragazzo si dichiarava,
ecco… io lo baciavo. Poi, la cosa non andava avanti naturalmente, un po’ perché
mi ero inselvatichita nella lunga e vana attesa del Principe Azzurro e un po’
perché, passato l’entusiasmo iniziale, mi stufavo e andavo oltre.
Finché non m’imbattei in Ricky Maria Maj, l’istruttore di tennis,
per il quale persi la testa ma niente di più, visto che ero vergine e tale volevo
e dovevo rimanere. Avevo o non avevo promesso a mia madre, il temibile Patton,
che “sarei tornata come ero partita”?
Sì, l’avevo fatto.
Oddio, grandi
turbamenti non li pativo perché, pur avendo diciott’anni, ero stata frenata,
quasi congelata, dalla bruttezza dell’adolescenza e sapevo poco di tutto.
Baciare era già un esercizio di stile. Lo sapevo fare ma non era un’attività in
cui primeggiassi.
Il mio primo bacio
“vero” era stato con Fabio del Montale quando avevo quindici anni e frequentavo
la prima liceo con la Chicca Montecchi. Era biondo con gli occhi verdi, Fabio,
ed era molto più carino di me, anche se si pettinava col ciuffo tutto pettinato
in avanti, stile spoiler, per nascondere la fronte brufolosa. Comunque mi aveva
baciata lui per primo, ed era stata la suspense più del fatto in sé a mandarmi
nelle pesche. Da tempo mi arrovellavo sull’argomento “primo bacio”, chiedendomi
che cosa comportasse. C’era una tecnica da seguire, un libro da leggere, un
esercizio da completare? Ero bravissima a prepararmi, avrei potuto farlo
anche per quello, l’ars
baciandi! Tanto scrissi sul mio diario segreto, così segreto che mia sorella
Francesca – quella stronza – andò subito a leggere. Poi, però, si impietosì
perché mi disse: “Apri la bocca e chiudi gli occhi, no?”.
Ma già, lei aveva
19 anni, assomigliava a Caroline di Monaco e stava con quel figo di Massimo
Baccarini!
Io invece ero
passata dalla cotta platonica e unidirezionale per Paolo Frignani, nuotatore
agonista della Città dei Ragazzi, alla cotta altrettanto platonica e
unidirezionale per Tagliazucchi delle GB Amici, un “grande” delle medie
talmente al di fuori della mia portata che non ho mai nemmeno saputo come
facesse di nome.
Non mi ero mai parlata
con un ragazzo, figurarsi baciarlo!
Con Fabio,
comunque, accadde tutto molto velocemente. Ci fu questa festina. Lui mi puntava.
Io ero curiosa. E come la curiosità uccise il gatto, così Fabio catturò me.
A quel punto seguii
le istruzioni di mia sorella. Aprii la bocca e chiusi gli occhi.
Non solo sopravvissi
ma sbirciai anche!
La cosa andò
avanti per un po’. Ci vedevamo a casa di lui, a Montale dove sua nonna –
buon’anima – ci faceva le imboscate quando il tempo di permanenza nella camera
blu notte di Fabio (un delirio anni Ottanta) diventava eccessivamente lungo.
Vorrei poter dire
che fui devastata quando troncammo ma in realtà non ricordo molto
dell’episodio, salvo che ne uscii rafforzata. Ero stata baciata, ergo sapevo baciare!
Tuttavia, dovetti per
l’appunto aspettare la Valtur per dare un senso al nuovo talento acquisito. Lì
però mi sbizzarrii e li baciai tutti, democraticamente, belli e brutti (anche
se all’epoca erano più belli che brutti… magie della giovinezza).
Era nel bacio che
si esauriva per me il proibito. Non cercavo altre cose, non avevo turbamenti particolari
e certe domande non me le ponevo nemmeno perché il corpo era per me uno
strumento, da tener pulito e ordinato perché mi traghettava da A a B con le
gambe, dal problema alla soluzione col cervello e dal buio alla luce con la
forza del cuore.
