lunedì 12 dicembre 2016

Assaggio o passaggio?


Sperimentare è crescere, dicono. Uscire dagli schemi ha un effetto rinfrescante. Cambiare può essere fonte di stimoli ed ispirazione. Ma i nostri gusti hanno una memoria che innesca il confronto. Ed è a questo confronto che deve saper reggere ogni rinnovamento per funzionare.
Gli odori risvegliano ricordi lontani. Lo fanno anche i sapori. E la madeleine proustiana è diversa per ognuno di noi. Se ci aspettiamo di sentire un gusto e poi ne sentiamo un altro, ci sentiamo spiazzati. Quanto meno, per me è così.
Come mangiare una pesca che però sa di caco.
Magari non è male. Ma non è una pesca. Quindi, perché chiamarla così?
 


Vi dico che sto diventando più buona!
Ieri sera, con la Barbara, ho provato questo ristorantino che non conoscevo. Avete presente quei posti cui passate sempre davanti ma che per una ragione o per un’altra non vi hanno mai attirati dentro? Ecco, uno di quelli.

Ottimo l’antipasto, sfizioso il secondo. Momento dei dolci… ta-tan! Ce ne elencano cinque ma le nostre orecchie si sono già drizzate al primo: “cheesecake”. L’adoriamo entrambe (persino io che sono più “da salato”), pertanto ordiniamo quella.

Di lì a breve il cameriere ci serve due fette di torta molto gialla.
<<Ma è gialla>> mi fa notare la Barbara con una certa ovvietà.

<<Non sembra una cheesecake>> rincaro io visualizzando con rimpianto l’algido candore di una vera cheesecake con Philadelphia e tutto.
La Barbara è perplessa. <<Bah, sentiamola.>>

Annuendo, affondo la forchettina in tutto quel giallo.
<<Fa schifo>> dice la Barbara dopo il primo assaggio.

<<Sì>> ne convengo mentre cerco di deglutire il boccone del più assurdo “assorbi-saliva” che mai mi sia capitato negli ultimi tre anni. Per la cronaca, “assorbi-saliva” è la definizione che mia sorella Francesca Romana applica a tutti quei dolci tipo bensone e torta margherita che sembrano super-promettenti ma in realtà sono dolci e basta, e che fanno della tua bocca un deserto di arsura e del tuo animo un pozzo di nostalgia (per gli ottimi dessert pregressi).
<<Diavolo, avevo così voglia di un dolce buono….>> brontola la Barbara partendo con la seconda forchettata.

Io scosto il piatto. <<Ma lascialo lì, no?>>
<<È che subisco la malia del dolce>> si difende lei. <<Anche se questa roba non ha proprio nulla della cheesecake. Guarda il fondo.>> La sua voce si alza di un’ottava. <<Mica è di biscotti.>> Adesso il tono è proprio sprezzante.

<<Sembra pasta frolla>> ammetto io. <<Basta. Rinuncio.>>
Più tardi, alla cassa, dove trovo la titolare (credo), mi sento in dovere di dire: <<Ottimo tutto, tranne la cheesecake>>.

La tipa mi guarda e, senza battere ciglio, dichiara: <<Ma quella non è mica una cheesecake. È una torta di ricotta e pasta frolla>>.
<<Quindi perché la chiamate “cheesecake”?>> chiedo io.

<<Perché ha sbagliato il cameriere. Lo dico sempre, ai ragazzi, di non chiamarla “cheesecake”!>>
Reclamo evaso. La colpa è del cameriere… un po’ come in quei gialli dove l’assassino è invariabilmente il maggiordomo.

Capisco l’antifona (la giallona doveva essere opera della titolare), così taccio.
Paghiamo ed usciamo, con la Barbara che dice: <<Ti potevi anche risparmiare. Tanto, non si ottiene nulla a protestare>>.

Ha ragione lei, non si ottiene (quasi mai nulla) a protestare. Io però qualcosa l’ho ottenuto. Mi sono accorta infatti di essere diventata più buona.
Solo due anni fa avrei detto alla signora: <<Il cameriere avrà anche sbagliato a nominare la sua “assorbi-saliva” cheesecake, tuttavia è un fatto che la sua torta di ricotta fa rimpiangere la segatura!>>.

E solo due anni fa avrei fatto una croce sopra quel posto (invece ci tornerò perché tante altre cose mi sono piaciute).
E solo due anni fa vi avrei detto il nome del locale!

Invece no.
Sono o non sono più buona? Eddai….!!!

venerdì 19 agosto 2016

Parole di un lontanissimo luglio

 
 
Agosto è per me un mese di quadrature.


Non vado in vacanza. Odio l’afa, odio la ressa, odio gli appuntamenti obbligati che associo alla mia vita precedente. Così me ne sto a Modena, tranquilla.

Chiudo il primo semestre lavorativo e mi preparo al secondo, che è in realtà più corto, un quadrimestre che mi porta – esaurita ma quasi sempre viva - al Natale. Consuntivo eventi, scrivo report, archivio mesi di corrispondenza, riorganizzo il guardaroba, spolvero (malvolentieri) la libreria, qualche volta dipingo e generalmente faccio un gran casino dappertutto, illudendomi però di riordinare.

Così ieri, quando ho riaperto la scatola color Manila che tengo a destra della barbotine con gli iris, certo non pensavo di rivivere un istante di lucida follia d’antan. Solo di stanare un po’ di polvere. Ma forse l’ho anche fatto… perché sono uscite queste parole di un lontanissimo luglio.

Come direbbe qualcuno, “scritte appena ieri”.

Il foulard

E per tutte le volte che ho taciuto,

esitando tra le pieghe del foulard a fiori

che tanto detestavi,

avrei dovuto dirti

che non era come pensavi,

che non lo sarebbe stato mai.

Non per qualcosa

che non avevo fatto io

ma per tutto ciò

che non eri né potevi

essere

tu.

Invece non l’ho mai detto,

non ho parlato,

e tu hai scambiato il mio silenzio

per quieta contentezza,

finché

un giorno,

a mia volta,

non ho scambiato io

te.

Col niente

(meraviglioso)

di un nuovo inizio.

sabato 16 luglio 2016

Eravamo 4 amiche...


... sulla terrazza
 
Una delle rare volte in cui Pippo uscì con tutte e 4
(Clelia non si vede perché ci sta fotografando)
 
Di recente mi sono sentita rimproverare che scrivo più sui morti che sui vivi. Ma i morti non sono diversi dai vivi, per me. Essi continuano a esistere come se niente fosse successo. Perché l'amicizia, come l'amore, valica l'assurdità di ogni confine, spaziale e temporale. I morti sono morti solo se cessiamo di parlare di essi.
 
Inoltre, non si sceglie generalmente di morire. Capita.
 
Già è una iella. Perché dovremmo quindi ostracizzare coloro che se ne debbono andare, dimenticandoli?
 
Sappiate che non lo farò.
 
AMICHE D'IMPORTAZIONE
 
Se dovessi raccontare come ti ho conosciuta, non saprei. Senz’altro ci avrà presentate Clelia, perché eri amica sua.
 
Sapevo del tuo lavoro, che ti piaceva, che eccellevi a farlo.
 
