(Pubblico oggi due racconti del 2010 che non hanno niente in comune se non il contesto, che è poi quello della mia alma mater, la Scuola per Interpreti e Traduttori di Trieste. A farmeli appaiare è stata una mia carissima amica, Lorenza, compagna universitaria. Dice sempre che, per lei, il primo racconto, "Rapidamente", è imprescindibile dal secondo, "L'avanzo": legge il primo per ricordare e piangere, il secondo per ricordare e ridere. Da quando me l'ha confidato, faccio così anche io se per caso mi capita di rileggerli. Sono passati anni da allora ma, se penso a Monica [Casonato], mi viene ancora da piangere. Perché mi manca. Perché, quando c'era, spesso l'ho data per scontata. Mentre era un'amica allegra, autenticamente spiritosa e priva di malizia. Una persona di sostanza di cui ho sì percepito a suo tempo l'energia buona e rigenerante ma senza veramente attribuirvi l'importanza fondamentale che invece aveva.
Sia "Rapidamente" che "L'avanzo" sono apparsi per la prima volta sul volume online della Scuola per Interpreti e Traduttori di Trieste AAVV "SSLMIT 3.0 - Esercizi di scrittura", curato da Saulo Bianco e Lorenza Destro http://issuu.com/sslmit30/docs/sslmit30)
Sia "Rapidamente" che "L'avanzo" sono apparsi per la prima volta sul volume online della Scuola per Interpreti e Traduttori di Trieste AAVV "SSLMIT 3.0 - Esercizi di scrittura", curato da Saulo Bianco e Lorenza Destro http://issuu.com/sslmit30/docs/sslmit30)
Torino, 21 giugno
2010
Rapidamente
di Maria Gaetana
Ferrari
Non te l’ho detto mai e, col
senno di poi, mi spiace perché, vedi, le cose non dette non hanno
veramente valore… se non nella mente di
chi le concepisce sotto forma di pensieri, intenzioni, desideri. I desideri di una persona che è quasi sempre
troppo occupata – o dovrei dire preoccupata?
- per imprimere la giusta priorità,
l’enfasi corretta a fatti, individui, accadimenti.
Quella persona sono io.
L’essere meno sportivo della Terra,
eppure corro sempre, inseguendo obiettivi che lì per lì mi paiono
importantissimi, praticamente vitali, e che poi nel tempo, una volta raggiunti,
ondeggiano, si sgonfiano, diventano molli e biancastri, come rigatoni scotti.
Che giocoforza non possono piacermi. Infatti c’è sempre un obiettivo
successivo, un’ulteriore corsa, l’ennesima meta che sento di dovermi
prefiggere. Quasi che non averne mi rendesse fragile come una leziosa statuetta
di Lladró. Quando è forse vero il contrario. Non abbiamo bisogno di obiettivi
per vivere. Abbiamo bisogno di vivere per avere obiettivi.
Questo volevo dirti. Che corro
troppo e poi per niente.
Mentre corro, perdo i pezzi
naturalmente, perché non esistono persone perfette, solo persone che fingono di
saper prendere da tutte le parti, e che asseriscono di poter amare, lavorare,
ridere, preparare l’arrosto di coniglio o spazzolare il cane o finanche andare
alla riunione condominiale senza sforzo apparente o aiuto esterno o intervento
divino.
Ma tu non mi hai mai vista in
questo modo.
Per te non sono mai stata la
farfalla impazzita che schizzava da una zinnia all’altra senza mai scegliere né
posarsi o, peggio ancora, scegliendo tutto e posandosi ovunque, per quella
curiosità mista a bramosia che è sempre stata la mia rovina e solo
successivamente, a tratti (molto piccoli), la mia grandezza.
Tu, però – e su questo insisto -
non mi vedevi frettolosa e approssimativa, solo velocissima. Non ti sembravo
trafelata o pazza, tutt’al più dinamica e reattiva, se non maledettamente in
gamba. Sì, per qualche misteriosa ragione ti stavo proprio simpatica, infatti
ci attardavamo spesso lungo il corridoio, chiacchierando e ridendo, anche
fumando (perché allora si fumava dappertutto), in attesa che la Rosini
sgambettasse nella nostra direzione. Ed era un corridoio stretto e buio, coi
muri scritti e segnati, quasi ad anticipare l’aula derelitta in cui avremmo
fatto lezione.
