giovedì 22 agosto 2013

13 è bello

                                                   
(Con questo raccontino, un divertissement più che altro, arrivai nel 2009 tra i primi cinque classificati nell'ambito del concorso letterario della GTT di Torino, "Parole in corsa". Vinsi un abbonamento annuale ai mezzi pubblici e lo trovai bellissimo. Il che è strano, perché raramente trovo belle le cose utili.)


Io e la 13

Non c’ero mai salita.

Sul tram, intendo. Sono di Modena, da noi i tram non esistono. Esistevano. Poi li tolsero, risparmiando solo i filobus del centro.  Mai usati nemmeno quelli. Gli autobus, li prendevo anche, da liceale: il 15 col 29. In seguito, mi sono trasferita a Trieste. Di nuovo autobus. Solo che i numeri venivano coniugati al femminile. Tanto che il 29 (sì, lo pigliavo pure là) diventava “la” 29, con riferimento alla linea più che al mezzo.

In quattro anni di università ne ho prese tante, di 29. E c’erano giorni in cui la bora - che subdola s’alzava la sera, piano, e poi cresceva come un soufflé con troppe uova fino a durare un giorno o anche tre - ti spazzava via alla fermata se non ti ancoravi alla pensilina. Nel 1989 mi laureai, tornai a Modena e presi la macchina, inaugurando una proficua stagione da automobilista durante la quale approdai a Torino.

Guidare è decidere. Quando, dove, perché. Non dipendi. Vai. Ma ci sono volte in cui non sei tu a decidere, bensì altri. Accade così che un giorno l’automobile ci sia e il giorno dopo non ci sia più.

E’ quanto è accaduto a me il 27 febbraio scorso. Ho parcheggiato in Via Zumaglia la mia Alfa 147 grigia, detta “Musetto” perché bella di muso, e sono andata a casa, in piazza Chironi, dove ho passato la serata a cucinare e a dipingere un (brutto) vaso di zinnie.

L’indomani, un venerdì, Muso non c’era più. Ho rovistato il quartiere, chiesto in giro, pianto. Niente. Così, sono andata dai carabinieri dove ho scritto, anzi sottoscritto, l’epitaffio di una macchina che mi aveva dato immensa gioia e che stavo ancora finendo di pagare. Ma, si sa, i ladri non sono noti per la loro sensibilità. Per questo si chiamano ladri. Essi rubano senza sapere che cosa rubano. Senza sapere quale danno procurano oltre a quello materiale, di per sé gravissimo.

Nel mio caso, insieme all’auto, se ne è andata l’autonomia.

Ero a piedi. A piedi in una città come Torino che non è come Modena, dove basta la bicicletta. A Torino tutto è lontano, i ciclisti sono sparuti perché non esistono percorsi ad hoc se non per pochi tratti, e il traffico è feroce.

Tuttavia, dovevo muovermi, lavorare. Così, superato lo shock iniziale, sul quale non mi dilungo perché tutti conoscono il dolore e non hanno bisogno di sentirselo raccontare, mi sono rivolta al tabaccaio d’angolo per un corso accelerato di tram. “Come sarebbe a dire, un corso?”, ha ribattuto lui. Ho risposto: “Sarebbe a dire che non ho mai preso un tram e ora devo prendere la 13.” Avevo infatti scoperto che era quello il tram per l’ufficio e, siccome non usavo i mezzi da Trieste e a quei tempi mi ero fermata, ho usato l’articolo al femminile.

Il tabaccaio ha riso (ridono tutti a Torino quando dico “la” 13) per poi erudirmi su biglietto singolo, carnet, abbonamento bisettimanale, mensile, semestrale, annuale, eccetera. Tramortita dall’assortimento, ho acquistato il mio primo carnet e raggiunto la fermata. Lì ho trovato una signora in cappottino grigio cui ho domandato come si capivano gli orari. “Sono affissi al palo”, ha detto. Mi sono chinata a guardare ma senz’altro sembravo dubbiosa perché la madama ha aggiunto, asciutta: “Quando lo vede, lo prende.”

Mi è parso un gran buon consiglio. Così, così quando l’ho visto, l’ho preso. Anzi, l’ho scalato… visto che i gradini sono eterni. E lo dice una che misura 1.80.  Arrancando sul pavimento di gomma ondulata, ho obliterato il biglietto e mi sono accasciata sul primo seggiolino. In quella, le porte del tram si sono chiuse con un fragore di tuono. Per le prime cinque fermate non ho nemmeno respirato tant’ero nervosa. Poi mi sono appoggiata allo schienale di legno, che sembra scomodo ma non lo è visto che è sagomato, e ho guardato fuori. Ho guardato Torino che è bella dal tram, forse ancor più bella, perché ogni finestrino la incornicia in tante cartoline bordate d’acciaio che sfrecciano via come (bei) pensieri.

In prossimità della fermata, mi sono alzata. Qualcuno aveva già spinto il pulsante e ho spiato l’insegna rosso inferno. Poi il tram ha inchiodato, e ho affrontato i temibili gradoni… per ritrovarmi, sì, in pieno centro.

Ce l’avevo fatta: ero salita sul tram e ne ero persino ridiscesa. Mi fumavano le orecchie e certe frenate mi avevano fatto inghiottire finanche le mutande. Tuttavia ero arrivata, tanto bastava.

Da allora ne ho prese, di 13 (anche se non come di 29). Non solo. Ho organizzato la mia vita in base alla 13 o, per meglio dire, alla sua linea. Faccio compere in zona 13, ovvero in Piazza Castello e dintorni, prendo l’aperitivo al Gran Bar, capolinea della 13 e ceno da Michele in Piazza Vittorio o all’adorato Lapin Agile di via Ghemme, praticamente sotto casa. Con la 13 vado, con la 13 torno. Certo, Muso era un’altra cosa e presto arriverà una sua sosia. Ma anche allora prenderò la mia 13, controllando come faccio ora tutte le case e gli esercizi sul percorso, se la vetrina del macellaio di via Fabrizi trabocca come sempre di costine e braciole con l’osso, o se il mercato di Corso Svizzera ondeggia di gente o se quella sparuta bocca di leone rosa che per primo notò mio babbo (anche la famiglia mi porto sulla 13) ingentilisce ancora la gronda al 41 di via Cibrario.

Io sono nata di 13. Il 13 mi porta fortuna.

Anche “la” 13.

E al diavolo il ladro.

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