Sapevo che eri a posto, che eri sarda e che avevi tanti fratelli e sorelle.
 
All’epoca mi parvero buoni presupposti e semplicemente mi accodai alle altre, Clelia per prima, nell’esserti amica.
 
Ogni tanto si usciva (ma poco, perché a Torino state tutti in casa) e molto più spesso si cenava in terrazza da te.
 
Casa tua mi piaceva perché stava sui tetti, come un nido tra i gelsomini, ed era bianca come non sono mai (state) le mie case.
 
S’entrava dal pianerottolo e ti salutava un George Clooney cartonato… quando George Clooney era ancora figo e si potevano fare dei gran bei party.
 
Poi a destra si apriva il bagnetto che era beige e bianco, delicato. Davanti la camera, rigorosa come io non so essere, e a sinistra voilà la zona giorno.
 
Mi piaceva il pizzo che avevi steso sul divano perché lo impreziosiva senza renderlo lezioso.
 
Mentre avevo in antipatia il sistema di carrucole e fili a cui erano appesi i quadri. Io sono una donna da chiodi e martello ma tu volevi le pareti perfette, e i tuoi dipinti– ricordo una luna tra i rami, declinata in vari colori – pendevano… ma letteralmente.
 
Poi c’era un lungo tavolo rettangolare, severo, solo che non cenavamo mai lì.
 
No, stavamo in terrazza, noi, col divanetto a righe bianche e verdi da una parte e il tavolinetto stretto dall’altra, e davanti i fiori che a volte erano rigogliosi e a volte un po’ fané. Non ho mai capito se tu fossi un pollice verde irrisolto o la negazione totale. Le piante crescevano con te ma avevano sempre una qualche disavventura. O l’irrigatore scioperava o il clima remava contro o la piantagione non era avvenuta nella maniera corretta. C’era sempre qualcosa, eppure la terrazza aveva il suo involucro verde e in quell’involucro – al suo centro - spuntavamo noi.
 
Le ragazze. Che non erano e non sono ragazze da quel bel po’ ma tant’è…
 
In realtà c’era anche un “boy”. Pippo. Ora, Pippo usciva volentieri con noi… purché non fossimo più di tre. Se eravamo quattro, ecco, già non andava più bene. Si sentiva accerchiato, diceva, quando attaccavamo tutte a parlare di uomini (scadenti), diete (mai terminate), disturbi (femminili) e shopping (il mio, l’unica ad avere le mani bucate). Però - fino a tre - ci sopportava e addirittura si divertiva. Lo scherzo tra di noi era che Pippo adorava Clelia, però avrebbe sposato Anna Maria a patto di venire a letto con me. E tu, che ogni volta assistevi a siffatto siparietto, scoppiavi a ridere e noi con te.
 
Perché sì, Pippo o non Pippo, ci facevamo compagnia, ognuna col suo passato che spesso ridiventava presente. Clelia che incredibilmente aveva smesso di fumare. Anna Maria che tra un preventivo e l’altro ti foderava il famoso divanetto a righe. Tu che guardavi il grattacielo crescere e lo trovavi anche bello. E poi venivo io, anche rottamata da ultimo ma col mio immancabile abitino a fiori che chiaramente non piaceva mai a nessuna di voi se non a me.
 
Non siamo mai state veramente assortite ma nella tavolozza di Sorolla c’era posto per tutti i colori, e così è sempre stato per noi e per le nostre cenette.
 
Dove naturalmente non c’era mai niente da mangiare, a sentir te.

 Il frigo era vuoto, la cuoca era manchevole e la cucina in sé non valeva niente.
 
Salvo dopo scoprire che il frigo ospitava un branzino intero (!), che la cuoca sapeva cucinarlo eccome e che il forno, ancorché immeritevole, sapeva fare il suo dovere.
 
E nemmeno mancava mai quel buon vinello bianco che mescevi generosamente.
 
Ma tu eri fatta così.
 
 Eri modesta.
Ora, io conosco tante persone e quelle che frequento con piacere sono tutte molto intelligenti.
 
Sono anche complesse, talora difficili. Se dovessi descriverle, direi che sono speciali, un po’ nevrotiche, spesso contradditorie, se non eccessive.
 
Hanno passione, fantasia e talento, e ne hanno consapevolezza, cosa che le rende più o meno presuntuose.
 
Ma tu, più intelligente di tutti (noi), eri autenticamente modesta.
 
Un ossimoro che mi piaceva avere per amica.
 
L’altro giorno mi hai nominato la bottarga. Sai, piace molto anche a me.
 
Non la mangeremo tanto presto insieme (quanto meno non mi è dato di saperlo) ma volevo dirti che in settimana, di ritorno a Modena, vedrò di farne buona scorta e di organizzare una bella cena in giardino. Ci sarà la bottarga, ci sarà un buon vinello bianco, e nel mio cuore ci sarai anche tu, cara amica d’importazione.
 
I gelsomini saranno sfioriti e la vista senza tetti sarà diversa.
 
Ma non serve la realtà quando c’è la memoria.
 
Non trovi anche tu, Sina?
 

    Io e Clelia, un'amicizia che dura da anni

lunedì 18 agosto 2014

DressCrossing

 
Ma come ti vesti?
 
Più che alla moda, vesto in modo femminile, tradizionale. Per questo continuo a portare abiti anche vecchi. Sono sempre attuali perché in fondo non lo sono mai stati veramente. Mi piacciono le tinte vivaci, impazzisco per le fantasie a fiori, apprezzo la semplicità del cotone e ho un debole per il verde.
 
Vestirmi mi diverte, a volte mi rassicura e spesso mi aiuta a superare qualche impasse.
 
Non c'è momentaccio che un bel colore (addosso) non aiuti a stemperare.
 
E con l'abito giusto tutto diventa più affrontabile.
 
Quanto meno, per me, è (stato) così.

Scorcio del mio guardaroba
 
DressCrossing!
 

Torino, 30 agosto 2013

Due sera fa ho fatto una scappata in lavanderia.

La settimana prima avevo consegnato tre cappotti che mi ero scordata di far lavare a maggio, più un abito di Twin-Set che adoro perché è bianco nel corpetto, nero a livello della gonna a ruota, con un inserto color cappuccino che s’incrocia mollemente sotto il seno formando un fiocco elegante.

Quanto meno, pare a me. 

Che il fiocco sia elegante, cioè.

Di solito me lo stirano come capita, tanto che mi tocca spianarlo con le dita perché le cocche non mi ricadano sul davanti come le orecchie biondo miele di un cocker spaniel. Questa volta però non c’era niente da spianare perché il fiocco, lui, non c’era più!

Diavolo.

Stranamente me ne sono accorta nell’attimo stesso in cui ho aperto il portoncino d’ingresso. Dico “stranamente” perché è (molto) difficile che mi soffermi sugli abiti che ritiro. Spesso li appendo col cellophane e tutto al brutto pallottoliere nero del guardaroba oppure li ripongo nell’armadio grande, quello della nonna Beatrice con l’anta centrale a specchio e i due elementi laterali alti e stretti. Anche così, passano mesi prima che mi capiti di rimetterli, visto che nella mia vita c’è tutt’al più carenza di uomini ma certo non di indumenti.