Derelitta era la Scuola, del
resto, ex jutificio convertito – così mi dissero - che si adagiava come una
costruzione di Lego (male assemblata) sul curvone di via D’Alviano, dopo le due
gallerie, rimanendo sulla destra per chi veniva dal centro. Vi si accedeva
mediante un unico ingresso che trovava in quei sei o sette gradini la sua
unica, dubbia lusinga. Le porte erano a vetri, profilate, molto anni Settanta,
con ditate che risalivano tuttavia ai tempi di Leone presidente.
L’atrio grande e disadorno aveva
un pavimento di graniglia color can-che-fugge. Arredi non ve n’erano ma la
bacheca accentrava gli sguardi, contenendo annunci scaduti che era piacevole
ripercorrere, perché le occasioni perdute fanno male solo al momento, poi
diventano anch’esse ricordi e non straziano più come prima. Oltre ai messaggi
del Comitato Alloggi che, come entità, non ho mai veramente capito, c’erano
offerte di imprecisate lezioni private, richieste di passaggi per città in cui
non andava mai nessuno, nemmeno in vacanza, volantini pseudo facinorosi e
qualche nota privata che però non rivelava mai niente di veramente gustoso, mannaggia. La maggior parte degli annunci era su
noiosissima carta a quadretti e terminava con la classica “frangetta” di numeri
da staccare.
Poco oltre la bacheca, la scala ti
portava di sopra… se proprio volevi o dovevi. Ma rimanendo dabbasso, la scelta
si scomponeva tra diverse aule, tra cui quella della Rosini per l’appunto, con le finestre a
ghigliottina che misteriosamente si aprivano solo quando pioveva, quasi a farci dispetto.
Ma a noi due non importava.
Eravamo giovani, avevamo studiato, e io avevo le mie sigarette, ce le avevo
sempre prima della lezione della Rosini, solo così la superavo indenne. Non che
la Rosini mi urtasse. Al contrario, la trovavo gagliarda, con un accento
talmente triestino da togliere a chiunque il complesso della pronuncia. Tuttavia,
sapeva essere linguacciuta, invariabilmente mordace, per cui bisognava prestare
massima attenzione, specie ai congiuntivi, e tenere un profilo complessivamente
basso… perché con lei si cadeva sull’italiano, non sull’inglese, mai
sull’inglese. A quello nemmeno ci si arrivava se prima non si conosceva ogni
rudimento di sintassi, ortografia e grammatica della madre di tutte le lingue.
E siccome quella povera madre era la più trascurata, di cadute ce n’erano
eccome. Rovinose anche.
Il mio italiano era migliore del
mio inglese, per cui in quelle ore me la cavavo. Non come in quelle della
Coales o di Taylor, in cui sarei voluta morire e rinascere altrove, in ogni
caso molto lontano dallo ex jutificio, tipo a Noto, pensavo, così ne avrei approfittato per vedere
la cattedrale e divorare un arancino o due.
L’italiano, l’hai sempre avuto
buono pure tu, per cui le nostre chiacchiere pre-Rosini fiorivano leggere e
spumose, e ti restava addirittura il tempo per rinfrescare l’immancabile
rossetto che faceva pendant con lo smalto delle unghie. Dove tu trovassi il
tempo per curarti così tanto ancora lo ignoro ma fatto sta che non passava
giorno senza che il tuo viso spuntasse imbellettato, i tuoi capelli castano
chiaro phonati intorno al viso, le tue unghie limate e laccate alla perfezione.
Io a confronto, che pure tenevo all’aspetto, apparivo incolta con la mia chioma
folta, ricciuta e allora biondissima… o “tinta”, come avrebbe puntigliosamente
precisato la Rivatelli, cui ero simpatica quanto la sabbia nelle mutande. Certo
un po’ mi truccavo anch’io, specie gli occhi che ingrandivo con l’eyeliner nero,
ma il rossetto mi era precluso perché, avendo una bocca che misurava un ettaro,
mi prodigavo per non farla notare più del dovuto.