Vero, conoscevo
l’innamoramento, specie se non ricambiato: qui ero una specialista! Però ero
integra come una mandorla verde e lo sarei rimasta per anni a venire. Tutto
m’interessava più del sesso perché il sesso non aveva significato per me. E anche
dopo, quando lo conobbi al primo anno di università e fino ai trentacinque anni,
restò per me un mistero. Non brutto ma generalmente palloso. Determinate cose
poi le ho capite o apprese solo in seguito, per questo mi sento - malgrado l’età e come dico sempre - in piena
adolescenza.
In Valtur invece non
rischiai alcunché, men che meno la castità. Gli stessi 100 baci ebbero
un’innocenza che ancor oggi mi commuove.
Non che quell’innocenza
mi abbia mai portata tanto in là. Ricky, infatti, mi piantò per la mia collega romana
Cinzia che, oltre ai baci, dava anche “le altre cosette”.
In tutto questo io
mi ammantavo platonicamente di drappi colorati e ghirlande di gelsomini, e
ballavo sul trampolino della piscina insieme a quella stordita di Francesca Cervellera
che, prima di cambiare nome in Dellera e sfondare nel cinema (quanto meno col
peso del suo decolleté), portava i sandali alla Marilyn Monroe anche in spiaggia
e parlava ossessivamente della sua “Latina”.
A fine stagione, io
feci invece ritorno alla mia “Modena” e finii il liceo. A Trieste, dove mi
trasferii l’anno seguente per l’università, riciclai allegramente tutti gli
abiti accumulati in Valtur e diedi nuovo lustro ad altre elargizioni vintage
della signora Mariani, tipo le toilette da sera anni Trenta che svecchiavo con
tocchi grunge e anfibi, anticipando look che non sarebbero fuori posto nemmeno
ora.
Dopo la laurea mi
divorò l’ambizione. Lavorare, lavorare, lavorare, solo quello m’importava fare.
Che cosa diavolo sperassi di diventare, ancora non lo so. Forse una novella
Roberta Rambelli che dal suo lago Trasimeno traduceva allora i romanzi di Wilbur
Smith. O un traduttore comunque di grido che le case editrici facevano a pugni
pur di avere. Tant’è, non diventai nessuno. Lo stesso lavorai così tanto da curarmi
poco o niente. Guadagnavo una miseria, portavo nuovamente gli occhiali,
traducevo a ogni ora del giorno e vivevo in simbiosi col mio cane Freddo, detto
Bamba. Era così bello lui, così deliziosamente elegante nel suo doppio pellicciotto
bianco e nero, che non sentivo il bisogno di esserlo io.
Nemmeno col
matrimonio migliorai il mio look.
Anzi. Ebbi un
attacco acuto di “madamite” da cui guarii soltanto col divorzio, sette anni
dopo. In attesa del riscatto, sfoggiai ogni sorta di stucchevole tailleur color
pastello e ancora ne conservo un paio. Quello azzurro polvere della Benetton,
per esempio, con la gonna lunga a portafoglio e la giacca squadrata. O il
completo nero coi bottoni gioiello per il quale il mio ex marito ebbe quasi un
malore.
Tailleur beige di Sofia Rey
Tailleur verde pistacchio sempre di Sofia Rey
Tailleur verdone di Benetton: amatissimo!
Quel poveretto.
Col fatto che, da buona emiliana, avevo un appetito formidabile nonostante la
linea perfetta, lo avevo inconsapevolmente portato a credere che “vestirmi” potesse
essere più conveniente del fatto di ”portarmi fuori a cena”. Col risultato che,
per il compleanno del 1992, fui invitata a recarmi nella mia boutique
preferita, Marina Rey di via Taglio angolo via Rismondo, e acquistare quello
che preferivo, senza limite di spesa né altra specifica.