L’altra sera, però, stringevo troppe cose tra le braccia. I cappotti, l’impermeabile nero con la tasca destra rattoppata malamente, due abiti estivi e una gruccia con quattro sciarpe stirate, anch’esse lavate in ritardo quando ho fatto il giro degli armadi… a fine agosto (vergogna). E poi avevo le chiavi di casa col ciondolo a forma di Tour Eiffel del Westin Paris, il blackberry, la borsetta lunga e stretta di H&M, il “Grazia” tirato fuori dalla buchetta delle lettere… il tutto in precario equilibrio sul manubrio della bici che stavo tra l’altro infilando nell’ascensore.

Pur abitando in un condominio di pseudo-lusso, non ho infatti il permesso di lasciare la bicicletta nel cortile, che pure esiste ed è anche bello grande. Non esiste uno spazio comune. O se esiste, è il segreto meglio custodito di via Domodossola 48. Torino sembra tanto evoluta ma, quando si tratta di biciclette, fa proprio pietà, se è vero che le rare piste ciclabili sono irte di pericolosissimi paletti (via Bertola) oppure finiscono nel nulla cosmico (Piazza Adriano) o in qualche temibile ingorgo (corso Castelfidardo), e che le rastrelliere per le due ruote sono più rare di una zebra albina in un boschetto di gingko biloba al tramonto.

Ma, tant’è, qui vivo e lavoro, pertanto la bici me la devo portare su in casa e parcheggiarla addirittura in soggiorno. E fortuna che l’ascensore è più lungo che largo, perché la Rosina – la ciclo di Torino, sorella minore della Maggie di Modena, rispetto alla quale è più giovane ma altrettanto brutta, solo color rosa maiale – è piuttosto ingombrante, con le sue ruotone un po’ scassate e i cestini di rete nera. L’ho scovata tre anni orsono in una rivendita dimessa vicino a Corso Montegrappa e ricordo di averla pagata venticinque euro. Circa il cinquanta percento meno dei due lucchetti da moto che adesso la corredano e senza i quali non avrei più da tempo una bicicletta… visto che a Torino sparisce tutto (nel 2009 anche la mia Alfa grigio perla!)

Comunque, quella sera, ero veramente stracarica quando mi sono introdotta - bici, lavanderia ritirata e tutto - nell’ascensore azzurro col brutto pavimento di granito grigio e ho schiacciato il tasto del secondo piano, scala B, dove abito dal novembre del 2008. Il manubrio, piegato ad angolo acuto con sopra la montagnola di abiti e oggetti, ha avuto un involontario scossone quando ho allungato il braccio verso la pulsantiera… tanto che le sacche della lavanderia hanno incominciato a franare verso il basso, creando quell’inesorabile effetto “garandella” tipico della plastica trasparente. Per reazione ho agguantato il primo indumento della pila, il Twin-Set tricolore e, mentre lo riportavo con vigore verso l’alto, mi sono accorta che il fiocco centrale (oddio, oddio, oddio) non c’era più!

Ora, esistono fatti assai più gravi e ne sono del tutto consapevole.

Ma visto che l’attuale lavanderia è già frutto di un accorto screening dopo che il fornitore precedente mi aveva rovinato l’abito-coi-fiori-non-ancora-appassiti che indossavo l’ultima volta che ho cenato a casa di Tonino, sostenendo che a stingerlo ero stata io (notare bene che l’abito era ancora nella busta, col numeretto pinzato del negozio e la ricevuta del pagamento) e che comunque mi sarei dovuta lagnare “subito, dopo non valeva più”, mi è venuto un colpo.

Di nuovo cornuta e mazziata? Eh, no!

Così, ho aperto la porta di casa, ho appoggiato la bici contro il divano, ho sollevato dal mucchio selvaggio il vestito mutilato e sono ridiscesa a precipizio.

Salvo scoprire che del fiocco – giù in lavanderia e nella memoria del titolare - non c’era traccia… anche se senz’altro “sarebbe venuto fuori”.
                            L'abito di Twin-Set col fiocco!
In effetti così è stato. Ieri  l’ho recuperato con molte scuse e finalmente ho avuto pace… prima di scoprire - porco gatto! - che l’abito a trapezio di Carla G., portato a lavare contestualmente al recupero del fiocco, reca un’ombra sospetta sulla banda finale bianca che solo difficilmente verrà via.

Perché è un fatto che passo da un disastro all’altro, e non solo coi vestiti!

I vestiti però sono la mia debolezza. Un po’ perché li amo, un po’ perché spesso, inconsapevolmente, mi sono stati più fedeli delle persone.

Una camicia da notte ti conosce meglio dell’amica del cuore... se continui a portarla negli anni, anche quando il pizzo si è ingrigito e la maglina si è lisa per i tanti lavaggi, e il completo no-nonsense che metti al lavoro sa esserti più fedele di un moroso dei Gemelli se prima di riporlo lo spazzoli perbene o magari lo rinfreschi con una stiratina al vapore. Per non parlare di quel piccolo cardiganino sintetico che, nelle mezze stagioni, quando le serate si fanno brusche, ti scalda più di un abbraccio inaspettato o della classica petite robe noire che, pur essendo un “saldino” comprato più per noia che per bisogno, ti risolve le serate più problematiche, facendoti sentire carina con poco.

I  capi di abbigliamento si fanno apprezzare primariamente perché sono assidui e secondariamente perché sono contigui.

Inoltre, non fanno commenti, non ti sgridano e, se anche ti stanno male addosso, non te lo dicono. Magari te lo fanno capire, riflettendosi nello specchio con un assortimento di grinze, rigonfi e aderenze da Museo delle Cere. Ma anche qui si guardano bene dal palesare.

Un po’ come a fine agosto, quando nell’ormai famoso e tardivo giro degli armadi mi sono provata (o  per meglio dire misurata, come dicono qui a Torino) il tubino glicine di Sinequanon e ho scoperto che 1) sono ingrassata 2) sono invecchiata 3) non ho più la faccia per gli abiti sopra il ginocchio.

Una stroncatura.

Ma l’abito, carino, non ha detto niente, lui. Il tessuto di gabardine si sforzava di cadermi bene lo stesso e il taglio sapiente evidenziava lo stacco della coscia, quasi a dirmi: “D’accordo, hai 48 anni e faresti meglio a cambiarti, però sei ancora una bella penna.”

Per questo ho provato una fitta una volta che mi sono tolta il vestito.

Perché ho capito che dovevo scartarlo.

Poche azioni al mondo mi procurano un disagio più vivo.

Sono una shopper compulsiva. L’unico verbo che veramente si applica alla mia persona è “accumulare”. Tutt’al più associabile con azioni tipo “tenere”, “conservare” , “preservare” e, sì, anche “custodire”.

Gettare mi fa male. Non solo gli abiti, ma tutto. Posso mettere, non dismettere.

Soffro quando affronto lo spoglio delle riviste. Devo prima sfogliarle e riguardarle tutte, e magari ritagliare anche qualche immagine colorata – fiori o ricette o la pubblicità di un bel flacone di profumo - prima di destinarle al bidoncino per la carta della raccolta differenziata.

