lunedì 23 settembre 2013

Era settembre

Le cose sono come nuvole, cambiano velocemente. Accade così che un mese veda la tua assoluta felicità e quello successivo la tua infinita disperazione. Il settembre che seguì l'agosto della Provenza fu teatro di quell'alternanza. Ma è passato così tanto tempo. Nel ricordo persino il dolore ha una sua specifica, commovente tenerezza. E comunque è sempre mio, qualcosa che ho provato e che per questo rivendico.
 
Col senno di poi, l'amore di cui parlo nella parte finale di questo racconto e che tanta parte ha avuto nel determinare l'andamento della mia esistenza mi diede più emozioni in negativo che in positivo. Col risultato che adesso, se vi ripenso, non sento quello strappo, preciso, al cuore ma un senso di blanda, quasi divertita, incredulità.
 
Per anni, dopo che fui lasciata, facevo precedere i  miei pensieri da questa frase: "Quand'ero ancora viva [sottinteso, prima dell'8 settembre], facevo così". Cui corrispondeva il contrario "Quand'ero già morta [sottinteso, dopo l'8 settembre], facevo invece così...". Troppo ferita ero per capire che vita e morte non te le dà un uomo.
 
La nostra felicità non è negli altri. E' dentro di noi. Possiamo condividerla, non farla dipendere.
 
Quell'otto settembre è stato un giorno funesto per me.
 
Oggi è soltanto un giorno di settembre.
 
Quest'anno faceva caldo. Il sabato prima avevo comprato un trombone al mercato della Benefica, così l'ho fatto in umido col petto di pollo, poi ho aspettato che si freddasse per congelarlo in monoporzioni da consumare in quelle [rare] serate in cui non ho voglia di cucinare.
 
Niente possiede la stessa ironia della normalità.)
 
 
Questa è la prima fotografia della felicità.
La forma particolare
è dovuta al fatto che è stata adattata
a una cornice ovale.
Inoltre, mentre facevo lo scan,
ho inavvertitamente spostato l'immagine,
combinando
il solito casino
 
La fotografia della felicità

Nemmeno sapevo di averla, la foto della felicità.

Di fatto, non l’avevo mai vista. Poi, un giorno ch’ero a Modena dalla mamma, sono entrata nella mia vecchia camera da ragazza, ancora tappezzata di parati azzurro polvere, e ho visto che nella cornicetta di caoutchouc nero che mi aveva regalato la Caterina Visani per la laurea (praticamente secoli fa), non c’era più l’immagine di me e la nonna, coi visi accostati, i suoi capelli fini e bianchissimi contro i miei neri a onde larghe. Era il giorno del mio matrimonio e, separate soltanto dal fiore bianco che portavo all’orecchio, ridevamo, senza sapere che ci sarebbe stato ben poco da ridere.

Infatti, divorziai.

Con quella foto, erano stati archiviati anche due gruppi storici. Io, mia sorella Francesca, e le nipoti, Cecilia e Beatrice, in posa sul terrazzo di Marina di Carrara, con le spalle lucide di olio abbronzante, e le donne della famiglia Ferrari/Rebecchi, quindi le stesse citate poc’anzi più mia madre, nell’ampia taverna di Limidi, un Natale, col grande camino sullo sfondo, a ricordo del tempo in cui la mia vita era solo nebbia, e manco me ne rendevo conto.
 
 Gruppo storico a Marina di Carrara...
 
Gruppo storico a Limidi...
Al loro posto occhieggiava una curiosa fotografia 10x13 anni Sessanta. Una di quelle col bordino bianco seghettato che non si vedono più. Colpita, ho sollevato la cornice e sono andata dalla mamma in cucina. <<E questa da dove spunta?>> ho chiesto. <<Me l’ha data Beppe>> ha risposto lei. Ma certo. Ci sarei dovuta arrivare. Chi se non Beppe, caro e puntuale cronista del nostro passato, poteva aver scattato una foto che da sola descriveva il momento più tenero e vero della mia infanzia, se non addirittura della mia intera esistenza?