Come invitare
un’oca a bere: lo presi in parola!
Da cliente
abituale, pensavo di conoscere appieno il valore dei capi forniti (elevato ma non
eccessivo), pertanto non ebbi scrupolo quando m’incapricciai di un tailleur di
gabardine di seta che recava il marchio “Luisa Via Roma”. Avevo ventisette
anni, non conoscevo la griffe e non avevo particolare familiarità con la
ricchezza di certi tessuti o l’eleganza praticamente sartoriale del taglio in
questione. Sapevo soltanto che il completo giacca e minigonna a portafoglio era
bello e mi stava da Dio.
Lo presi.
Solo (molto)
successivamente venni a sapere che era costato la bellezza di un milione e
duecentomila lire di allora. Come dire, 600 euro di oggi, un prezzo che continuerebbe
a essere importante!
Da quella volta
Claudio, che diventò mio marito l’anno dopo, tornò cautamente alle cene e mai
più se ne discostò.
I regali in
generale si esaurirono del resto col (breve) fidanzamento, quasi che il
tailleur di Luisa via Roma avesse rappresentato una sorta di abbonamento.
Pagato quello, pagato tutto. Un’unica obliterazione e il “tagliando moglie 7
anni” era fatto.
Non a caso i pochi
capricci o investimenti dell’epoca me li finanziai da sola, come il dentista, i
quadri, l’auto e tante delle cose che nemmeno rividi più dopo il divorzio, tipo
il divertente divano a motivi scozzesi che avevo comprato per il mare.
Siccome ero una
traduttrice squattrinata e dovevo lo stesso versare in casa cinquecentomila
lire al mese (il mio ex marito era miliardario ma comunista, pertanto riteneva
giusto farmi contribuire alle spese di casa per le quali lui pagava
settecentomila lire, essendo molto più abbiente), ricorrevo ai mercati, specie
quello di Cavezzo, nella Bassa, e a quell’istituzione che era allora
Postalmarket per variare il mio abbigliamento.
H&M e Zara erano
ancora di là da venire ma i nostri grandi stilisti avevano appena incominciato
ad avvicinarsi al mercato di massa. La Biagiotti ed Egon von Fuestenberg, per
esempio, disegnavano linee economiche che venivano vendute per corrispondenza.
Se ci ripenso ora,
mi prende male. Quei capi di colore tenue, con inserti di pizzo improbabili, mi
sembravano meravigliosi mentre erano artificiosi, quasi cresimali, così come lo
era il gusto imperante. E le scarpe che li corredavano erano anche peggio, con
certi tacconi rotondi che sembravano le gambe di un tavolo rustico. A ben rifletterci,
nemmeno mi dolgo più per aver perduto gli album di foto di quegli anni: peggio
per il mio ex marito che se li è voluti confiscare, quasi a trattenere – con le
immagini – ciò che esse ritraevano: una moglie che non voleva più esserlo, per
giunta malvestita.
Si stava
avvicinando il Duemila e il mio gusto era in evoluzione, se è vero che Kookai e
i suoi fiorellini avevano incominciato a danzarmi davanti agli occhi. All’epoca
frequentavo l’enorme outlet parigino di Rue Réamur grazie a un tassista che me
l’aveva consigliato un giorno, al ritorno da una fiera agricola in cui ero con New
Holland (alternavo gli eventi alle traduzioni).
I soldi erano
sempre pochi, e dopo il divorzio sarebbero addirittura svaniti, tuttavia Kookai
era cheap in Francia e quello spaccio, poi, era un’autentica manna. Vi approdai
nel periodo in cui vigeva una formula d’acquisto che si chiamava “Acheter
malin”, ovvero “Comprare in modo furbo”. Seguendo dei bollini con un codice
colore, capivi a colpo d’occhio se un indumento costava 10, 20 o 30 euro. E se
ne compravi 4, il quinto era free. Una magia!