Sospiro se devo separarmi da una ciotolina sbeccata. Anche perché quelle che uso abitualmente mi vengono da qualche viaggio. Il lavafrutta color avorio con le macchie blu smaltate, per esempio, non è più deliziosamente perfetto come quando l’ho comprato al mercatino di Saint Remy de Provence quella mattina d’ottobre mentre viaggiavo col cliente più noioso del mondo (bulloneria, Gesù). Però, è così tenero quando vi sciacquo l’uva nera e poi la sgrano che proprio non riesco a buttarlo via. E la piccola raviera gialla col decoro nero a puntini si è data una bella incrinata la volta in cui mi è scivolata nel lavello… ma fa talmente Marrakech col riso al vapore dentro che non posso nemmeno pensare di destinarla al pattume.

E decisamente mi agito nell’affrontare il cassetto delle mutande, con le terribili scelte che esso pone. “Butto il reggiseno che mi ha regalato la Checca prima di Milano 2 La Vendetta oppure lo tengo in un angolino, per ricordo, visto che non ci sto più dentro e che tanto non lo metterei?”. “Elimino la culottina Malizia di tulle verde bottiglia con le margheritine ricamate che mi ha regalato l’Adele troppi compleanni fa o le faccio fare un altro giro anche se l’elastico non tiene come prima?”. “Caccio via il body della Perla con la spallina slabbrata o lo conservo per quando faccio ginnastica con la wii e non mi/lo vede nessuno?”

Sono dilemmi sostanziali… e laceranti, perché questi capi, magari stinti o vecchi o lisi o fuori moda, mi hanno comunque servita egregiamente, e mi sono affezionata.

Va però da sé che lo strazio per eccellenza si manifesta quando entrano in gioco loro, i vestiti. E di vestiti, letteralmente, si tratta perché da circa una decina d’anni porto solo quelli.

I jeans sono così duri che mi grattano le anche, i pantaloni in generale mi pizzicano la pancia, i tailleur mi ricordano di quand’ero una hostess sottopagata o un’infelice moglie anni Novanta, e le gonne, che pure esistono nel mio guardaroba e incontrano sostanzialmente il mio gusto, non mi danno la soddisfazione di un bell’abito fluente che scivola lungo il corpo senza costringermi.

Costringermi a niente.

Col risultato che ho quasi solo vestiti.

Però, di tutte le fogge e i colori, per non parlare delle fantasie. Righe, fiori, quadretti, pois, geometrismi, motivi animalier… sono tutti miei, se le tonalità sono giuste. E non importa che il modello sia firmato. Le griffe m’importavano - anche molto - quand’ero giovane e meravigliosamente sciocca, e gli anni del divorzio, la devastante miseria che ne è seguita mi hanno guarita totalmente dall’amore per le (grandi) firme. Adesso che a firmare sono solo io,  i vestiti che amo di più escono da qualche banchetto di Piazza Benefica oppure da quel posto delizioso che è il cotonificio Leumann di Collegno. Non che lo sia più, un cotonificio. Di quell’era da Rivoluzione Industriale è rimasto giusto il complesso di villini in stile Liberty con la bella stazionetta. Ma è qui che Diffusione Tessile, un outlet di abbigliamento femminile d’alta gamma, ha il suo punto vendita torinese.

Il mio incontro con questo marchio data dalla primavera del 2011. Ero andata in Romagna per ispezionare una struttura alberghiera che conoscevo soltanto per sentito dire. Al ritorno, mentre transitavo su un’orribile statale in direzione dell’autostrada, ho notato una serie di coloratissime vetrine in località San Giovanni in Marignano. Non conoscevo il marchio giallo acceso con l’attaccapanni nero al centro ma ne sono rimasta comunque incuriosita, così ho fatto una deviazioncina strategica e sono andata a buttare l’occhio. Non avevo molto tempo a disposizione, dato che mi aspettavano a Modena in serata, ma non è che questo mi abbia mai impedito di fare qualcosa nella vita. A riprova, in ventisei minuti secchi ho comprato sette abiti e due cappelli per un importo complessivo di 297,00  euro. E tutti bellissimi, colorati, eleganti, originali… insomma, un vero affare!

Dico “vero affare” perché è l’espressione di cui solitamente mi servo con mia madre per giustificare un acquisto inutile.

Acquisti utili non ne faccio perché non mi piacciono, per cui finisco quasi sempre per comprare cose che non mi servono… se non a rendermi felice.

Giustificarmi, però, devo perché ho 10 di tutto, e lo stesso non ne ho mai abbastanza.

Non so da che cosa dipenda, se da una smodatezza congenita o piuttosto dagli anni dell’adolescenza, quando gli abiti erano pochi, praticamente contati. A quei tempi – parlo degli anni Settanta/Ottanta - la qualità aveva ancora la sua importanza, pertanto si comprava bene ma con oculatezza, e secondo ritmi cadenzati, quasi rarefatti. Certo, se capitava l’occasione importante, allora fioccava la mise più idonea. Mamma per esempio mi vestiva invariabilmente da Max Mara per le cerimonie. Ma non è che matrimoni e battesimi fossero all’ordine del giorno e, per quanto riguarda le ricorrenze che mi coinvolgevano in prima persona… beh, nemmeno pregando in ginocchio, mi sarei potuta far comunicare o cresimare più di una volta. Possedevo un paio di cose favolose, alcune carine, altre più andanti, qualche indumento smesso da mia sorella e riciclato ad hoc per me, un bel cappotto o giaccone imbottito… e finito lì.

Non era un guardaroba ricco, però era convenzionale, conforme ai tempi e al budget di una famiglia benestante ma conservatrice che doveva tirare su due figlie, non particolarmente capricciose ma comunque adolescenti e vogliose di capi sempre nuovi da sfoggiare. Mia sorella Francesca Romana, essendo più grande e comunque dotata di fattezze femminee, poteva contare su una rosa più ampia di invidiabili capetti. Tipo il prendisole bianco e rosa di AdaniSport col corpetto a punto smock che mamma le aveva regalato per la crociera del diploma oppure la giacca a quadrotti nei toni del rosa e del verde che si sposava così bene con la gonna a pieghe di Biba. Ma io sembravo un gambo di sedano. Tutti mi scambiavano per un ragazzino scoliotico, ed ero vestita di conseguenza, con maglioncini e pantaloni pratici che il mio busto ortopedico, un demoniaco corsetto di plastica rosa e alluminio detto “alla marsigliese”, provvedeva a bucare con automatica precisione.

A subire i danni più grossi erano canottiere e camicette. Col fatto che – quando mi mettevo a sedere – appoggiavo la schiena alla sedia, il tessuto si tendeva contro il perno centrale del busto. Per un po’ resisteva alla continua frizione e non succedeva niente. Ma a lungo andare, tra lavaggi e ripetuti sfregamenti, ecco che si assottigliava fino a bucarsi e, a quel punto, s’innescava l’elaborato rammendo che, chiaramente, non teneva mai.

