Le cose sono come nuvole, cambiano velocemente. Accade così che un mese veda la tua assoluta felicità e quello successivo la tua infinita disperazione. Il settembre che seguì l'agosto della Provenza fu teatro di quell'alternanza. Ma è passato così tanto tempo. Nel ricordo persino il dolore ha una sua specifica, commovente tenerezza. E comunque è sempre mio, qualcosa che ho provato e che per questo rivendico.
Col senno di poi, l'amore di cui parlo nella parte finale di questo racconto e che tanta parte ha avuto nel determinare l'andamento della mia esistenza mi diede più emozioni in negativo che in positivo. Col risultato che adesso, se vi ripenso, non sento quello strappo, preciso, al cuore ma un senso di blanda, quasi divertita, incredulità.
Per anni, dopo che fui lasciata, facevo precedere i miei pensieri da questa frase: "Quand'ero ancora viva [sottinteso, prima dell'8 settembre], facevo così". Cui corrispondeva il contrario "Quand'ero già morta [sottinteso, dopo l'8 settembre], facevo invece così...". Troppo ferita ero per capire che vita e morte non te le dà un uomo.
La nostra felicità non è negli altri. E' dentro di noi. Possiamo condividerla, non farla dipendere.
Quell'otto settembre è stato un giorno funesto per me.
Oggi è soltanto un giorno di settembre.
Quest'anno faceva caldo. Il sabato prima avevo comprato un trombone al mercato della Benefica, così l'ho fatto in umido col petto di pollo, poi ho aspettato che si freddasse per congelarlo in monoporzioni da consumare in quelle [rare] serate in cui non ho voglia di cucinare.
Niente possiede la stessa ironia della normalità.)
Questa è la prima fotografia della felicità.
La forma particolare
è dovuta al fatto che è stata adattata
a una cornice ovale.
Inoltre, mentre facevo lo scan,
ho inavvertitamente spostato l'immagine,
combinando
il solito casino
La fotografia della felicità
Nemmeno
sapevo di averla, la foto della felicità.
Di
fatto, non l’avevo mai vista. Poi, un giorno ch’ero a Modena dalla mamma, sono
entrata nella mia vecchia camera da ragazza, ancora tappezzata di parati azzurro
polvere, e ho visto che nella cornicetta di caoutchouc nero che mi aveva regalato
la Caterina Visani per la laurea (praticamente secoli fa), non c’era più
l’immagine di me e la nonna, coi visi accostati, i suoi capelli fini e
bianchissimi contro i miei neri a onde larghe. Era il giorno del mio matrimonio
e, separate soltanto dal fiore bianco che portavo all’orecchio, ridevamo, senza
sapere che ci sarebbe stato ben poco da ridere.
Infatti,
divorziai.
Con
quella foto, erano stati archiviati anche due gruppi storici. Io, mia sorella
Francesca, e le nipoti, Cecilia e Beatrice, in posa sul terrazzo di Marina di
Carrara, con le spalle lucide di olio abbronzante, e le donne della famiglia
Ferrari/Rebecchi, quindi le stesse citate poc’anzi più mia madre, nell’ampia
taverna di Limidi, un Natale, col grande camino sullo sfondo, a ricordo del
tempo in cui la mia vita era solo nebbia, e manco me ne rendevo conto.
Gruppo storico a Marina di Carrara...
Gruppo storico a Limidi...
Al
loro posto occhieggiava una curiosa fotografia 10x13 anni Sessanta. Una di
quelle col bordino bianco seghettato che non si vedono più. Colpita, ho
sollevato la cornice e sono andata dalla mamma in cucina. <<E questa da
dove spunta?>> ho chiesto. <<Me l’ha data Beppe>> ha risposto
lei. Ma certo. Ci sarei dovuta arrivare. Chi se non Beppe, caro e puntuale cronista
del nostro passato, poteva aver scattato una foto che da sola descriveva il
momento più tenero e vero della mia infanzia, se non addirittura della mia
intera esistenza?