I fiori di Kookai!
do Qaund
Acquistai gonne che porto tuttora e mi avvicinai per la prima volta a quei
“vestitini tutto sterzo” che sarebbero poi diventati il mio brand. Il primo
della serie, di tweed bicolore verde e corallo chiaro, era molto scollato ed è sempre
nel mio armadio. Ci entro ancora, a fatica, e tutte le volte che mi guardo
nello specchio, col seno compresso allo spasimo, mi riprometto di perdere quei
3 chili di troppo che in realtà sono 5 che in realtà sono 7.
Perché con gli
anni, come dicevo, sono in… GRRRR… assata.
E dire che – delle
mie amiche – ero la più magra, quasi patita!
Yes, rimango
longilinea, dato che misuro pur sempre un metro e ottanta di altezza. Tuttavia,
ho messo su curve per le quali avrei ucciso da ragazza. Non mi piaceva essere
smilza allora. Avrei voluto i fianchi, le tette, le cosce, tutto. Invece non
riempivo niente. Mi stava tutto benissimo, mai una grinza né un difetto, ero la
metà di una modella. Il vuoto cosmico. Per questo invidiavo le forme.
Adesso che le ho…
ecco, sono combattuta. Da un lato mi piaccio parecchio perché mi vedo più femminile
e più simile all’immagine che sognavo per me. Dall’altro rimpiango quando la
mia pancia era così piatta da apparire quasi infossata.
Poi, per carità,
invecchio anche benino e sarebbe veramente stupido lamentarsi.
Ma da 38 scarsa che
ero sono diventata una 44 al pelo, e a volte con certi modelli devo sconfinare
addirittura nella 46, una taglia che – quand’ero piccola io – portava soltanto Patton!
Da più magra sono
insomma diventata (la) più grassa.
La Chicca che ha
vissuto di scarola scondita fino ai trenta anni è tuttora in forma smagliante
grazie al suo adorato sport. Per lei rilassarsi è correre. Dormire fare
spinning. Sognare giocare a tennis. La Chiara era ed è rimasta un ossicino
elegante. La Stefy pesa un etto nonostante i due figli. La Claudia che pure era
rotondetta da ragazza è diventata magra stellata. E l’Adele anticamente
pienotta è quasi una “nevla”… che in modenese significa “ostia”. Per questo non
mi capacito di come io sia potuta diventare giunonica. Non è che mangi schifezze
o altro, no. Sono semplicemente cambiata. Invecchiata, appunto. I volumi si
sono spostati, una cosa odiosa.
Certo non mi cruccerei
se non avessi cambiato taglia. Avendolo fatto, mi trovo a dover salutare capi
che mi hanno accompagnata per anni, e ci sto male.
Come ad agosto di
quest’anno, appunto – e ritorniamo sempre lì, ahi - quando
l’impietosa prova dell’abito lilla mi ha definitivamente convinta a svuotare
gli armadi.
Di solito, le
(pochissime) cose che elimino finiscono in qualche cassonetto dell’Unicef. Ma
parlo di cose malmesse, rovinate, buone soltanto a fare stracci. Adesso però mi
preparavo a scartare tutta una serie di abitini amorevoli. Cose carine e alla
moda, a volte di marca, sempre legate a qualcosa. Un momento, un ricordo,
un’emozione non necessariamente buona, anche cattiva però intensa…
L’abito a righe
diagonali color indaco che comprai per 50.000 lire da Promod prima di andare in
Scozia con Clelia nel 1997.
Il sottoveste con le
spalline di cristalli rosa con cui festeggiai la chiusura dell’International
Torchbearers’ Program a Firenze, prima delle Olimpiadi di Torino 2006.
La gonna a fiori
bianchi e neri che indossavo quando Massimo mi baciò la prima volta in Piazza
Santo Stefano a Bologna quel torrido pomeriggio di luglio.
Il prendisole di fiandra
bianca col bordo frangiato su cui un cameriere di Roma, inciampando, rovesciò un
intero piatto di spaghetti al pomodoro a Ferragosto del 2003.