Gli elementi cult c’erano tutti. Intanto, il luogo, ovvero Correggio, dimora dei giorni senza tempo e senza dolore, se non quello effimero e totalmente fisico, legato a qualche caduta sulla ghiaia del giardino o sul cemento del marciapiedi, oppure ai taglienti e spietati pedali di Trinciapollo, la mia bici azzurro pavone che in realtà faceva di marca – neanche a farlo apposta - “Barracuda”.

A ribattezzarla Trinciapollo era stata mia madre che, insieme alla Gabriella, passava i suoi pomeriggi d’estate a disinfettarmi le caviglie insanguinate, anzi “tranciate”, e ad asciugare quegli tsunami di lacrime ch’ero maestra a versare. La Gabri, che da nubile faceva Mariani e da sposata Della Valle, non era un’amica d’infanzia della mamma con cui pure aveva frequentato le Orsoline negli stessi anni, essendo coetanee. No, l’amicizia si era sviluppata anni dopo quando, entrambe fresche di nozze, si erano ritrovate vicine di casa e di pianerottolo nel condominio Carrobbio del Geom. Laerte Rossi, quello rosa pallido con le tapparelle turchesi, a ridosso del cinema estivo, che tutti chiamano erroneamente Stella, per via delle sue punte. Per me la Gabriella era ed è la mamma bis, così come la signora Maria Clara, sua madre, era la nonna tris, in un periodo benedetto e ormai lontanissimo in cui abbondavo di tutto, quindi anche di nonne, consanguinee o d’elezione che fossero.

Nella foto, si vedono nell’ordine la Lucia con in braccio la figlia Cecilia, mamma con mia sorella e, per finire, la Gabriella con me. Tutte con la loro bambina, in un degradé di altezze e colori. A svettare, un po’ per il tipo di sedia, un po’ per il portamento alla Jackie Kennedy è la bionda Lucia, in sobrio prendisole blu reale con spalline larghe adorne di grossi bottoni di madreperla. La Cecilia, con la fascia rossa che le trattiene la chioma fluente, indossa un abitino a fiori e temibili calzettoni di filo bianco che mi fanno sudare al solo pensiero, visto che senz’altro era agosto. Dopotutto, era in quel mese che si soggiornava in campagna.

Accanto, un po’ sbilanciata verso la Gabriella, ecco mamma sullo scranno della sala da pranzo, di cui s’intravvede la seduta di corda ruvida lavorata a quadretti. A differenza della Lucia, che porta i capelli poco sopra le spalle, sciolti con la scriminatura laterale, mia madre ostenta la classica cofana anni Sessanta, un gonfio e intricato trionfo di forcine e pettinini. Il suo abito è rosso-rosa, opera della Colombini, con una fantasia bianca o comunque chiara che nella foto poco s’indovina. Ma le spalline sono chiuse da fiocchetti di stoffa, e lo scollo all’americana le dona perché le braccia sono lunghe, belle. Mia sorella Francesca, in gonna di tela a righine bianche e blu e maglietta blu notte, se la ride perché, da vera mammona, è incollata come sempre alle sottane di nostra madre, o forse perché io, alla sua sinistra, sono reduce dal solito ruzzolone e, a giudicare dal mento tremolante, devo aver pianto parecchio. Non correva buon sangue tra me e la Checca. C’era troppa differenza d’età, ci scocciavamo a vicenda. Inoltre, mia sorella era la bella di famiglia mentre a me prendevano tutti per un maschio, cosa che mi procurava violenti malumori.

Anche perché all’epoca mamma ci vestiva uguali, come gemelle mal riuscite. Col risultato che lo stesso abitino indossato da mia sorella faceva tutt’altro effetto su di me. Nella foto, la maglietta blu della Checca, per il fatto solo di essere indossata senza l’orribile pettorina con bretelle che per contro avevo io, risulta molto più carina e accattivante. Le solite differenze che, anche a distanza di anni, mi fanno imbufalire, a riprova del fatto che negli anni si cambia… ma non così tanto.