Gli
elementi cult c’erano tutti. Intanto,
il luogo, ovvero Correggio, dimora dei giorni senza tempo e senza dolore, se
non quello effimero e totalmente fisico, legato a qualche caduta sulla ghiaia
del giardino o sul cemento del marciapiedi, oppure ai taglienti e spietati
pedali di Trinciapollo, la mia bici azzurro pavone che in realtà faceva di
marca – neanche a farlo apposta - “Barracuda”.
A
ribattezzarla Trinciapollo era stata mia madre che, insieme alla Gabriella,
passava i suoi pomeriggi d’estate a disinfettarmi le caviglie insanguinate,
anzi “tranciate”, e ad asciugare quegli tsunami di lacrime ch’ero maestra a
versare. La Gabri, che da nubile faceva Mariani e da sposata Della Valle, non
era un’amica d’infanzia della mamma con cui pure aveva frequentato le Orsoline
negli stessi anni, essendo coetanee. No, l’amicizia si era sviluppata anni dopo
quando, entrambe fresche di nozze, si erano ritrovate vicine di casa e di
pianerottolo nel condominio Carrobbio del Geom. Laerte Rossi, quello rosa
pallido con le tapparelle turchesi, a ridosso del cinema estivo, che tutti
chiamano erroneamente Stella, per via delle sue punte. Per me la Gabriella era
ed è la mamma bis, così come la signora Maria Clara, sua madre, era la nonna
tris, in un periodo benedetto e ormai lontanissimo in cui abbondavo di tutto,
quindi anche di nonne, consanguinee o d’elezione che fossero.
Nella
foto, si vedono nell’ordine la Lucia con in braccio la figlia Cecilia, mamma
con mia sorella e, per finire, la Gabriella con me. Tutte con la loro bambina,
in un degradé di altezze e colori. A svettare, un po’ per il tipo di sedia, un
po’ per il portamento alla Jackie Kennedy è la bionda Lucia, in sobrio
prendisole blu reale con spalline larghe adorne di grossi bottoni di
madreperla. La Cecilia, con la fascia rossa che le trattiene la chioma fluente,
indossa un abitino a fiori e temibili calzettoni di filo bianco che mi fanno
sudare al solo pensiero, visto che senz’altro era agosto. Dopotutto, era in
quel mese che si soggiornava in campagna.
Accanto,
un po’ sbilanciata verso la Gabriella, ecco mamma sullo scranno della sala da
pranzo, di cui s’intravvede la seduta di corda ruvida lavorata a quadretti. A
differenza della Lucia, che porta i capelli poco sopra le spalle, sciolti con
la scriminatura laterale, mia madre ostenta la classica cofana anni Sessanta,
un gonfio e intricato trionfo di forcine e pettinini. Il suo abito è
rosso-rosa, opera della Colombini, con una fantasia bianca o comunque chiara
che nella foto poco s’indovina. Ma le spalline sono chiuse da fiocchetti di
stoffa, e lo scollo all’americana le dona perché le braccia sono lunghe, belle.
Mia sorella Francesca, in gonna di tela a righine bianche e blu e maglietta blu
notte, se la ride perché, da vera mammona, è incollata come sempre alle sottane
di nostra madre, o forse perché io, alla sua sinistra, sono reduce dal solito
ruzzolone e, a giudicare dal mento tremolante, devo aver pianto parecchio. Non
correva buon sangue tra me e la Checca. C’era troppa differenza d’età, ci
scocciavamo a vicenda. Inoltre, mia sorella era la bella di famiglia mentre a
me prendevano tutti per un maschio, cosa che mi procurava violenti malumori.
Anche
perché all’epoca mamma ci vestiva uguali, come gemelle mal riuscite. Col
risultato che lo stesso abitino indossato da mia sorella faceva tutt’altro
effetto su di me. Nella foto, la maglietta blu della Checca, per il fatto solo
di essere indossata senza l’orribile pettorina con bretelle che per contro
avevo io, risulta molto più carina e accattivante. Le solite differenze che,
anche a distanza di anni, mi fanno imbufalire, a riprova del fatto che negli
anni si cambia… ma non così tanto.
