martedì 3 settembre 2013

Monica

(Pubblico oggi due racconti del 2010 che non hanno niente in comune se non il contesto, che è poi quello della mia alma mater, la Scuola per Interpreti e Traduttori di Trieste. A farmeli appaiare è stata una mia carissima amica, Lorenza, compagna universitaria. Dice sempre che, per lei, il primo racconto, "Rapidamente", è imprescindibile dal secondo, "L'avanzo": legge il primo per ricordare e piangere, il secondo per ricordare e ridere. Da quando me l'ha confidato, faccio così anche io se per caso mi capita di rileggerli. Sono passati anni da allora ma, se penso a Monica [Casonato], mi viene ancora da piangere. Perché mi manca. Perché, quando c'era, spesso l'ho data per scontata. Mentre era un'amica allegra, autenticamente spiritosa e priva di malizia. Una persona di sostanza di cui ho sì percepito a suo tempo l'energia buona e rigenerante ma senza veramente attribuirvi l'importanza fondamentale che invece aveva.

Sia "Rapidamente" che "L'avanzo" sono apparsi per la prima volta sul volume online della Scuola per Interpreti e Traduttori di Trieste AAVV "SSLMIT 3.0 - Esercizi di scrittura", curato da Saulo Bianco e Lorenza Destro http://issuu.com/sslmit30/docs/sslmit30)

 
Torino, 21 giugno 2010
Rapidamente
di Maria Gaetana Ferrari
Non te l’ho detto mai e, col senno di poi, mi spiace perché, vedi, le cose non dette non hanno veramente  valore… se non nella mente di chi le concepisce sotto forma di pensieri, intenzioni, desideri.  I desideri di una persona che è quasi sempre troppo occupata – o dovrei dire preoccupata? - per imprimere la giusta priorità, l’enfasi corretta a fatti, individui, accadimenti.
Quella persona sono io.
L’essere meno sportivo della Terra, eppure corro sempre, inseguendo obiettivi che lì per lì mi paiono importantissimi, praticamente vitali, e che poi nel tempo, una volta raggiunti, ondeggiano, si sgonfiano, diventano molli e biancastri, come rigatoni scotti. Che giocoforza non possono piacermi. Infatti c’è sempre un obiettivo successivo, un’ulteriore corsa, l’ennesima meta che sento di dovermi prefiggere. Quasi che non averne mi rendesse fragile come una leziosa statuetta di Lladró. Quando è forse vero il contrario. Non abbiamo bisogno di obiettivi per vivere. Abbiamo bisogno di vivere per avere obiettivi.
Questo volevo dirti. Che corro troppo e poi per niente.
Mentre corro, perdo i pezzi naturalmente, perché non esistono persone perfette, solo persone che fingono di saper prendere da tutte le parti, e che asseriscono di poter amare, lavorare, ridere, preparare l’arrosto di coniglio o spazzolare il cane o finanche andare alla riunione condominiale senza sforzo apparente o aiuto esterno o intervento divino.
Ma tu non mi hai mai vista in questo modo.
Per te non sono mai stata la farfalla impazzita che schizzava da una zinnia all’altra senza mai scegliere né posarsi o, peggio ancora, scegliendo tutto e posandosi ovunque, per quella curiosità mista a bramosia che è sempre stata la mia rovina e solo successivamente, a tratti (molto piccoli), la mia grandezza.
Tu, però – e su questo insisto - non mi vedevi frettolosa e approssimativa, solo velocissima. Non ti sembravo trafelata o pazza, tutt’al più dinamica e reattiva, se non maledettamente in gamba. Sì, per qualche misteriosa ragione ti stavo proprio simpatica, infatti ci attardavamo spesso lungo il corridoio, chiacchierando e ridendo, anche fumando (perché allora si fumava dappertutto), in attesa che la Rosini sgambettasse nella nostra direzione. Ed era un corridoio stretto e buio, coi muri scritti e segnati, quasi ad anticipare l’aula derelitta in cui avremmo fatto lezione.