Odiavo i rammendi, perché mi ricordavano il busto e il busto mi ricordava la scoliosi da cui ero affetta e la scoliosi mi ricordava che, delle mie amiche, ero il più cesso.

Quella senza ragazzo, insomma.

Mi vestivo per nascondere il busto. Nel farlo, cercavo di migliorarmi. Solo che le cose da mettere erano sempre quelle e, comunque non sarebbe certo stata una camicetta, tra l’altro rammendata dalla nonna, a fare di me una silfide.

Crescendo, presi l’abitudine di sottrarre le cose a mia sorella. Solo che poi questa se ne accorgeva e – apriti cielo! – non solo lo diceva alla mamma (che mi sgridava) ma mi faceva nera, atteggiandosi a vittima quando in fondo la vittima ero io, dal mio punto vista, ovvero la sorella-che-sembrava-un-fratello-e-che-per-giunta-portava-anche-il-busto!

Ma, tant’è, il furto recava la mia firma e tra l’altro ero anche idiota, visto che mi macchiavo serialmente e bucavo tutto col busto. Per cui non solo usavo le cose della Checca ma sovente gliele rovinavo anche! A ben pensarci, ero veramente perniciosa, quasi malefica. All’epoca però mi sembrava di avere tutte le ragioni del mondo. Quando si è infelici, è così che si pensa.

Verso i quindici anni, smisi di portare il busto e diventai quel pelo più carina, brufoli permettendo. Il mio guardaroba si arricchì di qualche abitino di Fiorucci comprato nell’allora negozio di Marengo di Piazza Mazzini… ma niente a confronto dello sconfinato vestiario che vantavano le mie nuove amiche del liceo linguistico privato “Mercurio” a cui mi ero iscritta. La più indigente era figlia di un industriale, e il suo concetto di tenuta sportiva incominciava con Les Copains e terminava con Burberry, passando per Lacoste e ritornando via Ralph Lauren. Poi venivano le compagne più chic che compravano solo da Montorsi Via Emilia, e mai a saldi, e avevano addirittura due o tre buchi nelle orecchie! La Chiara, non a caso soprannominata Rockfeller, esibiva nei giorni feriali più gioie della vetrina di Caroceli a Natale mentre la Claudia aveva già da ragazza scarpe da “grande”. Le mie preferite erano quelle di velluto color ciclamino perché avevano il cinturino alla caviglia e addirittura la punta, un’innovazione assoluta per me!

Il confronto non mi ha mai spaventata né intimorita, per cui mi arrangiavo. O depredavo per l’appunto quella poveraccia di mia sorella oppure facevo incursioni nell’armadio della mamma… di cui potevo però riciclare molto poco, vuoi per i gusti differenti (mia madre è oltremodo classica ed è praticamente tricromatica), vuoi per la taglia (certe forme, io non le possiedo nemmeno ora). A volte fregavo le sciarpe al babbo se era inverno, e quando proprio mi mancava qualcosa, tipo un accessorio, beh, allora me lo creavo di sana pianta!

Tipo la volta in cui mi fabbricai una fusciacca bianca con mezzo metro di plastica acquistata alla Pirelli di Corso Canalchiaro e una manciata di fermacampioni color ottone. O come quando mi lavorai a uncinetto – un’impresa titanica – quel terribile maglioncino nero e bluette su cui (non paga!) ricamai la scritta I Love New York con le paillettes. Quelle horreur.

Certo non passai alla storia come stilista e sicuramente non brillai mai per eleganza. Tuttavia, ero originale e, per quanto mi conciassi, almeno avevo il mio stile.

Una cosa buona, il busto, poi, me l’aveva lasciata: il portamento. Camminavo come Soraya Esfandiary Bakhtiari, e pazienza se rassomigliavo a Victor prima di diventare Victoria.

Il desiderio di “maggiorare” il mio guardaroba esplose in quarta liceo e si scatenò nei mesi in cui, appena diciottenne, feci una stagione in Valtur in quel di Nicotera, Calabria. Correva l’anno 1983 ed ero stata presa come hostess per via delle lingue. La boutique del villaggio traboccava di copricostumi bellissimi, e c’erano ciabattine di gomma con sopra una gardenia bianca o una dalia fucsia, una sciccheria ultramoderna per allora! Guadagnavo soltanto 500 mila lire al mese che duravano secondi nelle mie mani bucate. La povera mamma doveva, brontolando, foraggiarmi da casa perché naturalmente non ci stavo dentro, visto che spendevo tutto in sigarette (fumavo dalla seconda liceo, anche tanto) e abbigliamento.

Perché, sì, la mia vanità era al culmine.

Logico: ero (finalmente) diventata carina. Il busto non c’era più, i brufoli nemmeno, gli occhiali evitavo di metterli e, dulcis in fundo, mi ero schiarita i capelli, tanto da sembrare una biondissima valchiria.


                             Finalmente bionda!

Ero felice. Così mi vestivo. Anzi, meglio: mi travestivo. Il pareo bianco e azzurro col costume intonato e l’ibisco nei capelli che non era mai dello stesso colore. L’abito dorato da sirena che mi aveva confezionato l’affascinante scenografo gay di Roma per lo spettacolo del dopocena. Il lenzuolo rubato al letto per la serata araba e i gioielli fatti con anelli d’ottone di una tenda vecchia. Il grembiule a righe bianche e rosse ricavato da uno strofinaccio rotto per la festa contadina. Per non parlare del costume da cabaret confezionato con uno scampolo di fodera nera e sapientemente abbinato alle scarpe anni Cinquanta col tacco a spillo e la punta assassina, regalo amatissimo della signora Mariani, mamma della mia madre bis, la Gabriella Della Valle.
Festa paesana - Valtur

 
Il costume da sirena (povero Ulisse)

Festa araba - Valtur (un lenzuolo di meno)

Fu un’estate stupenda, l’estate dei 100 baci. Perché, tra un travestimento e l’altro, baciai tutti quelli che potei. Per gratitudine più che per attrazione. Ero così sollevata all’idea di non essere più un verme della Terra che, ogniqualvolta un ragazzo si dichiarava, ecco… io lo baciavo. Poi, la cosa non andava avanti naturalmente, un po’ perché mi ero inselvatichita nella lunga e vana attesa del Principe Azzurro e un po’ perché, passato l’entusiasmo iniziale, mi stufavo e andavo oltre.

Finché non m’imbattei  in Ricky Maria Maj, l’istruttore di tennis, per il quale persi la testa ma niente di più, visto che ero vergine e tale volevo e dovevo rimanere. Avevo o non avevo promesso a mia madre, il temibile Patton, che “sarei tornata come ero partita”?

Sì, l’avevo fatto.

Oddio, grandi turbamenti non li pativo perché, pur avendo diciott’anni, ero stata frenata, quasi congelata, dalla bruttezza dell’adolescenza e sapevo poco di tutto. Baciare era già un esercizio di stile. Lo sapevo fare ma non era un’attività in cui primeggiassi.