Con tutto che eravamo coetanee,
sembravi più grande tu, perché vestivi classicamente, con giacche sartoriali e
gonne a tubo che allora andavano parecchio, spacco e tutto. Io ero più per gli
abiti di maglia colorati che compravo a Carpi, se avevo molta fortuna, o al
mercato del Lunedì, se ne avevo di meno. Allora non si andava negli outlet,
naturalmente, bensì “in fabbrica”, a rovistare in cumuli di capi fallati che ti
riempivano di gioia perché brulicavano di economici tesori.
Ma tu eri più jeune fille bien rangée, portavi persino le
borsette di pelle con la tracolla a catenella, e ti ingioiellavi volentieri,
bracciali, collane e tutto, laddove io mettevo al massimo gli orecchini, anche
se grandi e generalmente vistosi.
Diverse eravamo anche fisicamente.
Io ossuta e altissima, tu bassina e pettoruta, con guance paffute e rosate. Ridevi
più spesso di quanto non facessi io, forse perché eri facilmente allegra oppure
perché avevi denti regolari e li mostravi volentieri, al contrario di me, che
ho impiegato secoli e fior di apparecchi prima di sfoderare un sorriso decente.
Lo stesso, tu mi trovavi veloce.
Un giorno dicesti a una nostra comune amica che io ero un rapido mentre voi due
fungevate da accelerati. Lei non gradì e te lo disse, credo, perché non si riconosceva
nella descrizione.
Alla fine io fui veramente
rapidissima, negli studi e altrove, ma saltai tanti di quei passaggi che
nemmeno ti sto a raccontare e bruciai tappe fondamentali che ancor oggi un tantino
rimpiango, se ci penso, mentre chi accelerò soltanto fece più o meno le mie
stesse cose, anche se col proprio stile, ottenendo a paragone di più e
soprattutto vivendo meglio, pienamente.
Anche se, nella realtà dei fatti,
la più rapida di tutti fosti proprio tu, amica mia.
Non a caso sei morta da anni, e
io sono ancora qui a parlare delle tue risate e del tuo smalto o della gonna di
gabardine rossa che ti piaceva tanto.
Guidavi piano quel giorno.
Guidavi sempre piano, mi raccontò
tua madre al telefono, eri prudente. Ma non lo fu la ragazza che era dietro di
te. Tamponò la tua auto e tu finisti nel canale e non riuscisti a liberarti e
andasti sotto.
Una morte sciocca per una ragazza
che non lo era.
Ti ho vista l’ultima volta al mio
matrimonio, nel 1993. In realtà non ti avevo invitata, avevo mandato soltanto
la partecipazione, ma tu la scambiasti per un invito per fortuna, così venisti
comunque. Lì per lì m’irritai anche, ricordo, perché sposarsi è più logorante
che piacevole se devi lottare con costi, suocere stile Nightmare 4, equilibri
tra quote parenti/amici, e stronzate varie. Come risultò poi, la tua
apparizione, naturalmente in rosso (geranio), fu uno dei pochi, autentici
piaceri di un matrimonio sostanzialmente mediocre.
Per anni telefonai a tua madre,
poi non lo feci più.
Conservo una tua foto, lunga e
stretta, in cui non guardi l’obiettivo e nemmeno sorridi. Sembri già lontana
come poi saresti stata ma il tuo rossetto mi riporta a giorni felici e mi
conforta, parla così tanto di te, di com’eri.
Ti penso spesso, Monica, e ci
sono volte in cui vorrei ritornare indietro. Non potendo, in quanto rapido
andrò avanti, sicura di trovarti un giorno nella mia stessa stazione d’arrivo.
Che sarà una stazione terminale, naturalmente. Quel giorno, che spero lontano
perché, per quanto la mia vita sia stata abbastanza disastrosa, la amo tuttora
intensamente, riprenderemo le chiacchiere da dove le avremo lasciate. E bada di
non rimanere sorpresa se non fumo più. Ho smesso anni fa, non ho più
ricominciato.
Conoscendoti, so già che riderai.
Conoscendomi, so già che in
quella stazione cercherò un baretto come quello di via Caprin e ti offrirò il
più démodé dei tè, ovvero al limone.
Sarà pomeriggio, sarà pomeriggio
per sempre e non dovremo preoccuparci di far tardi, non dovremo preoccuparci di
niente.
L’Avanzo
di Maria Gaetana
Ferrari
Mi amava, diceva.
Mi amava perdutamente, e passava
le ore a ribadirlo, di persona o al telefono, argomentando con vigore mista a verbosità.