Derelitta era la Scuola, del resto, ex jutificio convertito – così mi dissero - che si adagiava come una costruzione di Lego (male assemblata) sul curvone di via D’Alviano, dopo le due gallerie, rimanendo sulla destra per chi veniva dal centro. Vi si accedeva mediante un unico ingresso che trovava in quei sei o sette gradini la sua unica, dubbia lusinga. Le porte erano a vetri, profilate, molto anni Settanta, con ditate che risalivano tuttavia ai tempi di Leone presidente.
L’atrio grande e disadorno aveva un pavimento di graniglia color can-che-fugge. Arredi non ve n’erano ma la bacheca accentrava gli sguardi, contenendo annunci scaduti che era piacevole ripercorrere, perché le occasioni perdute fanno male solo al momento, poi diventano anch’esse ricordi e non straziano più come prima. Oltre ai messaggi del Comitato Alloggi che, come entità, non ho mai veramente capito, c’erano offerte di imprecisate lezioni private, richieste di passaggi per città in cui non andava mai nessuno, nemmeno in vacanza, volantini pseudo facinorosi e qualche nota privata che però non rivelava mai niente di veramente gustoso, mannaggia. La maggior parte degli annunci era su noiosissima carta a quadretti e terminava con la classica “frangetta” di numeri da staccare.
Poco oltre la bacheca, la scala ti portava di sopra… se proprio volevi o dovevi. Ma rimanendo dabbasso, la scelta si scomponeva tra diverse aule, tra cui quella  della Rosini per l’appunto, con le finestre a ghigliottina che misteriosamente si aprivano solo quando pioveva, quasi a farci dispetto.
Ma a noi due non importava. Eravamo giovani, avevamo studiato, e io avevo le mie sigarette, ce le avevo sempre prima della lezione della Rosini, solo così la superavo indenne. Non che la Rosini mi urtasse. Al contrario, la trovavo gagliarda, con un accento talmente triestino da togliere a chiunque il complesso della pronuncia. Tuttavia, sapeva essere linguacciuta, invariabilmente mordace, per cui bisognava prestare massima attenzione, specie ai congiuntivi, e tenere un profilo complessivamente basso… perché con lei si cadeva sull’italiano, non sull’inglese, mai sull’inglese. A quello nemmeno ci si arrivava se prima non si conosceva ogni rudimento di sintassi, ortografia e grammatica della madre di tutte le lingue. E siccome quella povera madre era la più trascurata, di cadute ce n’erano eccome. Rovinose anche.
Il mio italiano era migliore del mio inglese, per cui in quelle ore me la cavavo. Non come in quelle della Coales o di Taylor, in cui sarei voluta morire e rinascere altrove, in ogni caso molto lontano dallo ex jutificio, tipo a Noto,  pensavo, così ne avrei approfittato per vedere la cattedrale e divorare un arancino o due.
L’italiano, l’hai sempre avuto buono pure tu, per cui le nostre chiacchiere pre-Rosini fiorivano leggere e spumose, e ti restava addirittura il tempo per rinfrescare l’immancabile rossetto che faceva pendant con lo smalto delle unghie. Dove tu trovassi il tempo per curarti così tanto ancora lo ignoro ma fatto sta che non passava giorno senza che il tuo viso spuntasse imbellettato, i tuoi capelli castano chiaro phonati intorno al viso, le tue unghie limate e laccate alla perfezione. Io a confronto, che pure tenevo all’aspetto, apparivo incolta con la mia chioma folta, ricciuta e allora biondissima… o “tinta”, come avrebbe puntigliosamente precisato la Rivatelli, cui ero simpatica quanto la sabbia nelle mutande. Certo un po’ mi truccavo anch’io, specie gli occhi che ingrandivo con l’eyeliner nero, ma il rossetto mi era precluso perché, avendo una bocca che misurava un ettaro, mi prodigavo per non farla notare più del dovuto.
Con tutto che eravamo coetanee, sembravi più grande tu, perché vestivi classicamente, con giacche sartoriali e gonne a tubo che allora andavano parecchio, spacco e tutto. Io ero più per gli abiti di maglia colorati che compravo a Carpi, se avevo molta fortuna, o al mercato del Lunedì, se ne avevo di meno. Allora non si andava negli outlet, naturalmente, bensì “in fabbrica”, a rovistare in cumuli di capi fallati che ti riempivano di gioia perché brulicavano di economici tesori.