Il mio primo bacio “vero” era stato con Fabio del Montale quando avevo quindici anni e frequentavo la prima liceo con la Chicca Montecchi. Era biondo con gli occhi verdi, Fabio, ed era molto più carino di me, anche se si pettinava col ciuffo tutto pettinato in avanti, stile spoiler, per nascondere la fronte brufolosa. Comunque mi aveva baciata lui per primo, ed era stata la suspense più del fatto in sé a mandarmi nelle pesche. Da tempo mi arrovellavo sull’argomento “primo bacio”, chiedendomi che cosa comportasse. C’era una tecnica da seguire, un libro da leggere, un esercizio da completare? Ero bravissima a prepararmi, avrei potuto farlo anche  per quello, l’ars baciandi! Tanto scrissi sul mio diario segreto, così segreto che mia sorella Francesca – quella stronza – andò subito a leggere. Poi, però, si impietosì perché mi disse: “Apri la bocca e chiudi gli occhi, no?”.

Ma già, lei aveva 19 anni, assomigliava a Caroline di Monaco e stava con quel figo di Massimo Baccarini!

Io invece ero passata dalla cotta platonica e unidirezionale per Paolo Frignani, nuotatore agonista della Città dei Ragazzi, alla cotta altrettanto platonica e unidirezionale per Tagliazucchi delle GB Amici, un “grande” delle medie talmente al di fuori della mia portata che non ho mai nemmeno saputo come facesse di nome.

Non mi ero mai parlata con un ragazzo, figurarsi baciarlo!

Con Fabio, comunque, accadde tutto molto velocemente. Ci fu questa festina. Lui mi puntava. Io ero curiosa. E come la curiosità uccise il gatto, così Fabio catturò me.

A quel punto seguii le istruzioni di mia sorella. Aprii la bocca e chiusi gli occhi.

Non solo sopravvissi ma sbirciai anche!

La cosa andò avanti per un po’. Ci vedevamo a casa di lui, a Montale dove sua nonna – buon’anima – ci faceva le imboscate quando il tempo di permanenza nella camera blu notte di Fabio (un delirio anni Ottanta) diventava eccessivamente lungo.

Vorrei poter dire che fui devastata quando troncammo ma in realtà non ricordo molto dell’episodio, salvo che ne uscii rafforzata. Ero stata baciata, ergo sapevo baciare!

Tuttavia, dovetti per l’appunto aspettare la Valtur per dare un senso al nuovo talento acquisito. Lì però mi sbizzarrii e li baciai tutti, democraticamente, belli e brutti (anche se all’epoca erano più belli che brutti… magie della giovinezza).

Era nel bacio che si esauriva per me il proibito. Non cercavo altre cose, non avevo turbamenti particolari e certe domande non me le ponevo nemmeno perché il corpo era per me uno strumento, da tener pulito e ordinato perché mi traghettava da A a B con le gambe, dal problema alla soluzione col cervello e dal buio alla luce con la forza del cuore.

Vero, conoscevo l’innamoramento, specie se non ricambiato: qui ero una specialista! Però ero integra come una mandorla verde e lo sarei rimasta per anni a venire. Tutto m’interessava più del sesso perché il sesso non aveva significato per me. E anche dopo, quando lo conobbi al primo anno di università e fino ai trentacinque anni, restò per me un mistero. Non brutto ma generalmente palloso. Determinate cose poi le ho capite o apprese solo in seguito, per questo mi sento -  malgrado l’età e come dico sempre - in piena adolescenza.

In Valtur invece non rischiai alcunché, men che meno la castità. Gli stessi 100 baci ebbero un’innocenza che ancor oggi mi commuove.

Non che quell’innocenza mi abbia mai portata tanto in là. Ricky, infatti, mi piantò per la mia collega romana Cinzia che, oltre ai baci, dava anche “le altre cosette”.

In tutto questo io mi ammantavo platonicamente di drappi colorati e ghirlande di gelsomini, e ballavo sul trampolino della piscina insieme a quella stordita di Francesca Cervellera che, prima di cambiare nome in Dellera e sfondare nel cinema (quanto meno col peso del suo decolleté), portava i sandali alla Marilyn Monroe anche in spiaggia e parlava ossessivamente della sua “Latina”.

A fine stagione, io feci invece ritorno alla mia “Modena” e finii il liceo. A Trieste, dove mi trasferii l’anno seguente per l’università, riciclai allegramente tutti gli abiti accumulati in Valtur e diedi nuovo lustro ad altre elargizioni vintage della signora Mariani, tipo le toilette da sera anni Trenta che svecchiavo con tocchi grunge e anfibi, anticipando look che non sarebbero fuori posto nemmeno ora.

Dopo la laurea mi divorò l’ambizione. Lavorare, lavorare, lavorare, solo quello m’importava fare. Che cosa diavolo sperassi di diventare, ancora non lo so. Forse una novella Roberta Rambelli che dal suo lago Trasimeno traduceva allora i romanzi di Wilbur Smith. O un traduttore comunque di grido che le case editrici facevano a pugni pur di avere. Tant’è, non diventai nessuno. Lo stesso lavorai così tanto da curarmi poco o niente. Guadagnavo una miseria, portavo nuovamente gli occhiali, traducevo a ogni ora del giorno e vivevo in simbiosi col mio cane Freddo, detto Bamba. Era così bello lui, così deliziosamente elegante nel suo doppio pellicciotto bianco e nero, che non sentivo il bisogno di esserlo io.

Nemmeno col matrimonio migliorai il mio look.

Anzi. Ebbi un attacco acuto di “madamite” da cui guarii soltanto col divorzio, sette anni dopo. In attesa del riscatto, sfoggiai ogni sorta di stucchevole tailleur color pastello e ancora ne conservo un paio. Quello azzurro polvere della Benetton, per esempio, con la gonna lunga a portafoglio e la giacca squadrata. O il completo nero coi bottoni gioiello per il quale il mio ex marito ebbe quasi un malore.
                                          Tailleur beige di Sofia Rey
                      Tailleur verde pistacchio sempre di Sofia Rey
                         Tailleur verdone di Benetton: amatissimo!

Quel poveretto. Col fatto che, da buona emiliana, avevo un appetito formidabile nonostante la linea perfetta, lo avevo inconsapevolmente portato a credere che “vestirmi” potesse essere più conveniente del fatto di ”portarmi fuori a cena”. Col risultato che, per il compleanno del 1992, fui invitata a recarmi nella mia boutique preferita, Marina Rey di via Taglio angolo via Rismondo, e acquistare quello che preferivo, senza limite di spesa né altra specifica.

Come invitare un’oca a bere: lo presi in parola!

Da cliente abituale, pensavo di conoscere appieno il valore dei capi forniti (elevato ma non eccessivo), pertanto non ebbi scrupolo quando m’incapricciai di un tailleur di gabardine di seta che recava il marchio “Luisa Via Roma”. Avevo ventisette anni, non conoscevo la griffe e non avevo particolare familiarità con la ricchezza di certi tessuti o l’eleganza praticamente sartoriale del taglio in questione. Sapevo soltanto che il completo giacca e minigonna a portafoglio era bello e mi stava da Dio.

Lo presi.

Solo (molto) successivamente venni a sapere che era costato la bellezza di un milione e duecentomila lire di allora. Come dire, 600 euro di oggi, un prezzo che continuerebbe a essere importante!