Comunque, è proprio con me che si chiude l’involontario merletto di donne e bambine, mani e ginocchia. Sono in braccio a una sorridente Gabriella in Ken Scott verde e senape, giro di perle e cofana castano chiaro mentre con espressione incerta e un po’ dolente stringo quella che sembra essere una fetta di pane e formaggino Mio, che adoro ancora, come gli omogeneizzati di pollo del resto, il mio comfort food corrente dopo i tortellini della Piazza.

A differenza delle altre bambine, ho la gonna in disordine perché, naturalmente, nemmeno allora ero composta. A me e la Gabri è tra l’altro toccata la sdraio di metallo coi cordini di plastica gialla, bassa da far pietà ma in effetti ottima per giocarci (era divertente allentare i fili… a patto di non romperli, però, perché altrimenti le si buscava).

Nella foto, me ne rendo conto, tutti sorridono tranne me. Ma non è che questo scalfisca l’idea di semplice felicità che me ne deriva. Eravamo insieme, eravamo unite, eravamo colorate, con dietro gli alberi del bosco e i gerani della Bruna, e davanti sicuramente Beppe che ci guardava dall’obiettivo. Un equilibrio perfetto.

Nella mia vita andava tutto come doveva andare. I desideri erano ancora molto precisi perché s’associavano al cibo (andavo pazza per il cocomero e per le uova alla pizzaiola) o al fatto di giocare in giardino, strappare fiori, raccogliere nocciole, cavalcare Trinciapollo o il cane Dick, e mendicare ritagli di stoffa e plastica fantasia dalla vicina fabbrica del villaggio artigiano.

Correggio era il centro del mio piacere perché veniva a riunire, anche se solo per un mese – agosto - tutte le cose e le persone che regolavano il mio benessere, e il nostro sestetto cristallizza in un istante quell’indimenticata dimensione.

Dalla quale, a dirla tutta, manca un’altra figura cara e ricorrente della mia infanzia, ovvero la Michela Cibelli, romagnola trapiantata a Modena e orsoliniana di ferro insieme a mia madre, la Gabriella e la Lucia. Con la differenza che la Michela, anche negli anni Sessanta, era più evoluta se è vero che, innamoratasi nel corso di una vacanza jugoslava di un gran bel pezzo di figliolo tedesco, Hinerck, al suo rientro in Italia, con le amiche che le dicevano: <<Sarà un fuoco di paglia, dimentica>>, ripartì lesta alla volta della Germania riportando, oltre al tedesco - che poi sposò quell’inverno, sfoggiando un favoloso bolero di visone bianco e un’acconciatura platino alla Marilyn - una rivincita bestiale. Dall’improbabile ma fortunata unione nacquero tre figli, i bellissimi Dadi che, da piccoli transitavano nelle nostre case come unni d’antica memoria, seminando disordine, macchie e somma costernazione, quest’ultima particolare retaggio di quel precisetti che è mio babbo.

La Mickey non c’era quel giorno e quindi non figura nella foto ma ci sarebbe stata benissimo perché fa parte anche lei del mio piccolo, privato gineceo infantile, lo stesso cui devo le cose migliori del mio essere, se è vero che da tutte queste donne così diverse e meravigliose ho preso qualcosa di unicamente buono. La mamma in joint venture con Dio mi ha dato la vita e le idee e il cervello. Anche il caratterino che però la Gabriella mi ha insegnato a domare, se m’impegno, perché con lei - utile e preziosa come la camomilla che, oltre a fiorire, cura, profuma e lenisce,  e tutto insieme - è il cuore a venire prima di tutto, e ben che ha ragione. Dalla Mickey, simpaticissima e ferocemente ironica, ardimentosa e piena in iniziativa, ho preso il gusto per la battuta e magari la capacità di credere nei sogni (vedi Hinerck) mentre dalla Lucia, più elegante di un bambù giapponese che lieve ondeggia nella sera, l’amore per lo stile, la bellezza della forma, l’importanza della discrezione.