Ma tu eri più jeune fille bien rangée, portavi persino le borsette di pelle con la tracolla a catenella, e ti ingioiellavi volentieri, bracciali, collane e tutto, laddove io mettevo al massimo gli orecchini, anche se grandi e generalmente vistosi.
Diverse eravamo anche fisicamente. Io ossuta e altissima, tu bassina e pettoruta, con guance paffute e rosate. Ridevi più spesso di quanto non facessi io, forse perché eri facilmente allegra oppure perché avevi denti regolari e li mostravi volentieri, al contrario di me, che ho impiegato secoli e fior di apparecchi prima di sfoderare un sorriso decente.
Lo stesso, tu mi trovavi veloce. Un giorno dicesti a una nostra comune amica che io ero un rapido mentre voi due fungevate da accelerati. Lei non gradì e te lo disse, credo, perché non si riconosceva nella descrizione.
Alla fine io fui veramente rapidissima, negli studi e altrove, ma saltai tanti di quei passaggi che nemmeno ti sto a raccontare e bruciai tappe fondamentali che ancor oggi un tantino rimpiango, se ci penso, mentre chi accelerò soltanto fece più o meno le mie stesse cose, anche se col proprio stile, ottenendo a paragone di più e soprattutto vivendo meglio, pienamente.
Anche se, nella realtà dei fatti, la più rapida di tutti fosti proprio tu, amica mia.
Non a caso sei morta da anni, e io sono ancora qui a parlare delle tue risate e del tuo smalto o della gonna di gabardine rossa che ti piaceva tanto.
Guidavi piano quel giorno.
Guidavi sempre piano, mi raccontò tua madre al telefono, eri prudente. Ma non lo fu la ragazza che era dietro di te. Tamponò la tua auto e tu finisti nel canale e non riuscisti a liberarti e andasti sotto.
Una morte sciocca per una ragazza che non lo era.
Ti ho vista l’ultima volta al mio matrimonio, nel 1993. In realtà non ti avevo invitata, avevo mandato soltanto la partecipazione, ma tu la scambiasti per un invito per fortuna, così venisti comunque. Lì per lì m’irritai anche, ricordo, perché sposarsi è più logorante che piacevole se devi lottare con costi, suocere stile Nightmare 4, equilibri tra quote parenti/amici, e stronzate varie. Come risultò poi, la tua apparizione, naturalmente in rosso (geranio), fu uno dei pochi, autentici piaceri di un matrimonio sostanzialmente mediocre.
Per anni telefonai a tua madre, poi non lo feci più.
Conservo una tua foto, lunga e stretta, in cui non guardi l’obiettivo e nemmeno sorridi. Sembri già lontana come poi saresti stata ma il tuo rossetto mi riporta a giorni felici e mi conforta, parla così tanto di te, di com’eri.
Ti penso spesso, Monica, e ci sono volte in cui vorrei ritornare indietro. Non potendo, in quanto rapido andrò avanti, sicura di trovarti un giorno nella mia stessa stazione d’arrivo. Che sarà una stazione terminale, naturalmente. Quel giorno, che spero lontano perché, per quanto la mia vita sia stata abbastanza disastrosa, la amo tuttora intensamente, riprenderemo le chiacchiere da dove le avremo lasciate. E bada di non rimanere sorpresa se non fumo più. Ho smesso anni fa, non ho più ricominciato.
Conoscendoti, so già che riderai.
Conoscendomi, so già che in quella stazione cercherò un baretto come quello di via Caprin e ti offrirò il più démodé dei tè, ovvero al limone.
Sarà pomeriggio, sarà pomeriggio per sempre e non dovremo preoccuparci di far tardi, non dovremo preoccuparci di niente.
 

L’Avanzo

di Maria Gaetana Ferrari
Mi amava, diceva.
Mi amava perdutamente, e passava le ore a ribadirlo, di persona o al telefono, argomentando con vigore mista a verbosità. Due “V” di troppo per una persona concisa e controllata, very “C&C”, come me.