Due “V” di troppo per una persona concisa e controllata, very “C&C”, come
me.
All’epoca abitavo in via della
Tesa. Era il mio primo anno a Trieste, e studiavo, studiavo sempre. Non ero lì
per niente. Già mi sembrava un miracolo l’essere entrata. Volevo, dovevo finire
per tempo, e quattro anni, che poi in realtà bastarono a passare tutti gli
esami, finali inclusi, sembravano pochi. Quanto meno, a me.
Tra un ripassino e l’altro, e
anche durante, mi divertivo a fumare mentre nelle rare pause sperimentavo zuppe
e condimenti di dubbio pregio nell’angusta cucina senza vista (già era tanto che
avesse una finestra) di quello che era il mio primo, deprimente appartamento da
studentessa con più fantasia che soldi. Lo dividevo con la milanese Silvia
Steiner, austera biondina occhialuta del mio stesso anno, e con due ragazze più
avanti negli anni anche se non propriamente con gli studi.
La prima mi era alternativamente
indifferente od ostica, infatti non ne ricordo il nome. Ricordo però che, in un
rush di rupofobia, scambiò per pattume
tre paia di scarpe che un giorno, traslocando, avevo messo in un sacchetto di
plastica della Pam … e le buttò nel primo cassonetto utile! Col fatto che le
scarpe in questione mi piacevano parecchio, specie quelle blu col tacco alla
Marilyn che avevo fregato a mia madre prima di partire per Trieste, impiegai quei
due anni a perdonarla - perché ero una ragazza sciocca, vanesia e con limitate possibilità
finanziarie - e anche allora i nostri rapporti non migliorarono gran che.
L’altra ragazza, Valeria, era
mora e carina, marchigiana; frequentava traduzione. Mi stava simpatica ma aveva
il vizio di mangiarsi la mia piccola riserva di cioccolato, quella che tenevo
sul tetro armadio anni Cinquanta della camera da letto, o colpa ben più grave,
di attingere liberamente al mio adorato guardaroba. Gli abiti, li rendeva
anche, a onor del vero. Ma pieni di macchie, neanche fossero diventati giaguari.
Il moroso di Valeria era un tipo delizioso e molto allegro, forse perché aveva
occhi d’un azzurro polveroso che ti strappava il cuore, come quello dei fiori
di lino, e insieme i due si divertivano parecchio nella cameretta oblunga e
tetra, praticamente leopardiana, della Vale. C’era di buono che tanta fisica esuberanza
avveniva silenziosamente (non come nel successivo e ben più pittoresco alloggio
di via Hermet), tanto che io, a breve distanza, potevo passare indisturbata dai
deliranti appunti di Crevatin, che fingevo di capire, alle involute versioni
della Coales, che mi arrabattavo a tradurre.
Non che un eventuale sonoro mi
avrebbe turbata. Ai tempi ero vergine, rigorosamente praticante, e provavo per
il sesso una curiosità che si avvicinava a quella di un’erica di Lochinver per
la brughiera: nessuna. Certo gradivo i baci, li gradisco tuttora… insieme ad
altro. Ma non mi sembrava di avere tempo o propensione per niente di più
approfondito. Soprattutto, non mi piaceva quasi mai nessuno, caratteristica che
del resto si conserva invariata e che più dei principi mi ha sostanzialmente
mantenuta – negli anni – una brava ragazza.
Non mi piaceva nemmeno lui, il verboso pretendente.
Eppure era belloccio, anche se un
tantino robusto. Gli occhi scuri, così profondi e brillanti, ben s’intonavano
col naso arrogante, camuso. Aveva un sorriso piacevole, modi curati, mani che
mi danzavano intorno, lievi come tulle.
Giusto il nome ridicolmente esterofilo era orribile. E’ orribile anche
il mio, Maria Gaetana. Ma almeno è italiano. Inoltre il cognome, Ferrari, per
quanto ordinario, suona bene e fa perdonare il resto. Nel caso di Felix, così
lo chiamerò per riserbo, convenzione e pudore, non c’era invece scampo, perché
il cognome, curiosamente un aggettivo d’ambito culinario, era ancor peggio del
nome.
Come dire, Felix Ribollito.
O Impanato.
Se non Brasato, Cotto, Arrostito,
praticamente Flambé!
Insomma, un obbrobrio onomastico
a pieno diritto, specie per me che adoravo nomi da romanzo come Andrea Sperelli
o Jay Gatsby o Jean Floressas des Esseintes e che ancora non avevo sviluppato
quel talento gastronomico di cui adesso mi glorio. Altrimenti, un Brasato mi
avrebbe anche deliziata… forse.
Invece no. Non mi deliziava lui e
non mi deliziavano le sue dichiarazioni, perché naturalmente a dichiararsi sono
sempre gli uomini che non vuoi, altrimenti sarebbe facile vivere, amare,
riprodursi ed essere ragionevolmente felici.
Non persi tempo con Felix. Gli
dissi che non ero interessata. Insensibilmente, forse, ma mi sembrava urgente
chiudere. Scelsi il telefono per farlo, e in questo sbagliai. Le cattive
notizie si danno di persona, perché non v’è replica che non meriti occhi per
guardare. Devi esserci con la tua faccia quando dici di no a qualcuno, è la
cosa da fare. Quel misto di coraggio, carattere e buone maniere che segna la
differenza tra una decisione consapevole e una carognata d’ufficio. Ma avevo
vent’anni, e il mio concetto di spavalderia era mangiare pane con le olive sul
muretto della curva di San Giusto mentre ripassavo i paradigmi dei verbi
inglesi.
Bite, bit, bitten,
cut, cut, cut, hit, hit, hit, hurt, hurt, hurt, slay, slew, slain…
Tutte azioni che il Felix,
respinto, avrebbe volentieri applicato alla mia persona, perché naturalmente si
arrabbiò. Si arrabbiò di brutto.
Più rifinito di me, diede tuttavia
seguito alla telefonata con uno scritto.
Incautamente, scelse come forma
espressiva la poesia.
La lettera arrivò in Via della
Tesa e la tirai fuori dalla cassetta, incuneandola tra un esuberante fascio di
bietole e la bottiglia del latte. Che era di vetro, perché a Trieste c’erano
ancora le vecchie latterie di una volta e io, che nemmeno amavo il latte, vi entravo
per il fatto solo di aprire la porta col campanello d’ottone e guardare la
vetrina piena di caciotte rotonde e quadrati panetti di burro. Mai latticini,
uova e cubetti di lievito di birra m’erano parsi così graziosi, quasi esotici.
Esotico risultò essere, secondo
canoni generosi e quindi non miei, pure il poema di Felix.
Intanto, s’intitolava Tristesse.
E già questo aveva fatto
avvizzire la bietola.
Poi, era dattiloscritto ma con
tre errori di battitura da far cagliare l’incolpevole latte.
Sospirando, posai la borsa della
spesa, mi sedetti nella cucina beige e arancione (quella sì che era una bella tristesse, altro che) e mi accesi una sigaretta. Una Marlboro Light lunga che sarebbe
durata poco più del componimento che mi accingevo a leggere.
Un giorno credi di essere donnna,
ma non soltanto perché porti la gonna.
La sigaretta sfrigolò, e
altrettanto feci io.
I tuoi pensieri sono strani e confusi,
quasi sognassi ad occhi chiusi.
Come verso, mi parve leggermente
migliore rispetto al primo, quanto meno la rima baciata risultava un tantino
più soffusa, quasi tollerabile. L’interesse si riaccese, tanto che avvicinai il
portacenere di latta rossa e vi lasciai cadere un ordinato cilindretto di
cenere che si franse, ma delicatamente.
Un uomo il tuo cuore non l’ebbe mai,
ma a volte mi chiedo se un cuore ce l’hai.
Questo, lo trovai ingiusto. Il
cuore (ce) l’avevo eccome, e non solo si trovava al posto giusto, sulla
sinistra, ma funzionava anche benissimo, e pazienza se non batteva per il
Brasato. Che diamine. Di nuovo scrollai la cenere, e poi la testa, e credo che
in un moto di ribellione totale accavallai anche le gambe, così che mi salì la
proverbiale gonna, che quel giorno era a scacchi viola, tabacco e grigio. Un
obbrobrio se ci penso adesso ma all’epoca la trovavo chic.
Lessi ancora.
Correrai al porto aggrappata alla vita,
ma la mia nave sarà già partita.
Di corsa com’ero sul fantomatico
molo (Audace?), alla ricerca della benedetta nave di Felix, mi venne da ridere,
e fui grata a quel passo perché la sua bruttezza, di colpo, aveva reso tutto
più leggero. Non ero mai stata al porto né avevo intenzione di andarci, non ero
avvezza a correre perché già allora portavo i tacchi, e comunque non facevo
caso alle navi, tutt’al più ai gabbiani, perché mi parevano festosi e
rumorosamente scollegati mentre volteggiavano nel rettangolo di cielo sopra
Piazza Unità d’Italia.
Raddrizzai la schiena mentre
finivo di leggere. Il verso successivo mi provocò un sussulto piccino e molto
circostanziato.
M’han detto che se è forte il dolore,
si muore, si muore d’amore.
Il fumo mi uscì dalle narici,
neanche fossi diventata il drago di San Giorgio, e planò contro il foglio, rimbalzandomi
in faccia con uno sbuffo. Avevo fatto trenta, potevo fare trentuno. Restava
un’ultima frase, la stoccata finale.
Affrontai anche quella. Non c’è
niente che una buona sigaretta non renda sopportabile. Per questo rimpiango il
fumo, la ritualità connessa cui solevo appoggiarmi. Lo feci anche allora, il
che mi evitò, suppongo, di cadere dalla seggiola.
Ma io non posso morire,
perché non credo, noon credo nell’amore.
Pensai che fosse un buon momento
per spegnere la sigaretta, e lo feci. Non rilessi la “poesia”. La ricordavo sin
troppo bene. Era stucchevole, certamente rozza, ma aveva sortito lo scopo, che
era poi quello di ferirmi. Mi spiaceva essere giudicata fredda e insensibile.
Non pensavo di esserlo ma senz’altro ero concentrata sui miei sogni, sulle mie aspirazioni.
Ero ambiziosa da giovane. Studiare, riuscire, laurearmi, inorgoglire mia madre,
dimostrare che anche una cavallona di provincia col naso lungo può avere un suo
piccolo, preciso talento. Ecco che cosa volevo. L’amore non rientrava nei miei
piani, non lo cercavo. Infatti mi trovò per conto suo e fuori contesto.
Ma questo sarebbe avvenuto
successivamente, e in ogni caso Felix se l’era cantata da solo. Io non l’avevo
illuso né altro, semplicemente gli avevo detto che non lo volevo. Ero stata
franca.
Per due giorni mi macerai in
qualcosa che sembrava rimorso. Poi incontrai Felix alla facoltà. Teneva per
mano una mia compagna di corso sui gradini sbeccati di Via D’Alviano, e la
sbaciucchiava con palese compiacimento. La sua nave non era partita, dopotutto,
e si era addirittura trovato un’altra donna a tempo di record, solo… in pantaloni.
Un bel guaio per la rima baciata,
pensai. Poi risi e mi complimentai con
me stessa. Il Brasato si era riciclato, diventando Avanzo, e io potevo
tranquillamente aspettare che qualche pietanza migliore transitasse nella mia
direzione.
Come risultò poi, dovetti comunque
sorbirmi un paio di mediocri Stufati prima d’incappare in un autentico Filetto
alla Wellington, e anche allora mi andò male, perché non è che l’attesa ti
preservi dalle delusioni o la selezione dagli sbagli o i propositi dalle fregature.
Ma la lezione servì, tanto che
conservai la “poesia” tra i ricordi di Trieste, in mezzo alle fotocopie del mio
libretto universitario, dove si trova tuttora, un foglio A4 ingiallito e
ripiegato in quattro, accuratamente.
Gli uomini dicono (e scrivono)
tante cose. Eppure s’identificano per ciò che fanno, per come lo fanno.
Non ti amano perché,
disperandosi, lo mettono nero su bianco. Ti amano perché, di colpo,
semplicemente, ti preferiscono a tutto ciò che esauriva la loro vita fino a
quel momento. E quando amano, non si accontentano dell’ombra ma vogliono colei
che la proietta.
Una donna lo sa. A prescindere
dalla sua gonna, dall’esistenza e dal posizionamento del suo cuore e dagli
innumerevoli coglioni che incrocia – inevitabilmente – sul proprio cammino e che
qualche, rara volta ha la fortuna di saper schivare.
ti rileggo, ti ritrovo, mi emoziono di nuovo, torno :-)
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