Così, sono stata contenta quando la mamma mi ha regalato una copia di quest’ennesima foto di Beppe. Me la sono portata a Torino, naturalmente, e ho fatto sosta da ZaraHome in cerca della cornice più adatta. Ne ho trovata una ovale col bordo dorato e un fregio gentile che corre tutt’intorno, come un tralcio d’edera sfuggito alla potatura. Ho adattato il formato, e in corrispondenza del mio viso e di quello della Lucia ecco che la curva della cornice leggermente ci oscura, ma stiamo bene lo stesso, e l’ovale ci cinge con rassicurante saldezza, quella di cui tutti abbiamo bisogno, sempre.

In realtà, possiedo una seconda foto della felicità, e anche di quella sono stata inconsapevole per anni. Poi, Daniela Lazzarato, collega e amica di Torino, me la mostrò per caso poco tempo fa. Eravamo ritratte io e lei a Cap Esterel, in Provenza, nel giugno del 2000. Si era concluso un grosso incentive di successo, festeggiavamo. Io avevo appena conosciuto Massimo, l’uomo che mi avrebbe ricordato com’era vivere e poi morire, e il mio futuro si profilava gravido di atroci dilemmi (ero infelicemente sposata) e di dolcissime possibilità (niente è come l’amore).

Daniela vestiva di bianco, ed era bionda e truccatissima. Truccata lo è ancora ma i capelli sono più corti, adesso, e castani, una tonalità morbida che le preferisco. Io, per contro, ho le lenti a contatto azzurre, vezzo di allora, i capelli sciolti sulle spalle, ricci e con qualche ciocca bionda qua e là, come s’usava in quegli anni, e indosso la brutta camicetta sintetica della defunta divisa CWT. Anche così sembro carina, in quella foto, con gli occhi che parlano di una stuporosa contentezza che, anche a distanza di anni, mi lascia senza fiato, perché non sono più abituata a vederla.

Non su di me.

Sì, ero felice quel giorno. Felice come non lo sono più stata ma come – forse – sarò domani o l’altro anno, chissà.

Ma quella foto, nel ricordarmi l’alfa, mi riporta anche all’omega perché Massimo andò e venne, come lo spot di una ricarica telefonica. Il mio divorzio fu duro e cattivo, e tutto si portò: denaro, cose, ricordi e naturalmente l’illusione di un futuro come l’avrei voluto io. Massimo, lui, non aspettò: sposò una donna senza passato, più semplice e ricca, cui diede due figli. Quanto a me, pagai con la miseria e la solitudine una libertà che pure meritavo. Non me ne pento. Non si può morire se non si vive, e prima non vivevo, facevo solo finta. Non che Massimo fosse eccezionale: non lo era. Ma l’innamoramento non ha bisogno di geni o di eroi per dispiegarsi. E il mio caso lo dimostra, tant’è che adesso mi struggo non per l’uomo perduto, che sarebbe stato infelice con me così come lo sarei stata io con lui, bensì per come l’amore mi faceva sentire, per quelle emozioni che mi eludono da oltre dieci anni.

E qui solo Filippo Facci può veramente capirmi, forse, perché ne ha scritto una volta… in quella curiosa rubrica che teneva su Grazia. Conservo quell’articolo con lo stesso riguardo che riserverei a un disegno di Boldini. Non leggo quasi mai niente che mi rappresenti. Ma il paragrafo finale di quel piccolo scritto in prima persona mi ha quasi uccisa per l’assoluta nostalgia, l’atroce rimpianto, l’infinita assenza delle cose che so di poter provare e che pure non provo più.

Così, quando rivedo quell’immagine di me e Daniela, abbracciate come sorelle nel ristorantino all’aperto di Pierre & Vacances, non visualizzo la squisita contentezza di quel momento in cui tutto pareva lecito e realizzabile, anche l’amore nuovamente a trentacinque anni, bensì lo strazio che ne derivò per tutti e soprattutto per me.

Ma questa è un’altra storia, una foto senza cornice che oggi, finalmente, non conta più.

L’amore che non è stato non vale un racconto.

Lo vale soltanto l’amore che è o che sarà. Di questo spero scrivere un giorno. E poi non so.

 
La seconda fotografia della felicità
 

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