All’epoca abitavo in via della Tesa. Era il mio primo anno a Trieste, e studiavo, studiavo sempre. Non ero lì per niente. Già mi sembrava un miracolo l’essere entrata. Volevo, dovevo finire per tempo, e quattro anni, che poi in realtà bastarono a passare tutti gli esami, finali inclusi, sembravano pochi. Quanto meno, a me.
Tra un ripassino e l’altro, e anche durante, mi divertivo a fumare mentre nelle rare pause sperimentavo zuppe e condimenti di dubbio pregio nell’angusta cucina senza vista (già era tanto che avesse una finestra) di quello che era il mio primo, deprimente appartamento da studentessa con più fantasia che soldi. Lo dividevo con la milanese Silvia Steiner, austera biondina occhialuta del mio stesso anno, e con due ragazze più avanti negli anni anche se non propriamente con gli studi.  
La prima mi era alternativamente indifferente od ostica, infatti non ne ricordo il nome. Ricordo però che, in un rush di rupofobia, scambiò per pattume tre paia di scarpe che un giorno, traslocando, avevo messo in un sacchetto di plastica della Pam … e le buttò nel primo cassonetto utile! Col fatto che le scarpe in questione mi piacevano parecchio, specie quelle blu col tacco alla Marilyn che avevo fregato a mia madre prima di partire per Trieste, impiegai quei due anni a perdonarla - perché ero una ragazza sciocca, vanesia e con limitate possibilità finanziarie - e anche allora i nostri rapporti non migliorarono gran che.
L’altra ragazza, Valeria, era mora e carina, marchigiana; frequentava traduzione. Mi stava simpatica ma aveva il vizio di mangiarsi la mia piccola riserva di cioccolato, quella che tenevo sul tetro armadio anni Cinquanta della camera da letto, o colpa ben più grave, di attingere liberamente al mio adorato guardaroba. Gli abiti, li rendeva anche, a onor del vero. Ma pieni di macchie, neanche fossero diventati giaguari. Il moroso di Valeria era un tipo delizioso e molto allegro, forse perché aveva occhi d’un azzurro polveroso che ti strappava il cuore, come quello dei fiori di lino, e insieme i due si divertivano parecchio nella cameretta oblunga e tetra, praticamente leopardiana, della Vale. C’era di buono che tanta fisica esuberanza avveniva silenziosamente (non come nel successivo e ben più pittoresco alloggio di via Hermet), tanto che io, a breve distanza, potevo passare indisturbata dai deliranti appunti di Crevatin, che fingevo di capire, alle involute versioni della Coales, che mi arrabattavo a tradurre.
Non che un eventuale sonoro mi avrebbe turbata. Ai tempi ero vergine, rigorosamente praticante, e provavo per il sesso una curiosità che si avvicinava a quella di un’erica di Lochinver per la brughiera: nessuna. Certo gradivo i baci, li gradisco tuttora… insieme ad altro. Ma non mi sembrava di avere tempo o propensione per niente di più approfondito. Soprattutto, non mi piaceva quasi mai nessuno, caratteristica che del resto si conserva invariata e che più dei principi mi ha sostanzialmente mantenuta – negli anni – una brava ragazza.
Non mi piaceva nemmeno lui, il verboso pretendente.
Eppure era belloccio, anche se un tantino robusto. Gli occhi scuri, così profondi e brillanti, ben s’intonavano col naso arrogante, camuso. Aveva un sorriso piacevole, modi curati, mani che mi danzavano intorno, lievi come tulle.  Giusto il nome ridicolmente esterofilo era orribile. E’ orribile anche il mio, Maria Gaetana. Ma almeno è italiano. Inoltre il cognome, Ferrari, per quanto ordinario, suona bene e fa perdonare il resto. Nel caso di Felix, così lo chiamerò per riserbo, convenzione e pudore, non c’era invece scampo, perché il cognome, curiosamente un aggettivo d’ambito culinario, era ancor peggio del nome.
Come dire, Felix Ribollito.
O Impanato.
Se non Brasato, Cotto, Arrostito, praticamente Flambé!