Comunque,
è proprio con me che si chiude l’involontario merletto di donne e bambine, mani
e ginocchia. Sono in braccio a una sorridente Gabriella in Ken Scott verde e
senape, giro di perle e cofana castano chiaro mentre con espressione incerta e
un po’ dolente stringo quella che sembra essere una fetta di pane e formaggino
Mio, che adoro ancora, come gli omogeneizzati di pollo del resto, il mio
comfort food corrente dopo i tortellini della Piazza.
A
differenza delle altre bambine, ho la gonna in disordine perché, naturalmente,
nemmeno allora ero composta. A me e la Gabri è tra l’altro toccata la sdraio di
metallo coi cordini di plastica gialla, bassa da far pietà ma in effetti ottima
per giocarci (era divertente allentare i fili… a patto di non romperli, però,
perché altrimenti le si buscava).
Nella
foto, me ne rendo conto, tutti sorridono tranne me. Ma non è che questo
scalfisca l’idea di semplice felicità che me ne deriva. Eravamo insieme,
eravamo unite, eravamo colorate, con dietro gli alberi del bosco e i gerani
della Bruna, e davanti sicuramente Beppe che ci guardava dall’obiettivo. Un
equilibrio perfetto.
Nella
mia vita andava tutto come doveva andare. I desideri erano ancora molto precisi
perché s’associavano al cibo (andavo pazza per il cocomero e per le uova alla
pizzaiola) o al fatto di giocare in giardino, strappare fiori, raccogliere
nocciole, cavalcare Trinciapollo o il cane Dick, e mendicare ritagli di stoffa
e plastica fantasia dalla vicina fabbrica del villaggio artigiano.
Correggio
era il centro del mio piacere perché veniva a riunire, anche se solo per un
mese – agosto - tutte le cose e le persone che regolavano il mio benessere, e
il nostro sestetto cristallizza in un istante quell’indimenticata dimensione.
Dalla
quale, a dirla tutta, manca un’altra figura cara e ricorrente della mia
infanzia, ovvero la Michela Cibelli, romagnola trapiantata a Modena e
orsoliniana di ferro insieme a mia madre, la Gabriella e la Lucia. Con la
differenza che la Michela, anche negli anni Sessanta, era più evoluta se è vero
che, innamoratasi nel corso di una vacanza jugoslava di un gran bel pezzo di
figliolo tedesco, Hinerck, al suo rientro in Italia, con le amiche che le
dicevano: <<Sarà un fuoco di paglia, dimentica>>, ripartì lesta
alla volta della Germania riportando, oltre al tedesco - che poi sposò
quell’inverno, sfoggiando un favoloso bolero di visone bianco e un’acconciatura
platino alla Marilyn - una rivincita bestiale. Dall’improbabile ma fortunata
unione nacquero tre figli, i bellissimi Dadi che, da piccoli transitavano nelle
nostre case come unni d’antica memoria, seminando disordine, macchie e somma
costernazione, quest’ultima particolare retaggio di quel precisetti che è mio
babbo.
La
Mickey non c’era quel giorno e quindi non figura nella foto ma ci sarebbe stata
benissimo perché fa parte anche lei del mio piccolo, privato gineceo infantile,
lo stesso cui devo le cose migliori del mio essere, se è vero che da tutte
queste donne così diverse e meravigliose ho preso qualcosa di unicamente buono.
La mamma in joint venture con Dio mi ha dato la vita e le idee e il cervello.
Anche il caratterino che però la Gabriella mi ha insegnato a domare, se
m’impegno, perché con lei - utile e preziosa come la camomilla che, oltre a fiorire,
cura, profuma e lenisce, e tutto insieme
- è il cuore a venire prima di tutto, e ben che ha ragione. Dalla Mickey,
simpaticissima e ferocemente ironica, ardimentosa e piena in iniziativa, ho
preso il gusto per la battuta e magari la capacità di credere nei sogni (vedi
Hinerck) mentre dalla Lucia, più elegante di un bambù giapponese che lieve
ondeggia nella sera, l’amore per lo stile, la bellezza della forma,
l’importanza della discrezione.
Così,
sono stata contenta quando la mamma mi ha regalato una copia di quest’ennesima
foto di Beppe. Me la sono portata a Torino, naturalmente, e ho fatto sosta da
ZaraHome in cerca della cornice più adatta. Ne ho trovata una ovale col bordo
dorato e un fregio gentile che corre tutt’intorno, come un tralcio d’edera
sfuggito alla potatura. Ho adattato il formato, e in corrispondenza del mio
viso e di quello della Lucia ecco che la curva della cornice leggermente ci
oscura, ma stiamo bene lo stesso, e l’ovale ci cinge con rassicurante saldezza,
quella di cui tutti abbiamo bisogno, sempre.
In
realtà, possiedo una seconda foto della felicità, e anche di quella sono stata
inconsapevole per anni. Poi, Daniela Lazzarato, collega e amica di Torino, me
la mostrò per caso poco tempo fa. Eravamo ritratte io e lei a Cap Esterel, in
Provenza, nel giugno del 2000. Si era concluso un grosso incentive di successo,
festeggiavamo. Io avevo appena conosciuto Massimo, l’uomo che mi avrebbe
ricordato com’era vivere e poi morire, e il mio futuro si profilava gravido di
atroci dilemmi (ero infelicemente sposata) e di dolcissime possibilità (niente
è come l’amore).
Daniela
vestiva di bianco, ed era bionda e truccatissima. Truccata lo è ancora ma i
capelli sono più corti, adesso, e castani, una tonalità morbida che le
preferisco. Io, per contro, ho le lenti a contatto azzurre, vezzo di allora, i
capelli sciolti sulle spalle, ricci e con qualche ciocca bionda qua e là, come
s’usava in quegli anni, e indosso la brutta camicetta sintetica della defunta
divisa CWT. Anche così sembro carina, in quella foto, con gli occhi che parlano
di una stuporosa contentezza che, anche a distanza di anni, mi lascia senza
fiato, perché non sono più abituata a vederla.
Non
su di me.
Sì,
ero felice quel giorno. Felice come non lo sono più stata ma come – forse –
sarò domani o l’altro anno, chissà.
Ma
quella foto, nel ricordarmi l’alfa, mi riporta anche all’omega perché Massimo
andò e venne, come lo spot di una ricarica telefonica. Il mio divorzio fu duro
e cattivo, e tutto si portò: denaro, cose, ricordi e naturalmente l’illusione
di un futuro come l’avrei voluto io. Massimo, lui, non aspettò: sposò una donna
senza passato, più semplice e ricca, cui diede due figli. Quanto a me, pagai
con la miseria e la solitudine una libertà che pure meritavo. Non me ne pento.
Non si può morire se non si vive, e prima non vivevo, facevo solo finta. Non
che Massimo fosse eccezionale: non lo era. Ma l’innamoramento non ha bisogno di
geni o di eroi per dispiegarsi. E il mio caso lo dimostra, tant’è che adesso mi
struggo non per l’uomo perduto, che sarebbe stato infelice con me così come lo
sarei stata io con lui, bensì per come l’amore mi faceva sentire, per quelle
emozioni che mi eludono da oltre dieci anni.
E
qui solo Filippo Facci può veramente capirmi, forse, perché ne ha scritto una
volta… in quella curiosa rubrica che teneva su Grazia. Conservo quell’articolo con lo stesso riguardo che
riserverei a un disegno di Boldini. Non leggo quasi mai niente che mi
rappresenti. Ma il paragrafo finale di quel piccolo scritto in prima persona mi
ha quasi uccisa per l’assoluta nostalgia, l’atroce rimpianto, l’infinita
assenza delle cose che so di poter
provare e che pure non provo più.
Così,
quando rivedo quell’immagine di me e Daniela, abbracciate come sorelle nel
ristorantino all’aperto di Pierre & Vacances, non visualizzo la squisita
contentezza di quel momento in cui tutto pareva lecito e realizzabile, anche
l’amore nuovamente a trentacinque anni, bensì lo strazio che ne derivò per
tutti e soprattutto per me.
Ma
questa è un’altra storia, una foto senza cornice che oggi, finalmente, non
conta più.
L’amore
che non è stato non vale un racconto.
Lo
vale soltanto l’amore che è o che sarà. Di questo spero scrivere un giorno. E
poi non so.
La seconda fotografia della felicità
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