Da quella volta Claudio, che diventò mio marito l’anno dopo, tornò cautamente alle cene e mai più se ne discostò.

I regali in generale si esaurirono del resto col (breve) fidanzamento, quasi che il tailleur di Luisa via Roma avesse rappresentato una sorta di abbonamento. Pagato quello, pagato tutto. Un’unica obliterazione e il “tagliando moglie 7 anni” era fatto.

Non a caso i pochi capricci o investimenti dell’epoca me li finanziai da sola, come il dentista, i quadri, l’auto e tante delle cose che nemmeno rividi più dopo il divorzio, tipo il divertente divano a motivi scozzesi che avevo comprato per il mare.

Siccome ero una traduttrice squattrinata e dovevo lo stesso versare in casa cinquecentomila lire al mese (il mio ex marito era miliardario ma comunista, pertanto riteneva giusto farmi contribuire alle spese di casa per le quali lui pagava settecentomila lire, essendo molto più abbiente), ricorrevo ai mercati, specie quello di Cavezzo, nella Bassa, e a quell’istituzione che era allora Postalmarket per variare il mio abbigliamento.

H&M e Zara erano ancora di là da venire ma i nostri grandi stilisti avevano appena incominciato ad avvicinarsi al mercato di massa. La Biagiotti ed Egon von Fuestenberg, per esempio, disegnavano linee economiche che venivano vendute per corrispondenza.

Se ci ripenso ora, mi prende male. Quei capi di colore tenue, con inserti di pizzo improbabili, mi sembravano meravigliosi mentre erano artificiosi, quasi cresimali, così come lo era il gusto imperante. E le scarpe che li corredavano erano anche peggio, con certi tacconi rotondi che sembravano le gambe di un tavolo rustico. A ben rifletterci, nemmeno mi dolgo più per aver perduto gli album di foto di quegli anni: peggio per il mio ex marito che se li è voluti confiscare, quasi a trattenere – con le immagini – ciò che esse ritraevano: una moglie che non voleva più esserlo, per giunta malvestita.

Si stava avvicinando il Duemila e il mio gusto era in evoluzione, se è vero che Kookai e i suoi fiorellini avevano incominciato a danzarmi davanti agli occhi. All’epoca frequentavo l’enorme outlet parigino di Rue Réamur grazie a un tassista che me l’aveva consigliato un giorno, al ritorno da una fiera agricola in cui ero con New Holland (alternavo gli eventi alle traduzioni).

I soldi erano sempre pochi, e dopo il divorzio sarebbero addirittura svaniti, tuttavia Kookai era cheap in Francia e quello spaccio, poi, era un’autentica manna. Vi approdai nel periodo in cui vigeva una formula d’acquisto che si chiamava “Acheter malin”, ovvero “Comprare in modo furbo”. Seguendo dei bollini con un codice colore, capivi a colpo d’occhio se un indumento costava 10, 20 o 30 euro. E se ne compravi 4, il quinto era free. Una magia!



                                              I fiori di Kookai!


do Qaund
Acquistai gonne che porto tuttora e mi avvicinai per la prima volta a quei “vestitini tutto sterzo” che sarebbero poi diventati il mio brand. Il primo della serie, di tweed bicolore verde e corallo chiaro, era molto scollato ed è sempre nel mio armadio. Ci entro ancora, a fatica, e tutte le volte che mi guardo nello specchio, col seno compresso allo spasimo, mi riprometto di perdere quei 3 chili di troppo che in realtà sono 5 che in realtà sono 7.

Perché con gli anni, come dicevo, sono in… GRRRR… assata.

E dire che – delle mie amiche – ero la più magra, quasi patita!

Yes, rimango longilinea, dato che misuro pur sempre un metro e ottanta di altezza. Tuttavia, ho messo su curve per le quali avrei ucciso da ragazza. Non mi piaceva essere smilza allora. Avrei voluto i fianchi, le tette, le cosce, tutto. Invece non riempivo niente. Mi stava tutto benissimo, mai una grinza né un difetto, ero la metà di una modella. Il vuoto cosmico. Per questo invidiavo le forme.

Adesso che le ho… ecco, sono combattuta. Da un lato mi piaccio parecchio perché mi vedo più femminile e più simile all’immagine che sognavo per me. Dall’altro rimpiango quando la mia pancia era così piatta da apparire quasi infossata.

Poi, per carità, invecchio anche benino e sarebbe veramente stupido lamentarsi.

Ma da 38 scarsa che ero sono diventata una 44 al pelo, e a volte con certi modelli devo sconfinare addirittura nella 46, una taglia che – quand’ero piccola io – portava soltanto Patton!

Da più magra sono insomma diventata  (la) più grassa.

La Chicca che ha vissuto di scarola scondita fino ai trenta anni è tuttora in forma smagliante grazie al suo adorato sport. Per lei rilassarsi è correre. Dormire fare spinning. Sognare giocare a tennis. La Chiara era ed è rimasta un ossicino elegante. La Stefy pesa un etto nonostante i due figli. La Claudia che pure era rotondetta da ragazza è diventata magra stellata. E l’Adele anticamente pienotta è quasi una “nevla”… che in modenese significa “ostia”. Per questo non mi capacito di come io sia potuta diventare giunonica. Non è che mangi schifezze o altro, no. Sono semplicemente cambiata. Invecchiata, appunto. I volumi si sono spostati, una cosa odiosa.

Certo non mi cruccerei se non avessi cambiato taglia. Avendolo fatto, mi trovo a dover salutare capi che mi hanno accompagnata per anni, e ci sto male.

Come ad agosto di quest’anno, appunto – e ritorniamo sempre lì, ahi - quando l’impietosa prova dell’abito lilla mi ha definitivamente convinta a svuotare gli armadi.

Di solito, le (pochissime) cose che elimino finiscono in qualche cassonetto dell’Unicef. Ma parlo di cose malmesse, rovinate, buone soltanto a fare stracci. Adesso però mi preparavo a scartare tutta una serie di abitini amorevoli. Cose carine e alla moda, a volte di marca, sempre legate a qualcosa. Un momento, un ricordo, un’emozione non necessariamente buona, anche cattiva però intensa…

L’abito a righe diagonali color indaco che comprai per 50.000 lire da Promod prima di andare in Scozia con Clelia nel 1997.

Il sottoveste con le spalline di cristalli rosa con cui festeggiai la chiusura dell’International Torchbearers’ Program a Firenze, prima delle Olimpiadi di Torino 2006.

La gonna a fiori bianchi e neri che indossavo quando Massimo mi baciò la prima volta in Piazza Santo Stefano a Bologna quel torrido pomeriggio di luglio.

Il prendisole di fiandra bianca col bordo frangiato su cui un cameriere di Roma, inciampando, rovesciò un intero piatto di spaghetti al pomodoro a Ferragosto del 2003.

Lo smanicato color cipria che scovai nel 2001 al mercato di Ancona mentre tornavo da una visita di stabilimento CNH.
                 Lo smanicato rosa cipria del mercato di Ancona!

Il tubino a righine bordeaux e rosa in cui m’imbattei nel 2004 da Pimpkie/Parigi dopo un impegnativo congresso medico della Sorin.