Insomma, un obbrobrio onomastico a pieno diritto, specie per me che adoravo nomi da romanzo come Andrea Sperelli o Jay Gatsby o Jean Floressas des Esseintes e che ancora non avevo sviluppato quel talento gastronomico di cui adesso mi glorio. Altrimenti, un Brasato mi avrebbe anche deliziata… forse.
Invece no. Non mi deliziava lui e non mi deliziavano le sue dichiarazioni, perché naturalmente a dichiararsi sono sempre gli uomini che non vuoi, altrimenti sarebbe facile vivere, amare, riprodursi ed essere ragionevolmente felici.
Non persi tempo con Felix. Gli dissi che non ero interessata. Insensibilmente, forse, ma mi sembrava urgente chiudere. Scelsi il telefono per farlo, e in questo sbagliai. Le cattive notizie si danno di persona, perché non v’è replica che non meriti occhi per guardare. Devi esserci con la tua faccia quando dici di no a qualcuno, è la cosa da fare. Quel misto di coraggio, carattere e buone maniere che segna la differenza tra una decisione consapevole e una carognata d’ufficio. Ma avevo vent’anni, e il mio concetto di spavalderia era mangiare pane con le olive sul muretto della curva di San Giusto mentre ripassavo i paradigmi dei verbi inglesi.
Bite, bit, bitten, cut, cut, cut, hit, hit, hit, hurt, hurt, hurt, slay, slew, slain…
Tutte azioni che il Felix, respinto, avrebbe volentieri applicato alla mia persona, perché naturalmente si arrabbiò. Si arrabbiò di brutto.
Più rifinito di me, diede tuttavia seguito alla telefonata con uno scritto.
Incautamente, scelse come forma espressiva la poesia.
La lettera arrivò in Via della Tesa e la tirai fuori dalla cassetta, incuneandola tra un esuberante fascio di bietole e la bottiglia del latte. Che era di vetro, perché a Trieste c’erano ancora le vecchie latterie di una volta e io, che nemmeno amavo il latte, vi entravo per il fatto solo di aprire la porta col campanello d’ottone e guardare la vetrina piena di caciotte rotonde e quadrati panetti di burro. Mai latticini, uova e cubetti di lievito di birra m’erano parsi così graziosi, quasi esotici.
Esotico risultò essere, secondo canoni generosi e quindi non miei, pure il poema di Felix.
Intanto, s’intitolava Tristesse.
E già questo aveva fatto avvizzire la bietola.
Poi, era dattiloscritto ma con tre errori di battitura da far cagliare l’incolpevole latte.
Sospirando, posai la borsa della spesa, mi sedetti nella cucina beige e arancione (quella sì che era una bella tristesse, altro che) e mi accesi una sigaretta. Una Marlboro Light lunga che sarebbe durata poco più del componimento che mi accingevo a leggere.
Un giorno credi di essere donnna,
ma non soltanto perché porti la gonna.
La sigaretta sfrigolò, e altrettanto feci io.
I tuoi pensieri sono strani e confusi,
quasi sognassi ad occhi chiusi.
Come verso, mi parve leggermente migliore rispetto al primo, quanto meno la rima baciata risultava un tantino più soffusa, quasi tollerabile. L’interesse si riaccese, tanto che avvicinai il portacenere di latta rossa e vi lasciai cadere un ordinato cilindretto di cenere che si franse, ma delicatamente.
Un uomo il tuo cuore non l’ebbe mai,
ma a volte mi chiedo se un cuore ce l’hai.
Questo, lo trovai ingiusto. Il cuore (ce) l’avevo eccome, e non solo si trovava al posto giusto, sulla sinistra, ma funzionava anche benissimo, e pazienza se non batteva per il Brasato. Che diamine. Di nuovo scrollai la cenere, e poi la testa, e credo che in un moto di ribellione totale accavallai anche le gambe, così che mi salì la proverbiale gonna, che quel giorno era a scacchi viola, tabacco e grigio. Un obbrobrio se ci penso adesso ma all’epoca la trovavo chic.  
Lessi ancora.
Correrai al porto aggrappata alla vita,
ma la mia nave sarà già partita.