Lo smanicato color
cipria che scovai nel 2001 al mercato di Ancona mentre tornavo da una visita di
stabilimento CNH.
Lo smanicato rosa cipria del mercato di Ancona!
Il tubino a
righine bordeaux e rosa in cui m’imbattei nel 2004 da Pimpkie/Parigi dopo un impegnativo
congresso medico della Sorin.
L’elegantissimo wrap
dress nero con cui mi innamorai di Nikolaus al Palais de la Mediterranée di
Nizza nell’ottobre del 2007.
Dio, nemmeno
drogandomi col roipnol o dandomi una (ben più sana) botta in testa, avrei mai
potuto gettare quei tesori in un cassonetto!
Con quest'abito di Max&Co ho divorziato!
Poi, mi sono
venute in mente le mie bellissime nipoti,
Cecilia e Beatrice. Non sono più bambine. Figurarsi, vanno
all’università e hanno anche il moroso. I vestiti avrei potuto darli a loro, mi
sono detta, e sicuramente li avrebbero graditi. Fosse capitata a me, alla loro
età, una fortuna del genere!
Ma come mi è
venuto quel pensiero, così ho desiderato cancellarlo. Perché so essere meschina
quando voglio.
Tenermi
tutto, ecco che cosa avrei voluto veramente.
Pure gli abiti però
hanno diritto a una chance, prima o seconda che sia.
Con un sospiro ho
tirato fuori un borsone da sotto il letto e ho incominciato a riempirlo. A
destra le cose per la Ceci, alta quasi come me e con spalle squadrate dal
nuoto. A sinistra gli articoli per la Bibi, un po’ più bassa e con un incarnato
meravigliosamente perfetto. La prima si è cuccata tutti gli abiti di Twin Set
che ormai mi andavano troppo corti. La seconda ha avuto la fortuna di
aggiudicarsi i Max&Co, coi loro plissé e ramages. I Kookai li ho spartiti
equamente, quelli fioriti alla Ceci, quelli più rigorosi alla Bi. Gli abiti
lunghi li ho destinati alla grande perché la piccola li avrebbe pestati.
E quando i capi non
erano indicati né per l’una né per l’altra, perché troppo da “grandi”, ho
creato un mucchio per amiche e colleghe, sempre adattando i modelli alle
corporature, i colori ai gusti, le marche alle circostanze. Mentre facevo i
vari abbinamenti, ripensavo al passato. L’abito fucsia di Zinko, per esempio, l’avevo
comprato nel 2008 a Cognento insieme al peplo coloro fango. Entrambi erano ormai
troppo corti per una quarantottenne. Il tubino a fiori bianco, nero e rosso
invece era ancora anteriore. 2000? 2001? Sì. Adesso mi segnava sui fianchi ed
era troppo scollato.
Scambi e
assegnazioni si sono susseguiti per più di un mese, poi è tornata la quiete.
In me.
Il dress
swapping era finito e, se proprio non mi aveva divertita, beh, quanto meno mi aveva
portato un po’ di conforto. Lo fa ancora. Niente è andato sprecato, tutto ha
avuto la sua giusta collocazione. Le ragazze sono state felici, le amiche e le
colleghe pure e io ho smesso di soffrire. Anche se più precisamente dovrei dire
che ho sofferto di meno.
In totale credo di
aver salutato (non scartato) qualcosa come 50 pezzi. Sembrano tanti ma parliamo
di oltre vent’anni di guardaroba.
Vent’anni in cui
ho comprato più per solitudine che per altro.
Vent’anni in cui
mi sono riempita di colori e fantasie nell’armadio visto che mancavano nella
mia vita.
Vent’anni in cui
ho cercato, trovandola, la compagnia delle cose prima delle persone.
Vent’anni in cui ho
colmato di tessuti, zip e bottoni vuoti che alla fine si sono anche animati.