L’elegantissimo wrap dress nero con cui mi innamorai di Nikolaus al Palais de la Mediterranée di Nizza nell’ottobre del 2007.

Dio, nemmeno drogandomi col roipnol o dandomi una (ben più sana) botta in testa, avrei mai potuto gettare quei tesori in un cassonetto!
                       Con quest'abito di Max&Co ho divorziato!

Poi, mi sono venute in mente le mie bellissime nipoti,  Cecilia e Beatrice. Non sono più bambine. Figurarsi, vanno all’università e hanno anche il moroso. I vestiti avrei potuto darli a loro, mi sono detta, e sicuramente li avrebbero graditi. Fosse capitata a me, alla loro età, una fortuna del genere!

Ma come mi è venuto quel pensiero, così ho desiderato cancellarlo. Perché so essere meschina quando voglio.

Tenermi tutto, ecco che cosa avrei voluto veramente.

Pure gli abiti però hanno diritto a una chance, prima o seconda che sia.

Con un sospiro ho tirato fuori un borsone da sotto il letto e ho incominciato a riempirlo. A destra le cose per la Ceci, alta quasi come me e con spalle squadrate dal nuoto. A sinistra gli articoli per la Bibi, un po’ più bassa e con un incarnato meravigliosamente perfetto. La prima si è cuccata tutti gli abiti di Twin Set che ormai mi andavano troppo corti. La seconda ha avuto la fortuna di aggiudicarsi i Max&Co, coi loro plissé e ramages. I Kookai li ho spartiti equamente, quelli fioriti alla Ceci, quelli più rigorosi alla Bi. Gli abiti lunghi li ho destinati alla grande perché la piccola li avrebbe pestati.

E quando i capi non erano indicati né per l’una né per l’altra, perché troppo da “grandi”, ho creato un mucchio per amiche e colleghe, sempre adattando i modelli alle corporature, i colori ai gusti, le marche alle circostanze. Mentre facevo i vari abbinamenti, ripensavo al passato. L’abito fucsia di Zinko, per esempio, l’avevo comprato nel 2008 a Cognento insieme al peplo coloro fango. Entrambi erano ormai troppo corti per una quarantottenne. Il tubino a fiori bianco, nero e rosso invece era ancora anteriore. 2000? 2001? Sì. Adesso mi segnava sui fianchi ed era troppo scollato.

Scambi e assegnazioni si sono susseguiti per più di un mese, poi è tornata la quiete.

In me.

Il dress swapping era finito e, se proprio non mi aveva divertita, beh, quanto meno mi aveva portato un po’ di conforto. Lo fa ancora. Niente è andato sprecato, tutto ha avuto la sua giusta collocazione. Le ragazze sono state felici, le amiche e le colleghe pure e io ho smesso di soffrire. Anche se più precisamente dovrei dire che ho sofferto di meno.

In totale credo di aver salutato (non scartato) qualcosa come 50 pezzi. Sembrano tanti ma parliamo di oltre vent’anni di guardaroba.

Vent’anni in cui ho comprato più per solitudine che per altro.

Vent’anni in cui mi sono riempita di colori e fantasie nell’armadio visto che mancavano nella mia vita.

Vent’anni in cui ho cercato, trovandola, la compagnia delle cose prima delle persone.

Vent’anni in cui ho colmato di tessuti, zip e bottoni vuoti che alla fine si sono anche animati.

Vent’anni in cui ho alleviato immani pesantezze dell’anima  con un tocco di materiale, leggera frivolezza.

Quando mia sorella Francesca ha visto la roba che ho passato alle ragazze è rimasta sconvolta. <<Ma tutte queste cose?>> se ne è uscita.

Tutte quelle cose, sì.

Sono stata triste, quasi disperata, e ho rimediato così, comprando in modo pazzo, frenetico e sconsiderato.

Altre volte sono stata felice, praticamente ebbra, e di nuovo mi sono data allo shopping, perché sono fatta così: avere mi piace visto che essere (in molti modi) non mi fa difetto.

Adesso che sto ritrovando il centro, ho rimesso in circolo i miei acquisti di allora, sperando che portino ad altri allegria, coraggio, sicurezza e un po’ di quel mio spirito frivol-chic che si riassume in “Fare&Apparire”.

DressCrossing! La mia versione di Towanda!

Continuo a comprare, solo più raramente e in modo diverso. Non ho più quella fame. Non provo compulsione. C’è una nuova contentezza in me. Intendiamoci, lo stesso adoro gli abiti. Quando ne trovo qualcuno che mi piace particolarmente, lo compro senza nemmeno provarlo (perché so già che mi starà bene), e lo tengo fuori dall’armadio un giorno o due. Così, per contemplarlo. Oppure gioco a trovargli il giusto abbinamento. Il decolleté a becco d’oca stile Jackie Kennedy che ho comprato su Zalando piuttosto del sandalo rosso fiamma alla Twiggy che mi sono presa da Poggioli a Modena. L’orecchino con la perla scaramazza che mi ha creato la Pierina in quel paradiso ruspante che è la Perla d’Oriente a Modena oppure l’anello bi-dito col fiocchetto dorato di Accessorize che mi riporta a una mattina di sole in via Indipendenza a Bologna.

Scegliere come vestirmi è il mio gioco preferito.

Mi fa sentire bene.

Oggi per esempio indosso un abito rosso lacca di Lancetti, comprato al mercato per 45 euro, con un golfino vecchio di Ellen7 (c’erano ancora le lire) e uno strangolino nuovo tipo Burberry che devo al mio vuccamprà di fiducia a Spotorno.

Succederà qualcosa di bellissimo. Quanto meno mi sono vestita perché succeda.

E se poi non succederà, pazienza.

Domani avrò un altro abito, un’altra aspettativa, e il mondo intero un’altra occasione per farmi capire che posso essere speciale.

Se prima avevo tanti vestiti per sentirmi meno sola o festeggiare effimeri successi, adesso ho tanti vestiti per avere più chance… o credere di averle.

Sperare è da sempre la cosa che mi riesce meglio, dopo potare le rose graffiandomi tutta, cucinare le trenette con le telline, infilare perline, parole & pailettes, scrivere sciocchezze, rompere cose (specie quelle preferite), incollarne i cocci, ritagliare immagini che mi piacciono e che mi mettono allegria, dipingere vivaci soggetti floreali nei pomeriggi d’inverno, attaccare quadri non necessariamente di valore dal soffitto al battiscopa e scovare tesori nei mercati, specie quelli più depressi.

Anche sognare mi viene bene.

Tipo un colpo di fortuna...

... o un principe che bussa alla mia porta, per l’appunto cercando un’(attempata ma ancora gagliarda) organizer di Modena!

E quando questo principe busserà, beh, se non altro io, nel graziosamente aprire, avrò l’abito giusto. E le scarpe. Il ventaglio. La borsa. Gli orecchini. L’intimo…

Tutto!

E dai, principe, bussa, no?

(Dopo mi mancherebbe solo il cane... e avrei tutto!)
 
  
        
L'angolo dei ventagli...
 
                                  .... e quello degli orecchini!