Di corsa com’ero sul fantomatico molo (Audace?), alla ricerca della benedetta nave di Felix, mi venne da ridere, e fui grata a quel passo perché la sua bruttezza, di colpo, aveva reso tutto più leggero. Non ero mai stata al porto né avevo intenzione di andarci, non ero avvezza a correre perché già allora portavo i tacchi, e comunque non facevo caso alle navi, tutt’al più ai gabbiani, perché mi parevano festosi e rumorosamente scollegati mentre volteggiavano nel rettangolo di cielo sopra Piazza Unità d’Italia.
Raddrizzai la schiena mentre finivo di leggere. Il verso successivo mi provocò un sussulto piccino e molto circostanziato.
M’han detto che se è forte il dolore,
si muore, si muore d’amore.
Il fumo mi uscì dalle narici, neanche fossi diventata il drago di San Giorgio, e planò contro il foglio, rimbalzandomi in faccia con uno sbuffo. Avevo fatto trenta, potevo fare trentuno. Restava un’ultima frase, la stoccata finale.
Affrontai anche quella. Non c’è niente che una buona sigaretta non renda sopportabile. Per questo rimpiango il fumo, la ritualità connessa cui solevo appoggiarmi. Lo feci anche allora, il che mi evitò, suppongo, di cadere dalla seggiola.
Ma io non posso morire,
perché non credo, noon credo nell’amore.
Pensai che fosse un buon momento per spegnere la sigaretta, e lo feci. Non rilessi la “poesia”. La ricordavo sin troppo bene. Era stucchevole, certamente rozza, ma aveva sortito lo scopo, che era poi quello di ferirmi. Mi spiaceva essere giudicata fredda e insensibile. Non pensavo di esserlo ma senz’altro ero concentrata sui miei sogni, sulle mie aspirazioni. Ero ambiziosa da giovane. Studiare, riuscire, laurearmi, inorgoglire mia madre, dimostrare che anche una cavallona di provincia col naso lungo può avere un suo piccolo, preciso talento. Ecco che cosa volevo. L’amore non rientrava nei miei piani, non lo cercavo. Infatti mi trovò per conto suo e fuori contesto.
Ma questo sarebbe avvenuto successivamente, e in ogni caso Felix se l’era cantata da solo. Io non l’avevo illuso né altro, semplicemente gli avevo detto che non lo volevo. Ero stata franca.
Per due giorni mi macerai in qualcosa che sembrava rimorso. Poi incontrai Felix alla facoltà. Teneva per mano una mia compagna di corso sui gradini sbeccati di Via D’Alviano, e la sbaciucchiava con palese compiacimento. La sua nave non era partita, dopotutto, e si era addirittura trovato un’altra donna a tempo di record, solo… in pantaloni.
Un bel guaio per la rima baciata, pensai. Poi risi  e mi complimentai con me stessa. Il Brasato si era riciclato, diventando Avanzo, e io potevo tranquillamente aspettare che qualche pietanza migliore transitasse nella mia direzione.
Come risultò poi, dovetti comunque sorbirmi un paio di mediocri Stufati prima d’incappare in un autentico Filetto alla Wellington, e anche allora mi andò male, perché non è che l’attesa ti preservi dalle delusioni o la selezione dagli sbagli o i propositi dalle fregature.
Ma la lezione servì, tanto che conservai la “poesia” tra i ricordi di Trieste, in mezzo alle fotocopie del mio libretto universitario, dove si trova tuttora, un foglio A4 ingiallito e ripiegato in quattro, accuratamente.
Gli uomini dicono (e scrivono) tante cose. Eppure s’identificano per ciò che fanno, per come lo fanno.
Non ti amano perché, disperandosi, lo mettono nero su bianco. Ti amano perché, di colpo, semplicemente, ti preferiscono a tutto ciò che esauriva la loro vita fino a quel momento. E quando amano, non si accontentano dell’ombra ma vogliono colei che la proietta.
Una donna lo sa. A prescindere dalla sua gonna, dall’esistenza e dal posizionamento del suo cuore e dagli innumerevoli coglioni che incrocia – inevitabilmente – sul proprio cammino e che qualche, rara volta ha la fortuna di saper schivare.

 
 


1 commento: