domenica 8 settembre 2013

Correggio per me

[Ecco un reperto del 2003... uno dei miei racconti più vecchi. Non so bene che cosa lo innescò, salvo il fatto che penso spesso al passato remoto, quando tutto era più semplice, soprattutto... io. Non sono stata molto fortunata in amore ("finora" :), mi piace naturalmente aggiungere, essendo ottimista di vocazione) ma ho genitori meravigliosi, e meravigliosi sono i loro amici. Tra tutti, Cuti e Gabriella non sono nemmeno più amici tout court. Sono un altro babbo e un'altra mamma, ed è vitale per me che stiano bene, il più a lungo possibile, felici e vicino a me... proprio come i miei genitori.

Pubblicato per la prima volta nello Zibaldone modenese di Beppe Zagaglia, Artioli Editori, 2005]
 
 
Una bambina di Beppe Zagaglia
 
Modena, 26 dicembre 2003
 
La giornata era incominciata adagio, come sempre a Correggio, quando si villeggiava nella grande casa della mamma di Cuti, con la bella torretta impettita nello sbiancato cielo d’agosto e le persiane tarulite che s’aprivano sul bosco d’acacie e quercioli. L’aria odorava del crine dei materassi e c’erano i vasi di smalto da svuotare, non perché si fosse nell’Ottocento -solo la casa vantava natali così remoti -ma perché il bagno, con la caraffa “Bevi Nicola” che faceva le veci dello sciacquone rotto, distava troppo dalle camere perché io e mia sorella, allora bambine, ci attentassimo di notte a smontare dagli alti letti col cassone per andarvi. Così, erano stati riesumati i vasi e a me piaceva moltissimo riempire il mio... ma assai meno svuotarlo. Perché ciò che ci sembra naturale finché è dentro di noi diventa estraneo una volta che ne è uscito. E questo valeva anche per la mia pipì. Ma tant’è che lo svuotavo, quel benedetto vaso marezzato, dietro le insistenze di mamma, che è sempre stata energica nelle sue richieste tanto da meritarsi l’affettuoso nomignolo di Generale Patton, e con mille smorfie fino al bagno.

E lo vuotai anche quel giorno, perché se c’era qualcosa di bello, in campagna, era il fatto che le giornate si rassomigliavano tutte e, ripetendosi, mi rassicuravano. La colazione nella cucina buia, coi Gran Turchese intinti nel latte, la mattinata fuori a giocare, col piccolo forno che mi ero costruita e in cui preparavo un incongruo croccante, e poi il pranzo rustico, con le svizzere alla cipolla che a Modena non si facevano mai, perché puzzavano, e i giochi nell’ androne fresco finché non scemava il caldo e ancora le corse in giardino, fino a sera, con qualche incidente di percorso, tipo le mie ginocchia regolarmente sbucciate (ero una specialista) o la volta in cui mia sorella venne morsa dalla volpe che i contadini tenevano alla catena e dopo strillò che avrebbe preso la rabbia (ma mica la prese...). Comunque, imprevisti a parte, tutto era sempre uguale a se stesso. Ma quel giorno, già si sapeva, sarebbe stato diverso. Sarebbero venuti gli Zagaglia, ch’erano amici dei miei e dei Cuti. I Cuti non si chiamano Cuti. Lui si chiama Claudio, detto Cuti, ma con l’articolo al plurale ecco che “Cuti” veniva a comprendere, per me e mia sorella anche la Gabri, che di Cuti è la moglie e che è per noi una costante preziosa. Comunque, quel giorno ci sarebbero state visite e io già mi pregustavo l’apertura del cocomero ghiacciato che sicuramente avrebbe suggellato l’evento.
 
Gli Zagaglia avevano una figlia, la Cecilia che, avendo soltanto un anno più di me, era la mia compagna di giochi ideale. Mi divertivo con lei, perché avevamo tante cose in comune, se non il carattere, i gusti. E aveva i capelli lunghi-lunghi, bellissimi. Ero contenta che venisse quel giorno, perché non c’era gusto a giocare con mia sorella. Non che fosse antipatica, perché non lo era. Ma era più grande e molto più carina di me, ch’ero un mostro, e se la tirava parecchio. Non le piaceva fare il croccante e nemmeno giocare alla piccola fioraia o andare a trovare la Tricoteuse, ch’era la vecchia vicina dei Cuti, brutta come la fame... ma interessante, con quella bambola vestita da cancaneuse che conservava in una scatola di cartone dentro il buffet e che a volte, se insistevo, mi mostrava.
 
No, mia sorella non mi si filava per niente, invece la Ceci aveva mille idee e chiacchierava volentieri, e si divertiva coi miei giochi e mi faceva ridere. Mi piaceva molto anche la sua mamma, la Lucia, perché era bionda ed elegante, come la modella della lacca Cadonett “Fissa morbido-morbido”. Sapeva sempre di buoni profumi e riempiva di baci me e mia sorella, le “bimbe Ferrari”. Era simpatico anche il marito, Beppe, con quel suo vocione da Santa Claus modenese, peccato solo che avesse la fissa delle foto, un anatema per noi bambine. Perché non si trattava mai di un’unica foto, che si sarebbe anche potuta sopportare, ma di interi rullini passati in piedi, contro qualche muro coperto d'edera (Beppe andava matto per l'edera) o in qualche chiesa scoperchiata (quando il paesaggio ne offriva una, naturalmente, come a San Galgano). E poi c'era la faccenda della posa. Sì, perché bisognava stare immobili, praticamente stecchite come i conigli che accoppava la Bruna, la custode di Correggio, ed evitare ogni genere di mimica. Non si poteva ridere e nemmeno sorridere ma solo atteggiare il viso a un'espressione di blando distacco che a me non veniva bene per niente, per ché non sono mai stata distaccata in nulla, figuriamoci in foto. Mia sorella Francesca già se la cavava meglio. E veniva sempre bene. Ma intanto, lei, aveva i capelli lunghi e rassomigliava a Caroline di Monaco. Io invece ero tosata come la siepe di bosso del giardino e sembravo un ragazzino, senza pretese né lusinghe. Già lo specchio mi diceva male e di solito lo evitavo con cura ma la fotografia, quella, era implacabile perché ingigantiva e fissava tutti quei difetti che sentivo, anche bambina, di avere.
 
E Beppe mi fotografava. Lo fece anche quel giorno ma non subito. Subito si mangiò e si bevve. E io me la filai con la Ceci e andammo a raccogliere le ghiande e a farci un giro nella grotta finta, che non era niente di speciale e un po'ci schifava anche, con tutte quelle ragnatele, ma era pur sempre una grotta e ci incuriosiva. Per i ciclamini era ancora presto ma il sottobosco abbondava di bacche rosse e a noi piaceva sgranare i baccelli. Non erano bacche velenose, eppure stavamo bene attente a non schiacciarle perché non si sapeva mai. E poi lasciavano uno strano odore verde sulle mani, con una punta di metallico. Nel bosco c'era anche una montagnola, col percorso delimitato da arbusti che, attorcigliandosi a spirale, portavano alla cima. Non era alta ma noi bambine arrivavamo ansanti e spesso la schivavamo, accontentandoci del giro nella grotta finta, che però allora ci pareva vera. In tutto questo affanno so girovagare ci seguiva Dick, il lassie che era di Gheghé, il fratello di Cuti, ma che io consideravo di mia proprietà esclusiva perché Dick aveva l'esclusiva proprietà del mio cuore. Era bellissimo, Dick, con un muso allungato e due occhi color delle castagne che mi rendevano felice. Ma non so quanto io abbia reso felice lui, perché a volte lo cavalcavo oppure gli intrecciavo dei fiori nel pelo e comunque lo scocciavo. Dick era buono e mi lasciava fare tutto. E mi seguiva nel bosco. Lo fece anche quel giorno, poveraccio, per questo finì nella foto.
 
O forse lo incluse Beppe, non ricordo più. Fatto sta che, dal davanti della casa, mamma chiamò me e la Cecilia. "Bambine?!". La merenda era passata. La cena, lontana. Pertanto, solo una grana poteva profilarsi in quel particolare frammento di pomeriggio. Le bacche ci caddero dalle gonne di cotone con le balze mentre ci alzavamo e ci guardavamo con empatia. Si alzò anche Dick e guardò me, come per dire: "E adesso?". Adesso niente.
 
Uscimmo dal bosco e la Lucia disse alla Cecilia che era spettinata. E forse lo era, visto che lei -a differenza di me -aveva i capelli. A me nessuno disse niente: è molto difficile essere spettinati quando si ha un taglio alla marine. Del resto, non capita a tutti di avere per madre il General Patton e ben che me lo tengo stretto, il generale, perché mia madre è dura solo per chi non la conosce. E io la conosco. Il babbo non c'era perché lavorava ma Cuti e Gabriella indugiavano davanti alla casa e presto avrebbero assistito al mio cimento fotografico. Perché Beppe, si capisce, aveva sfoderato la macchina e stava girellando per la casa in cerca del giusto endroit. Be’, ce ne sono di begli angoli, in quella casa. Come lo studio con i parasole ricamati e la boiserie alla pareti, oppure la sala da pranzo col camino o il salotto damascato o la cucina rustica o la scala di marmo o le camere affrescate, con la cappella piena di vasi di cristallo e statuette, e il grande salotto. Ma Beppe è Beppe, tant’ è che tra tanti posti scelse quello che per me bambina diceva di meno. Entrando nella villa, subito a destra, c’è una statua con una donna seduta che legge. Legge sempre, avidamente. La statua è bella - e senz’altro colta dopo tante letture, pensavo io - ma il posto è di passaggio. Le pareti s’ incuneano dietro la statua, creando una sorta di spazio semicircolare, con affreschi paesistici un po’ scrostati sopra un alto zoccolo di smalto marrone. “Qui” disse. E anche mia sorella, pure convocata, parve perplessa. Ma mamma, che è sempre stata una persona aggregante, approvò la scelta che di conseguenza parve bella anche a me.
 
Così ci piazzammo. Io, mia sorella, la Ceci e Dick. Sì, c’era anche lui. E se la cosa non gli piacque, non lo disse mai. Era un cane molto ammodo, non parlava, faceva di meglio: ci voleva bene. Beppe, intanto, aveva monopolizzato la casa e gli astanti in cerca della FOTO perfetta. Col fatto che l’androne era buio, mamma e Gabriella sorreggevano un enorme telo bianco. Cuti adocchiava la scena con espressione indecifrabile e la Lucia sorrideva, forse facendoci coraggio. E ce ne voleva. Perché prima non andò la posa, e poi non andarono le espressioni e, da ultimo, nemmeno gli abiti! Erano troppo scuri, si lagnò Beppe, e non risaltavano contro lo zoccolo marrone. Ci voleva del chiaro. Del bianco. Ma noi non avevamo abiti bianchi. Erano tempi in cui io m sporcavo persino per telepatia -terra, cioccolato, polvere, gelato, tutte le sostanze gli alimenti trovavano modo di attaccarsi a me -figurarsi se possedevo un abito bianco! Fu così che venne avanti l’Operazione Sottoveste. Perché allora si portavano. Le sottovesti, cioè. Le nostre erano di Campioli, bianche, con un pizzettino bianco appena accennato intorno allo scollo e tre rosette sul davanti. Carine, certo, ma di lì a elevarle a mise fotografica, secondo me, ce ne passava. Ma era il nostro unico capo bianco, e anche la Ceci indossava una sottoveste, così fu decretato unanimemente con mia somma costernazione -che avremmo posato in sottoveste. Lo trovai orribile, quasi indecente, come allora mi sembrava il fatto di fumare. Caspita, con tutti i bei vestitini della Casa del Bimbo che avevo -e che indubbiamente mi avrebbero migliorato la faccia -proprio in sottoveste dovevo posare?
 
Sì. A peggiorare il tutto, venni collocata per terra, con un paio di cuscini e un cerchio del volano, e consolata soltanto dalla presenza di Dick nelle mie immediate vicinanze. A mia sorella già toccò la panca, e alla Cecilia pure. Solite preferenze. Non che sul pavimento si stesse male perché non si stava male. Faceva fresco, anche attraverso i cuscini, e dal basso s'apprezzano tante cose, tipo il pregio di non essere formiche... anche se, quelle, Beppe non le avrebbe fotografate. Ma tant'è. Ricordo che tentai di accarezzare Dick ma non si poteva perché sarebbe stata una posa "affettata". Così, ripensai ai conigli morti della Bruna e Beppe scattò una foto dopo l'altra, con economici movimenti di gambe e braccia da parte nostra, fino al raggiungimento della FOTO, quella che avrebbe fatto di noi le più sbrindellate ragazze-copertina della storia dell'Emilia e che ci avrebbe consacrate ad interim (ma neanche tanto) le "bambine di Beppe Zagaglia".

Bambina, non lo sono da un pezzo e le sottovesti non le porto più, se non d'estate, per dormire, quando incomincia a fare caldo. Anche mia sorella è "grande", con due figlie, e la Ceci si è tagliata i capelli. Dick mi ha lasciato da anni per colonizzare un pezzetto del mio cuore, e il cerchio del volano non so nemmeno dove sia finito, dovrei chiedere a Cuti, e nemmeno lui lo saprebbe, forse. Pure la mia copia de I bambini di Beppe Zagaglia è perduta. Ma di recente ho riguardato la FOTO a casa della mamma e mi sono studiata con attenzione, nemmeno trovandomi così brutta come allora mi sembrava d'essere. Certo, ero piccola, con tre riccetti che mi facevano d'aureola intorno al capo, e occhi stranamente rotondi che, col tempo, non so come, si sono anche allungati. Occhi pieni di sogni e d'allegria. Perché sono sempre stata allegra e mi pare di esserlo ancora. Se è vero che continuo a sognare. Quei sogni che, come pane, a volte non lievitano, oppure si bruciano, oppure ancora si sbriciolano, riproponendosi a pezzi, non più integri ma frammentati, la mantovana al posto del filoncino, la ciabatta invece della ciambella o il grissino in sostituzione della focaccia. Sogni, come pane, sì, che adesso sorveglio con maniacale rigore, dosando tutto ciò che prima mettevo profusamente, lievito, calore, tempo di cottura. Sono diventata così prudente che, a volte, come in quel film delizioso che è stato Sabrina, per la gran paura che ho di bruciare il mio sogno del momento, trascuro addirittura di accendere il forno!

Ma sogno sempre, sogno in grande. Così che la realtà sappia che non la prendo troppo sul serio. Difficilmente mi guardo indietro. E solo pochi anni rivivrei, perché è stato molto difficile crescere. Molto difficile arrivare fin qui e ancora sorridere. Ma se potessi, ora, a quel giorno in campagna, con mia sorella e la Ceci, ritornerei. E nemmeno farei tante storie per il fatto di sedere per terra, perché Dick sarebbe con me. E certo non mi dispiacerebbe se la mia mano, allungandosi, trovasse il suo soffice collo peloso, la sua schietta faccia da cane, il suo alito caldo, piccolo monsone di un'infanzia che i miei genitori e i loro amici hanno saputo rendere ingenuamente felice.



 
 
Villa Senigaglia Della Valle a Correggio oggi


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