Vent’anni in cui
ho alleviato immani pesantezze dell’anima
con un tocco di materiale, leggera frivolezza.
Quando mia sorella
Francesca ha visto la roba che ho passato alle ragazze è rimasta sconvolta.
<<Ma tutte queste cose?>> se ne è uscita.
Tutte quelle cose,
sì.
Sono stata triste,
quasi disperata, e ho rimediato così, comprando in modo pazzo, frenetico e
sconsiderato.
Altre volte sono
stata felice, praticamente ebbra, e di nuovo mi sono data allo shopping, perché
sono fatta così: avere mi piace visto che essere (in molti modi) non
mi fa difetto.
Adesso che sto
ritrovando il centro, ho rimesso in circolo i miei acquisti di allora, sperando
che portino ad altri allegria, coraggio, sicurezza e un po’ di quel mio spirito
frivol-chic che si riassume in “Fare&Apparire”.
DressCrossing! La mia versione
di Towanda!
Continuo
a comprare, solo più raramente e in modo diverso. Non ho più quella fame. Non
provo compulsione. C’è una nuova contentezza in me. Intendiamoci, lo stesso
adoro gli abiti. Quando ne trovo qualcuno che mi piace particolarmente, lo
compro senza nemmeno provarlo (perché so già che mi starà bene), e lo tengo
fuori dall’armadio un giorno o due. Così, per contemplarlo. Oppure gioco a
trovargli il giusto abbinamento. Il decolleté a becco d’oca stile Jackie
Kennedy che ho comprato su Zalando piuttosto del sandalo rosso fiamma alla
Twiggy che mi sono presa da Poggioli a Modena. L’orecchino con la perla
scaramazza che mi ha creato la Pierina in quel paradiso ruspante che è la Perla
d’Oriente a Modena oppure l’anello bi-dito col fiocchetto dorato di Accessorize
che mi riporta a una mattina di sole in via Indipendenza a Bologna.
Scegliere come
vestirmi è il mio gioco preferito.
Mi fa sentire bene.
Oggi per esempio indosso
un abito rosso lacca di Lancetti, comprato al mercato per 45 euro, con un
golfino vecchio di Ellen7 (c’erano ancora le lire) e uno strangolino nuovo tipo
Burberry che devo al mio vuccamprà di fiducia a Spotorno.
Succederà qualcosa
di bellissimo. Quanto meno mi sono vestita perché succeda.
E se poi non
succederà, pazienza.
Domani avrò un
altro abito, un’altra aspettativa, e il mondo intero un’altra occasione per farmi
capire che posso essere speciale.
Se prima avevo
tanti vestiti per sentirmi meno sola o festeggiare effimeri successi, adesso ho
tanti vestiti per avere più chance… o credere di averle.
Sperare è da
sempre la cosa che mi riesce meglio, dopo potare le rose graffiandomi tutta,
cucinare le trenette con le telline, infilare perline, parole & pailettes,
scrivere sciocchezze, rompere cose (specie quelle preferite), incollarne i cocci,
ritagliare immagini che mi piacciono e che mi mettono allegria, dipingere vivaci
soggetti floreali nei pomeriggi d’inverno, attaccare quadri non necessariamente
di valore dal soffitto al battiscopa e scovare tesori nei mercati, specie
quelli più depressi.
Anche sognare mi
viene bene.
Tipo un colpo di
fortuna...
... o un principe
che bussa alla mia porta, per l’appunto cercando un’(attempata ma ancora
gagliarda) organizer di Modena!
E quando questo
principe busserà, beh, se non altro io, nel graziosamente aprire, avrò
l’abito giusto. E le scarpe. Il ventaglio. La borsa. Gli orecchini. L’intimo…
Tutto!
E dai, principe,
bussa, no?
(Dopo mi mancherebbe solo il cane... e avrei tutto!)
L'angolo dei ventagli...
.... e quello degli orecchini!